Esequie di don Filippo Naldi

“Una gioiosa eucarestia per il dono della vita, della fede, della speranza, della misericordia del sacerdozio, della gioia, delle lacrime, della salute, delle malattie e della morte che accetto e offro con la speranza della salvezza che non ho meritato, ma invocato dalla pietà di Dio e dal Signore Gesù, mio fratello e redentore. Spero di essere vostro e con tutti voi per sempre nella casa del Signore”.

Così ha lasciato scritto don Filippo nel suo testamento spirituale. L’Eucarestia è sempre ringraziamento, oggi tutta rendimento di grazie che unisce a lui, al dono della sua vita, che compiamo in questa casa da lui tanto amata, comunità che è stata, insieme alla sua famiglia di sangue, la sua famiglia. Scrisse della nostra Parrocchia di San Francesco quando venne dedicata, il 3 ottobre 1993: «Una chiesa, per la sosta settimanale, funzionale al riposo e al ristoro del corpo e dello spirito, nel cammino faticoso e logorante verso la casa del Signore. Una chiesa che quando entri ti evochi la gioiosa memoria dell’origine e della meta esistenziale; una chiesa sorella della domenica nell’accompagnare il cammino feriale dell’uomo verso l’ottavo giorno, quello senza tramonto, nella dimora eterna non costruita da mano d’uomo, una chiesa “atrio della casa del Signore” per la “lunghezza dei giorni”. La Chiesa dell’Ottavo giorno».

Don Filippo ci ha lasciato proprio di domenica, giorno del Signore, alla vigilia di quell’ottavo giorno della pienezza definitiva di “Tutti santi”, comunione di amore che unisce i “suoi” per sempre. Le letture che ci guidano sono proprio quelle di domenica, perché ci donano il senso di tutto e ci liberano dalla vittoria del non senso che è la morte. Lo possiamo fare in Cristo, colui che resta per sempre per il sacerdozio del popolo di Dio e di coloro che ne vivono il servizio, sacerdozio che non tramonta. Egli infatti è “sempre vivo per intercedere a loro favore, santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”.

Di fronte alla vita vera, alle tante incertezze, ai dubbi che si riaffacciano non richiesti, alla confusione oggettiva ed a quella che compare inattesa e non voluta dentro di noi con gli inevitabili dubbi, oggi ascoltiamo con gioia di nuovo la chiarezza di qual è il primo dei comandamenti. Era proprio questo che cercava lo scriba, perché desiderava essere rassicurato, anche perché spesso nel mondo è l’ultimo. Vale davvero la pena amare Dio e il prossimo? Lo scriba cerca un conforto su qualcosa che lo angustiava, come avviene sempre quando l’amore si confronta con il suo nemico che l’amore invece lo vuole spegnere, rendere insignificante, dimostrare che è un’illusione, renderlo vano, inutile.

Il più grande degli illusi, Gesù, sembra soccombere davanti alle passioni idolatriche degli uomini, con i loro comandamenti che chiedono in sacrificio la vita. Il primo comandamento è amare Dio; da questo poi deriva il secondo: amare il prossimo come sé stessi. È questo l’inizio di tutto e la conclusione di tutto. È il comandamento del cielo, viene da Dio, è quello che ci mostra la volontà di Dio perché è quello che è, che ci fa vivere bene sulla terra. È anche quello che ritroveremo nella pienezza della vita.

Infatti “Seguimi” e “Seguimi” sono le parole del credente, all’inizio della nostra vita con Gesù ed anche alla fine. E si segue chi si ama e si segue per amore. Il credente ripete l’amore che ha imparato e che Gesù ha reso concreto con la sua carne perché diventasse vita, lo incontrassimo nella nostra carne, salvasse la nostra carne. Lo scriba ripete le stesse parole dette da Gesù. Perché ripeterle? Le ripete, come ha notato con profondità Papa Francesco, perché la Parola non può essere ricevuta come una qualsiasi notizia di cronaca, perché la Parola del Signore va ripetuta, fatta propria, custodita, “ruminata” per assimilarla.

E aggiungo anche che lo ripete perché trova con gioia conferma a quello che cercava, perché trova conferma alla sua attesa, perché voleva proprio sapere che valeva la pena amare. E non smettiamo di capirlo perché l’amore si assapora sempre in modo nuovo. Lo ricordo anche di don Filippo che amava la scuola biblica, nella quale diceva che “io sono il primo alunno”. Il comandamento è il legame che unisce, più forte del nostro stesso peccato, perché non è condizionato dalla perfezione. Il comandamento è chiesto con amore da Dio, quindi il nostro amore nasce dal sentire il suo, dal farci amare da Lui, che lo fa per primo e per sempre.

È l’amore che porta alla perfezione, non la perfezione all’amore! Non viceversa, perché altrimenti creiamo tanti guasti e pericolose distorsioni. Il comandamento dell’amore lo mette in pratica chi vive in una relazione profonda con Dio, proprio come il bambino che diventa capace di amare ascoltando la madre e il padre. Sempre. L’amore si incontra con la storia concreta. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili. Lo sono anche in terra e in cielo. Troveremo tutto il prossimo cui la nostra vita si è legata. Anche quei rapporti che sembravano senza un legame esteriore, gli incontri che sembravano a noi perduti. La comunione conserva tutto, legame invisibile ma reale. Il comandamento non è fine a se stesso. Se è amore interessa anche all’amato!

Qualche volta rischiamo di proporlo e viverlo così. In realtà è solo per la nostra vita, per la gioia e per la vita eterna. La vita umana è “passaggio da questo mondo al Padre” (Gv 13, 1), l’ora della morte è il momento in cui questo si attua in modo concreto e definitivo. L’amore, solo l’amore libera dalla morte nel senso che della morte possiamo non avere paura perché siamo del Signore. Nessuno ci può separare, tanto che il nostro San Francesco, tanto caro a don Filippo, la chiama sorella disarmandola, vincendo il suo pungiglione con l’amore, sconfiggendo la paura che questa incute e che tanto ci fa smarrire.

La vita che non finisce inizia quando siamo uniti nell’amore e non restiamo prigionieri della paura che paralizza il cuore, riempie di rabbia, odio, ci rende indifferenti invece di aiutarci, competitivi invece di essere solidali, silenziosi invece di comunicare tra noi, autosufficienti invece di avere solidarietà, distanti e isolati invece di essere vicini e fraterni. L’evangelista Marco non si preoccupa di specificare chi è il prossimo, perché il prossimo è la persona che incontriamo nel nostro cammino. In cielo tutti saranno prossimo e la terra è un paradiso quando questo avviene. Il Vangelo ci invita ad essere attenti alla necessità di vicinanza fraterna, di senso della vita, di tenerezza. Non solo iniziative ma relazioni.

Che senso hanno attività senza legami di amore, senza compagnia, nel significato pieno e cristiano di questo termine. Il suo amore ci fa trovare il nostro io, quello per cui siamo stati fatti e conserva tutto quello che abbiamo vissuto, perfino i capelli del nostro capo. Risorgerà tutta la vita, niente andrà perduto, tutto troverà compimento, anche quello che noi non ricordiamo o non sappiamo valutare. La promessa di Dio è che siamo suoi nell’amore e non una proprietà.

Ama, non possiede! Ama e chiede solo amore. Noi non siamo schiavi che devono eseguire un ordine, programmati da un’intelligenza che si sostituisce alla nostra per non scegliere e decidere, ma siamo figli, figli ed eredi, con la piena dignità. Se restiamo noi padroni di noi stessi senza perderci nell’amore perdiamo l’eredità, perché l’amore non si possiede, si dona! Se abbiamo condiviso qualcosa la resurrezione comprenderà tutto ciò che ci siamo donati l’uno all’altro. La persona è e sarà intera, con tutta la sua vita perché niente va perduto e vedrà con chiarezza, senza velo, se stessa, senza nessuna interpretazione perché l’amore è molto più di una analisi che ti lascia sempre solo.

Un solo raggio della sua luce dissipa le tenebre più fitte. E questo raggio è affidato anche alla nostra santità, cioè amore. Ed è anche quello che è stato don Filippo, raggio di luce, di sincerità, di ripudio degli infingimenti, senza retorica. Dietro la sua scorza di un tratto a volte pensoso o assorto nei suoi pensieri, emergeva la capacità di generosa compassione, il desiderio di amicizia e di fraternità. Uomo schivo era attento e capace di gesti concreti di sensibilità e vicinanza.

Sapeva ricordarsi delle persone e delle loro vicende (soprattutto tristi) anche dopo molto tempo. Tante persone si sono sentite accolte, ascoltate, confortate e sostenute. La misericordia di Dio nelle sue omelie, la domandava prima di tutto per sé stesso. Pubblicamente a volte ha domandato perdono a chi avesse ferito. Era felice della “sua chiesa”, delle sue forme semplici, della luminosità che giudicava adatta alla preghiera, al dialogo con Dio. Viveva lui la semplicità che comunica San Francesco, abituato a citarlo nelle omelie, preparate con scrupolo, sempre scritte.

Era attento alla vita delle persone, non clericale, familiare, perché per lui la Chiesa era, come scrisse “una madre quando sono solo, smarrito, sconsolato, stanco e infreddolito; e quella madre mi abbraccia e mi riscalda e mi consola e mi rassicura e mi ristora anima, cuore e corpo”. E ringrazio don Giovanni e tutta la comunità perché lo avete accompagnato in questi mesi di debolezza con tanto amore, facendolo sentire sempre a casa! Ne sono orgoglioso e vorrei che fosse così sempre in tutte le nostre comunità e così per tutti.

Aggiungeva don Filippo: «Una chiesa icona di Dio “con noi” e “per noi”. Una chiesa, anche, dove occhi per i gesti, udito per l’ascolto e tatto per le “presenze” soccorrano la domenicale fatica della ricostruzione di una fraternità ferialmente ferita, se non frantumata. Una chiesa nel cui seno l’intreccio delle gioie e delle lacrime, dei pentimenti e delle gratitudini, delle invocazioni e dei lamenti trovino accoglienza, soccorso e composizione, per salire con più speditezza e interezza a Colui che di ogni cuore è meta e casa».

Ecco, grazie don Filippo e prega per noi accanto al Signore che amerai per sempre e dal quale sarai amato per sempre. In pace.

“Una gioiosa eucarestia per il dono della vita, della fede, della speranza, della misericordia del sacerdozio, della gioia, delle lacrime, della salute, delle malattie e della morte che accetto e offro con la speranza della salvezza che non ho meritato, ma invocato dalla pietà di Dio e dal Signore Gesù, mio fratello e redentore-. Spero di essere vostro e con tutti voi per sempre nella casa del Signore”.

San Lazzaro di Savena, chiesa di San Francesco di Assisi
03/11/2021
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