congresso nazionale ATISM su “il futuro come responsabilità morale”

Bologna, Seminario regionale

“Maestro, che cosa devo fare?” (cf Lc 10,25)” “Amerai” (cf Mc 12,29).

La domanda del dottore della legge (“che cosa devo fare?”) ci richiama il problema etico col minimo di parole e col massimo di semplicità. La risposta di Gesù come è riferita dal vangelo di Marco (“amerai”) ci dà, con la sua formulazione più sintetica, l’intero contenuto della morale cristiana.

A chi tocca insegnarci “che cosa dobbiamo fare”? Tocca alla Chiesa.

La Chiesa, Sposa di Cristo, in virtù dello Spirito Santo che la rende feconda, genera l’umanità nuova mediante l’annuncio della verità rivelata e mediante le azioni sacramentali, efficaci di grazia. Ella sa e non dimentica quanto le ha confidato il Risorto prima di salire al cielo: “Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo” (cf Mc 16,16).

Essendo “madre”, la Chiesa è per intrinseco dinamismo anche “maestra”. E’ senza dubbio una “maestra subalternata”, e a ciascuno dei suoi figli che le chiede: “Che cosa devo fare?”, non può dare altro programma di vita che quello proposto dal suo Sposo e Signore: “Amerai”; “amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze” Amerai il prossimo tuo come te stesso” (cf Mc 12,30.31).

Lei sola è madre; e dunque solo a lei compete di educare coloro che sono nati da lei. Nessun singolo – che parli a nome proprio, quasi isolandosi dal corpo ecclesiale e appoggiandosi interamente sulle sue attitudini argomentative – può ardire di farsi precettore dei suoi fratelli. Da quando è brillato nelle nostre tenebre il Logos di Dio, la “luce vera che illumina ogni uomo” (cf Gv 1,9), nessuno può pretendere di rischiarare agli altri la strada dell’esistenza con le proprie genialità e le proprie bravure. Gesù – che conosce le nostre propensioni a prevaricare in questo campo – ci ha ammoniti per tempo: “Non fatevi chiamare ëmaestri’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo” (Mt 23,10).

Eppure a voi si assegna la qualifica di “docenti di morale cattolica”; e quindi vi si riconosce il diritto e il dovere di dire agli altri che cosa devono fare per “ereditare la vita eterna” (cf Lc 10,25). Come mai?

La risposta è scontata: questa qualifica, questo diritto, questo dovere sono legittimamente vostri a misura che vi attenete all’altissimo compito di dare voce e attualizzazione, in mezzo ai vostri fratelli (e anzi in mezzo ai vostri condiscepoli), al magistero della Chiesa: lei sola, madre e maestra, ha la garanzia certa di restare fedele in ogni epoca alla dottrina vitale dell’unico “Rabbi” (cf Mt 23,8).

Anche voi dunque insegnerete ad amare, perché nel comando dell’amore – secondo quanto ci ha detto con chiarezza il Signore Gesù – c’è il vertice, la sintesi, l’anima di tutta la legge.

Ma solo chi ama può insegnare efficacemente ad amare. Sicché diventa per voi imperativo inderogabile e previo che vi adoperiate a dilatare ogni giorno l’amore, l’amore unico e vero, dentro di voi.

Amate prima di tutto il Signore Gesù, il “più bello tra i figli dell’uomo” (cf Sal 45,3), nel quale la Divinità augustissima si è avvicinata a noi e si è resa concretamente amabile, assumendo volto e cuore di uomo. Amate senza infedeltà e senza avarizia di spirito la Chiesa, sua Sposa, da lui instancabilmente abbellita (oltre ogni inevitabile difetto e ogni fatale bruttezza dei suoi membri) con l’energia inesauribile del suo affetto. E amate l’uomo, immagine viva e vera, anche se inadeguata, di colui che è l’immagine viva, vera e adeguata del Padre.

Verso l’umanità debole, sofferente, smarrita, il vostro sia essenzialmente un amore di misericordia.

Ma non sia una misericordia “vostra”: sia sempre l’eco attendibile e autentica della misericordia di Dio. E Dio dimostra la sua pietà sostanziale indicandoci, come strada necessaria alla salvezza, quella di rivelare e chiarire senza incertezze e senza sconti le “cose come stanno” e di additare in modo limpido e inequivocabile le cose “come devono essere” per conformarsi al suo eterno disegno di benevolenza.

Se vi farete banditori non di una misericordia mondanamente intesa ma della misericordia del Padre, allora il vostro impegno, la vostra ricerca, il vostro insegnamento sarà “una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità” (cf 1 Tm 2,3-4). Perché “uno solo è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (cf 1 Tm 2,5), e nessuno può intromettersi in questa unica ed esauriente mediazione o tentare comicamente di migliorarla.

Nessuna “svolta antropologica” può essere seriamente ipotizzata o vantata all’interno della riflessione teologica, all’infuori di quella che sta all’origine di questo concreto progetto di creazione e di redenzione, quale di fatto è stato scelto in Cristo prima di tutti i secoli: l’unica vera “svolta antropologica” è stata compiuta dal Padre, quando ha deciso che al centro e al cuore dell’universo ci fosse il suo Unigenito fatto uomo.

Il vostro diventerà così un intelligente servizio alla verità, una preziosa collaborazione alla misericordia di colui che solo conosce ciò che c’è nell’uomo e ciò di cui l’uomo ha davvero bisogno, una “epifanìa” con parole e accenti comprensibili a tutti dell’amore increato che ci redime e ci rinnova. Su questo “servizio”, su questa “collaborazione”, su questa necessaria “epifanìa” noi con questa celebrazione invochiamo di cuore la benedizione del Signore.

Della pagina evangelica, che ci è provvidenzialmente offerta in questo giorno liturgico, ci limitiamo a lasciarci illuminare da due sole espressioni.

“Prendi il largo” (Lc 5,4), dice Gesù a Simone. L’invito giunge inaspettato e stupisce quegli abili pescatori, che già avevano lavorato tutta la notte e non avvertivano nessuna voglia di riprendere la fatica nell’ora più sfavorevole. Ma il Signore è perentorio, forse perché più che ai pesci pensa alla missione della sua Chiesa nel mondo. La sua è perciò una voce che risuona ancora attuale all’orecchio di chi è chiamato a essere responsabile della barca apostolica che varca il mare dei secoli, pur tra molte tempeste e molte frustrazioni.

“Prendi il largo”: non aver paura di allontanarti dalle opinioni della folla; dalle insipienze conclamate, le quali, anche quando sono di moda e ampiamente diffuse, non cessano per questo di essere insipienze; dalle regole di comportamento più divulgate, connotate troppo spesso dall’egoismo e dall’assenza di ogni superiore speranza.

Prendi il largo, Chiesa di Dio, se vuoi che la tua sollecitudine abbia un esito positivo e la tua pesca di uomini non riesca infruttuosa. Una Chiesa assimilata a quella che san Paolo chiama “la mentalità di questo secolo” (cf Rm 12,2) non converte nessuno.

Non aver paura di sentirti sola, quasi superata e travolta dall’incedere della storia, se il tuo Signore è con te. Non dare ascolto a chi, nell’intento di avvicinarti alle realtà della terra, in definitiva ti conduce a insabbiarti. Se ti insabbi, diventi superflua, anzi inutile nella vicenda umana, perché sei fatta per navigare.

“Sulla tua parola getterò le reti” (cf Lc 5,5). E’ la risposta di Pietro, che così oltrepassa di colpo quanto gli sarebbe stato suggerito dalle sue cognizioni professionali, dalle sue esperienze, dalle sue normali capacità di pescatore.

Non sono le nostre fatiche notturne o diurne; non è il nostro continuo discutere, il nostro progettare, il nostro affannarci a rendere davvero efficace la nostra presenza tra gli uomini e feconda la nostra azione pastorale. E’ la forza della nostra fede: “Sulla tua parola”. E’ la convinzione che il Signore Gesù è con noi, sulla nostra stessa barca, e sa dare energia e valore alla nostra povera testimonianza, alla nostra debole e discorde operosità, alla nostra stessa esistenza di persone che vivono serenamente nel mondo senza però accoglierne la signorìa culturale.

Perché il segreto della vitalità della Chiesa non sta tanto nella sua ansia di rendersi più credibile (e dunque più accettabile e meno conflittuale), quanto nell’umile e sincera volontà di essere più credente (vale a dire, più vicina a Dio e alla sua legge d’amore).

07/09/2000
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