Festa del lavoro 1997

Bologna, Cattedrale

Mai come quest’anno percepiamo l’opportunità – anzi la necessità – di questo raduno di preghiera. Noi, affidandoci all’intercessione di san Giuseppe, siamo qui a pregare per gli uomini che lavorano (e per i loro problemi vecchi e nuovi); per gli uomini e i giovani che non riescono a lavorare (e per i loro disagi, che sono ancora più gravi); per gli uomini che – in forza dei loro compiti culturali, economici, sociali e politici – sono chiamati ad affrontare e a tentar di risolvere le questioni ardue e decisive dell’occupazione e della sua equa distribuzione, di un’organizzazione “umana” delle responsabilità e delle fatiche, di un utilizzo non alienante del tempo, nel contesto sempre più complesso delle moderne tecnologie.

Il nostro dovere primo e diretto – specialmente in questa sede – è appunto quello di elevare la nostra implorazione al Padre del cielo, soprattutto perché sia rianimata la nostra fede, sia rinvigorita la nostra speranza, sia riconfermata la nostra adesione alla legge evangelica dell’amore. Quando prevale lo scetticismo e la sfiducia, tocca giustamente ai cristiani offrire certezze rasserenanti e riproporre gli ideali di fraternità.

Il tempo che stiamo vivendo è senza dubbio segnato dall’ansia e dalla confusione.

Certo, la società italiana – dopo il lungo periodo che ha conosciuto l’apporto decisivo dei cattolici alla vita pubblica – non si trova neppur lontanamente nelle condizioni miserevoli delle molte nazioni che hanno dovuto subire l’insipienza disumana del comunismo. E di ciò non dobbiamo stancarci di ricordarlo a tutti e di ringraziare il Signore.

Ma è innegabile che oggi siamo alle prese con un cumulo di difficoltà quasi inestricabili.

E siamo in molti a essere disorientati davanti a questo generale malessere e in special modo davanti alla “dispersione” dei nostri fratelli di fede.

Quando i giorni si fanno sbandati e nebbiosi, la cosa più urgente da fare – se non ci si vuol smarrire del tutto – è di rendere più nitida la nostra identità.

Essere sempre e in ogni circostanza quello che siamo, con piena convinzione e coraggiosa chiarezza: ecco il primo proposito che oggi siamo qui a ribadire nella casa di Dio.

L’identità cristiana si delinea con tanto maggior evidenza quanto più cresce in noi la conoscenza del Signore Gesù, come unico Salvatore del mondo; la conoscenza della realtà santa e santificante della Chiesa; la conoscenza dell’uomo e della sua dignità inalienabile, alla luce della verità evangelica.

Gesù è l’unico Salvatore del mondo. Questo, per la nostra sorte personale, significa che nessuna pur lodevole attenzione al dialogo con le altre religioni e con le estranee filosofie può farci dubitare mai che, come sta scritto, “non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

Questo, per il nostro impegno culturale, significa che nessun doveroso rispetto di chi ha opinioni diverse dalle nostre deve portarci a poco a poco allo stemperamento della fedeltà a colui che è il solo Maestro. Questo, per la nostra militanza civile, significa che la nostra visione sull’uomo e sulla società non va mai attinta alle ideologie in contrasto col messaggio di Cristo.

Ma non basta. Per salvaguardare sul serio la nostra identità occorre che sia sempre preciso e vigoroso in noi il senso della nostra appartenenza ecclesiale. È una fortuna e una ragione di gioia vivere e agire entro il gregge dell’unico vero Pastore; una fortuna e una ragione di gioia che sempre dobbiamo saper custodire.

Non fidatevi di quelli che dicono: “noi siamo Chiesa”, e non dimostrano un’autentica e cordiale consonanza di persuasioni e di sentimenti con il Successore di Pietro e con i successori degli apostoli. Come dice sant’Ambrogio: “Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa; dove c’è la Chiesa lì non c’è nessuna morte, ma la vita eterna” (In psalmum 40, 30). Le cattive teologie hanno già recato abbastanza danni ai lavoratori cristiani.

Dal magistero di Cristo, infallibilmente custodito dalla Chiesa, noi desumiamo una inconfondibile concezione dell’uomo, che è posta al riparo da tutte le follie che stanno infestando la terra. Su questa concezione dell’uomo si fondano anche le nostre irrinunciabili scelte solidaristiche e la nostra fattiva attenzione verso i popoli più bisognosi.

In virtù di questa concezione dell’uomo noi reagiamo a ogni attacco contro la vita umana innocente, contro la saldezza della famiglia, contro il permissivismo e il relativismo morale.

E reagiamo con la stessa fermezza con cui la Chiesa ha sempre condannato ogni attacco a colui che è l’immagine viva di Dio, creato in Cristo e redento da Cristo.

Tra queste innumerevoli condanne, oggi mi piace ricordare – nel suo sessantesimo anniversario – quella del nazionalsocialismo, e delle infami teorie razziste, pronunciata da Pio XI nell’enciclica, scritta in lingua tedesca, Mit Brennender Sorge. Il 1937 – non bisogna dimenticarlo – era il tempo del maggior trionfo di Hitler, e nessuno nè in Occidente nè in Oriente osava allora contrastarlo. Solo il papa ebbe il coraggio di mandargli a dire profeticamente: “Verrà il giorno in cui, invece dei prematuri inni di trionfo dei nemici di Cristo, si eleverà al cielo dai cuori e dalle labbra dei fedeli il ‘Te Deum’ della liberazione…Ai persecutori e agli oppressori possa il Padre di ogni luce e di ogni misericordia concedere l’ora del ravvedimento per sè e per i molti che insieme con loro hanno errato ed errano”.

Tra le varie preoccupazioni dei nostri giorni, ce n’è una che dovrebbe essere particolarmente pungente per ogni coscienza cattolica, ed è quella per la scuola.

Su questo argomento sarebbero molte e gravi le cose da dire. Qui mi limito a due brevi cenni, uno a proposito della scuola così detta privata e uno a proposito della scuola in generale.

L’Italia non sarà mai un paese compiutamente democratico fino a che non sarà consentito ai lavoratori cattolici di assicurare ai loro figli una educazione secondo le proprie convinzioni, nelle scuole da loro liberamente scelte. E a ragion veduta dico “lavoratori cattolici”, perché oggi con l’ingiustizia del mancato finanziamento statale, godere della libertà scolastica resta di fatto un oneroso privilegio delle classi abbienti.

Vorrei anche aggiungere il mio auspicio che il doveroso intervento economico dello stato a favore delle scuole così dette private trovi però le forme operative più idonee perchÈ anche questo atto di equità non si risolva di fatto in una ulteriore e più deprecabile invadenza statalista.

Su questo argomento in generale, mi pare bello e opportuno riferire il parere di un autore che di solito nelle omelie non è molto citato. Ma noi non abbiamo pregiudizi, persuasi come siamo della validità dell’insegnamento di S.Tommaso D’Aquino: “Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dalla Spirito Santo”.

La frase è di Antonio Gramsci e dice testualmente così: “Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato” (Scritti 1915 – 1921 in Nuovi Contributi a cura di Sergio Caprioglio, I Quaderni de “Il corpo”, Milano 1968, p. 85)

Almeno su questo punto, ci associamo anche noi alla diffusa ammirazione per il pensiero gramsciano.

Quanto all’intera scuola italiana, credo che tutti dobbiamo auspicare che i programmi – particolarmente in materie dove il pluralismo culturale è ovviamente insuperabile – siano concordati nel rispetto di una ragionevole libertà e non siano frutto di imposizioni verticistiche.

Il Signore salvi i ragazzi d’Italia, per esempio, da qualche presentazione della storia, di cui si ha notizia; che è da supporre susciti in cielo l’ilarità dei Cherubini.

01/05/1997
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