Incontro: Riflessioni pastorali su Amoris Laetitia

Debbo subito premettere che non intendo fare un’analisi completa ed accurata della proposta pastorale di Amoris Laetitia (AL): il tempo a disposizione non me lo consente. Il mio proposito è più modesto. Desidero darvi alcune chiavi di lettura, e richiamare la vostra attenzione su alcuni punti nodali della proposta pastorale di AL.
I punti nodali su cui mi fermerò, alla luce e secondo il Magistero di AL, sono due: la sacramentalità del matrimonio; la rilevanza pubblica del matrimonio.
In una seconda parte della mia riflessione cercherò di mostrarvi la chiave di lettura di AL.
PRIMA PARTE
1. la sacramentalità.
Al n° 211 il S. Padre scrive: «La pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri».
Premetto un’osservazione generale. Col sostantivo “pastorale” noi connotiamo l’azione della Chiesa tesa ad introdurre la persona umana nel Mistero di Cristo. Quindi “pastorale del vincolo” connota l’azione della Chiesa tesa a far vivere il bene della Salvezza che è il vincolo coniugale. Non penso di esagerare dicendo che la proposta di AL del N° 211 chiede a noi pastori una vera conversione pastorale.
Si ha una intelligenza vera del vincolo coniugale solo alla luce della sacramentalità. Anzi i Padri della Chiesa e i grandi Teologi medioevali pensavano le due realtà sempre correlate. Devo essere molto sintetico.
Il vincolo coniugale non è in primis un obbligo morale proveniente da un patto bilaterale: pacta sunt servanda. Esso è una realtà [una res] di natura sacramentale [sacramentum]. È Cristo, il Signore risorto, che agisce ponendo in essere una trasformazione ontologica della persona degli sposi, mediante il suo Spirito. La trasformazione consiste nella congiunzione dei due sposi in un vincolo di reciproca appartenenza: “ciò che Dio ha unito”. Questa reciproca appartenenza è la partecipazione al vincolo che unisce Cristo e la Chiesa; ne è il simbolo reale.
Una tale trasformazione del patto-consenso coniugale comporta una trasfigurazione dell’amore coniugale in carità coniugale. Mi fermo un momento su questo.
La logica della vita cristiana non è la logica della separazione, ma della trasfigurazione. Il corpo non è separato dallo spirito, ma è trasfigurato nella conformazione al corpo glorioso del Risorto. L’eros e l’amore coniugale non è separato dalla carità-virtù teologale-coniugale, ma trasfigurato. La trasfigurazione è dono dello Spirito, e quindi compito della libertà umana: la trasfigurazione deve diventare integrazione. Il processo di integrazione è l’acquisizione della virtù della castità coniugale, da non identificare colla continenza.
Come ho avuto modo di spiegare altrove, nella seconda metà del XVI secolo, soprattutto a causa di un teologo gesuita, G. Vasquez [1549-1604] si è ridotto la sacramentalità del matrimonio al “diritto” di avere le grazie necessarie per essere fedeli agli obblighi di un patto semplicemente naturale.
La pastorale del vincolo coniugale della quale parla il S. Padre deve ricuperare la realtà sacramentale del vincolo medesimo.
2. la pubblicità dello stato coniugale. È un nodo pastorale oggi di straordinaria importanza. Cerchiamo prima di tutto di capire di che cosa stiamo parlando.
“«Stato» è all’interno della Chiesa una determinata forma di vita che attraverso un legame cristianamente rilevante (e non semplicemente civile o professionale) determina come differentia specifica lo stato cristiano universale generico” [H. U. von Balthasar]. Possiamo aiutarci prendendo spunto dal diritto romano pubblico. In esso si distingueva la condizione di cittadino romano dall’appartenenza ad un ordine [per es. ordo senatorius] che comportava precisi doveri. Questo basti per il concetto di “stato coniugale”, posto in essere da un Sacramento, cioè da un atto che per sua natura è rilevante per la Chiesa.
Non è difficile capire che al concetto teologico di “stato di vita” è connesso in modo inscindibile il concetto teologico di vocazione-missione, avente a che fare coll’edificazione della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che la missione degli sposi è la procreazione-educazione nella fede: i primi ed originari testimoni del Vangelo. A questa missione AL dedica il cap. V ed il cap. VII.
Molte sono le ragioni che persuadono a porre la dimensione ecclesiale al centro della pastorale matrimoniale. Mi limito ad una. Assistiamo ad una progressiva privatizzazione del matrimonio; a rinchiuderlo dentro la sfera dell’esclusività: intimità, particolarità, individualità. È un affare tra noi due; è solo affetto, stare bene assieme, piacersi. Risultato: poiché tutto ciò è vero anche della relazione omosessuale, non si vede più perché non si debba riconoscere il matrimonio omosessuale.
Ho terminato la prima parte. Ho cercato di individuare, alla luce di AL, due nodi fondamentali della pastorale matrimoniale. Li ho chiamati “nodi” perché sono un groviglio di secolari processi culturali, sui quali il tempo a disposizione non ci ha permesso di riflettere. Passiamo quindi alla seconda parte.
SECONDA PARTE
In questa seconda parte vorrei rispondere alla seguente domanda: come alla luce di AL possiamo affrontare i due nodi individuati nella prima parte? O: come rendere la nostra pastorale matrimoniale una pastorale del vincolo e una pastorale della vocazione–missione matrimoniale?
01. Faccio una premessa metodologica di straordinaria importanza. Una delle costanti di AL è il richiamo alla singolarità, alla irripetibilità della persona e quindi della sua situazione. Questa verità filosofica e teologica deve generare in noi un’attitudine di profondo ascolto, di vera condivisione, in una parola: di accompagnamento. È questa una parola chiave di AL.
Da questa verità si deve concludere che non esistono leggi morali universalmente obbliganti, cioè semper et pro semper, ma solo generalmente obbliganti, cioè ut in pluribus? Vi prego di prestare la massima attenzione. Siamo ad un punto centrale del progetto pastorale di AL. Per rispondere con verità a quella domanda dobbiamo avere (a) una visione corretta di legge morale e (b) di accompagnamento pastorale.
(a) La legge morale non è l’imposizione exterius data dalla divina autorità alla libertà umana, la quale si trova in sé in una condizione di originaria indifferenza. L’essenza della legge morale si trova nella verità sul bene della persona, che in essa (legge morale) è oggettivato. La legge morale naturale quindi è opera della ragione, facoltà del vero, in quanto partecipazione alla Luce eterna del Verbo. La legge morale soprannaturale – la lex evangelica – è la conseguenza dell’ontologia soprannaturale donataci per mezzo dei Sacramenti.
Attraverso il vero, la legge morale viene a contatto con la coscienza, la quale, per così dire, trasforma il vero in dovere. In breve: la legge morale è la verità della persona in quanto verità affidata alla libertà. Questo significa “verità pratica”.
Esiste quindi una coesione essenziale fra verità pratica e persona; ed esiste una coesione esistenziale che è affidata al rischio della libertà, la quale può rompere la coesione essenziale facendo il male. La negazione della prima è alla base del Nominalismo estrinsecista, che non può non porsi il tema della condizione della persona che come un “caso” contemplato o non dalla legge morale. Non solo. Ma la legge morale non è neppure un “ideale” verso cui tendere: non esiste un matrimonio ideale, ma solo un matrimonio vero o falso cioè nullo, un matrimonio più o meno vero.
Da quanto detto risulta che esiste una distinzione fra leggi morali negative assolute, che non ammettono eccezioni e leggi morali positive, che possono in determinate circostanze non obbligare.
(b) Tenendo presente quanto detto, comprendiamo in che cosa consiste l’accompagnamento, e quindi il discernimento. Essi denotano l’attività del Padre spirituale che aiuta, indicando i mezzi che la Tradizione della Chiesa ha sempre usato e raccomandato, il fedele a prendere coscienza della verità circa il bene della sua persona e quindi della condizione in cui versa. Accompagnamento e discernimento hanno come scopo di aiutare a crescere nella Verità del nostro essere in Cristo. I Padri della Chiesa parlano di generazione di se stessi secondo la verità del proprio essere in Cristo. “La verità di Gesù può apparire a prima vista estranea e crocifiggente, […] ma essa diviene progressivamente la verità dell’uomo stesso” [I. de la Potterie]. Tutto questo è radicato nel Sacramento del matrimonio e scaturisce da esso. Accompagnamento significa aiutare gli sposi a vivere secondo questa forma, e discernimento significa aiutarli a compiere i passi lungo questo itinerario.
1. La prima condizione per rendere la nostra pastorale matrimoniale una pastorale del vincolo e della missione, è che il pastore abbia chiaro il progetto. Cioè: abbia una buona formazione antropologica e teologica. Anche antropologica, poiché il Sacramento non è altro che lo stesso matrimonio naturale trasfigurato da e in Cristo.
Faccio due osservazioni al riguardo. La prima. Dobbiamo assolutamente far cessare il silenzio sul tema della castità. La seconda. Non possiamo ignorare il grande magistero di Giovanni Paolo II sul corpo. Una volta il Santo Pontefice mi disse: è impossibile annunciare il Vangelo ai giovani se non si affronta con loro il tema dell’amore umano fra uomo e donna.
2. Specialmente oggi l’itinerario è assai faticoso. Del resto i primi ad accorgersene sono stati gli Apostoli: «se questa è la condizione dell’uomo che si sposa, meglio non sposarsi». Pensiamo ai primi nostri fratelli nella fede, chiamati a vivere il Vangelo del matrimonio in una Roma nella quale, ci dice Tacito, le donne datavano i loro anni non col nome dei Consoli ma con quello dei mariti. E non è “abbassando l’asticella” che si è misericordiosi, ma indicando i grandi mezzi soprannaturali che ci danno forza.
3. Chi deve trasformare la pastorale del matrimonio in pastorale del vincolo e della missione? Il sacerdote e gli sposi stessi. Del sacerdote ho già parlato. E’ necessario che si abbiano comunità di sposi in parrocchia, vere minoranze creative, che si sostengano e camminino assieme, edificandosi a vicenda.
Concludo. Non sono sceso molto al particolare, perché non mi competeva. Mi piace concludere con una citazione di un grande filosofo del secolo scorso, D. von Hildebrand.
“Poter amare […] è un dono di Dio. Ma contiene anche un compito, un appello alla nostra libertà. E non solo la fedeltà, non solo il conservare e difendere il proprio amore, ma anche il fatto che dobbiamo imparare ad amare veramente”.
La situazione di oggi non chiede di andare oltre il Vangelo, ma semplicemente di annunciare con mite fortezza il Vangelo del matrimonio.

12/09/2016
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