La Fede salva la ragione

            Mi sia consentito iniziare dalla citazione di un testo di Platone:

«trattandosi di questi argomenti [cioè: gli argomenti concernenti il senso della vita e della morte], non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere dagli altri quale sia la verità; oppure scoprirla da se medesimi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita; a meno che si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, ossia affidandosi ad una divina rivelazione»

                                                                          [Fedone, 85 C-D]

            E’ un testo mirabile. L’uomo che non voglia rinunciare alla sua nobiltà, non può non cercare la verità circa le questioni fondamentali della vita e della morte. Quale strumento ha di ricerca? La ragione; non ne possiede altri. L’uomo può usarla personalmente oppure apprendere da altri, ritenuti più sapienti, ciò che colla loro ragione hanno scoperto.

            Ma non sempre l’uomo raggiunge, usando questo strumento, la verità; al massimo può arrivare a farsi un’opinione più o meno probabile; a formulare ipotesi più o meno fondate. Ed allora, che fare? Poiché siamo comunque costretti a fare la traversata del mare della vita, saliamo con timore e tremore su questa, la nostra ragione, che è una ben fragile imbarcazione: una zattera.

            In realtà, ci potrebbe essere un’altra possibilità, che però rimane tale: che Dio stesso risponda alle nostre domande. La ragione non può andare oltre: lanciare un grido di aiuto alla divina Rivelazione. E’ di questo che noi parleremo questa sera.

            1. Prima di iniziare a trattare questo argomento, è necessario liberarci da un grave pregiudizio, il quale è talmente presente nella cultura in cui viviamo che siamo portati a condividerlo, senza alcun sospetto che si tratti al contrario di un grave errore.

            Potrei formulare questo pregiudizio nel modo seguente: esiste una sola conoscenza che possa qualificarsi vera o falsa, la conoscenza scientifica; chi dice qualcosa di non-scientifico esprime solo opinioni non argomentabili in un confronto razionale, e dunque non sottoponibili ad un dialogo vero fra soggetti razionali.

            Spiego alcuni termini di questa formulazione. Se uno dice: «ho tot globuli rossi», fa un’affermazione verificabile o falsificabile attraverso una strumentazione tecnica, fondata e collaudata. Se uno dice: «Ã¨ meglio subire un’ingiustizia piuttosto che compierla», fa un’affermazione che non è verificabile o falsificabile allo stesso modo. E fino a questo punto, tutti siamo d’accordo. Chi però ha fatto proprio quel pregiudizio continua dicendo: “poiché non è possibile dimostrare la seconda proposizione allo stesso modo, cioè collo stesso metodo con cui dimostro la prima, essa non può essere qualificata come vera o falsa; è una semplice opinione; è ugualmente possibile razionalmente tenere l’opinione contraria, senza alcuna possibilità di dirimere la questione”.

            Fatto proprio questo pregiudizio, si conclude: stando così le cose, ciascuno sia tollerante verso l’opinione dell’altro. Fate bene attenzione. Si è in questo modo passati dalla tolleranza, meglio dal rispetto che si deve ad ogni persona qualsiasi opinione abbia su qualsiasi questione, al rispetto di ogni opinione e del contrario di ogni opinione. Il tema è assai importante.

            La “tolleranza” [ma preferisco dire: il rispetto] che si deve ad ogni persona, è stata attribuita alle opinioni [ogni opinione deve essere rispettata] ritenendo che esse, non essendo dimostrabili scientificamente, non possono essere oggetto di discussione razionale.

            Fatto proprio questo pregiudizio, non ha più senso parlare di religione vera o falsa, poiché le proposizioni che hanno un contenuto religioso non sono scientifiche.

            Il pregiudizio scientista ha conseguenze devastanti sulla persona, e sull’esercizio sella sua ragione. Esso preclude la conoscenza di intere regioni del vivere umano che sono le più affascinanti; se fatto proprio, quel pregiudizio finisce coll’estinguere  nella ragione il desiderio di conoscere la verità circa le questioni più importanti della vita. Se infatti sono convinto che ogni risposta alle medesime ha lo stesso valore del suo contrario, perché dovrei andare alla ricerca? Se un uomo è perdutamente innamorato di una donna, fa di tutto perché ella corrisponda solo se ha qualche speranza che ciò avvenga. Se non c’è alcuna speranza, alla fine vi rinuncia. Così è la nostra ragione. Essa è naturalmente innamorata delle verità supreme; ma se si convince che non ci arriverà mai, che esse sono indiscernibili dall’errore, o prima o poi l’amore si estingue e la ricerca finisce.

            Che cosa produca nella vita dell’uomo il pregiudizio scientista, è stato espresso da Benedetto XVI nel suo discordo al Reichstag di Berlino il 22 settembre 2011: «La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio». Non si poteva esprimere meglio la chiusura, la limitazione che opera nella vita dello spirito il pregiudizio scientista.

            Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedermi: perché è così importante in ordine alla fede cristiana non lasciarsi contaminare dal pregiudizio scientista? Per evitare di ridurre la fede ad emozione, sentimento, mera soddisfazione dei bisogni della natura umana; in una parola: a qualcosa che non ha nulla a che fare colla ragione, colla quaestio de veritate.

            Mi spiego, ripetendo forse ciò che ho già detto, ma è molto importante. Se uno è “contaminato” da quel pregiudizio vi dirà: «le religioni non sono né vere né false, perché appartengono ad una dimensione dell’umano che non ha a che fare colla ragione. E’ questione soggettiva: ciascuno si tenga la propria nel privato della sua coscienza. Non è che non abbiate diritto ad averne una, secondo la tradizione in cui siete nati e l’educazione ricevuta; in modo analogo a come ciascuno ha fiducia in un medico piuttosto che in un altro, in una banca piuttosto che in un’altra».

            Ora un tale modo di pensare è la morte della fede cristiana. Essa infatti si è sempre proposta ad ogni uomo e donna perché ciò che dice è vero. Cioè: è realmente accaduto che Dio ha parlato all’uomo; che Gesù di Nazareth è risorto; che la persona umana è eterna. Poiché, alla fine, dire che la fede ha a che fare colla ragione equivale a dire che ciò che dice è vero ed il suo contrario è falso; equivale a dire che quanto dice corrisponde alla realtà: è realmente accaduto.

            Come dunque la fede ha a che fare colla ragione? Ora possiamo vederlo. Abbiamo espresso questo “avere a che fare” con la parola salvezza: la fede ha a che fare colla ragione perché salva la ragione. In che senso? In che modo? E’ ciò che ora cercherò di spiegare.

            2. Parto da un fatto incontestato: presso ogni religione, anche le più primitive, esiste la preghiera intesa e vissuta come rapporto con l’Assoluto.

            In un certo senso, la preghiera [anche se assume la forma della bestemmia] è l’ultimo atto di una ragione che cerca di decifrare pienamente l’enigma della vita, vedendola esposta ad un destino che vi interviene spesso in modo incomprensibile ed anche apparentemente ingiusto. La preghiera in sostanza dice: “ho bisogno di capire che cosa sta accadendo: non ho la possibilità di soddisfare questo bisogno: grido a qualcuno/qualcosa se mai esiste, se mai vuole ascoltare [si quid pietas antiqua labores respicit humanos (Virgilio, Eneide, v. 688-689)]”.

            E’ certamente un bisogno di tutto l’uomo, quindi anche un bisogno della ragione di fare chiarezza nel grande mistero dell’essere. Ma allo stesso tempo la preghiera mostra una ragione che è portata a fare domande alle quali non ha la capacità di rispondere.

            Possiamo verificare questa naturale capacità della ragione di porre domande accompagnata dall’incapacità strutturale di darvi risposte, da due esperienze che ci è dato di vivere quotidianamente.

            La prima. La più seria difficoltà ad ammettere l’esistenza di un dio che si prende cura delle vicende umane è la presenza nella storia umana di una tale misura di ingiustizia, di oppressione dei più deboli, di cinismo di chi esercita il potere, da farci seriamente dubitare di una provvidenza divina. Ma dall’altra parte nessuna retta ragione e nessun cuore veramente umano può pensare che l’ingiustizia abbia lo stesso diritto ad esistere che la giustizia; che la vittima sia da equiparare all’oppressore. In una parola: il bene deve esistere; il male non deve esistere.

            All’interno della modernità si è cercato di dare una risposta a questa condizione: poiché non esiste un dio che fa giustizia, è l’uomo che è chiamato a farla. Non voglio ora richiamare la vostra attenzione su quali smisurate tragedie ha causato questa decisione non solo di agire con giustizia, ma anche di far trionfare la giustizia in questo mondo. Richiamo la vostra attenzione su un altro aspetto, che voglio esprimere con un’immagine.

            La giustizia è fatta se… la torta è divisa in parti uguali. E chi è stato ingiustamente trattato perché si potesse produrre la torta, e non vive più? Non basta restaurare la giustizia ora, ma è necessario riparare anche ciò che è irrevocabilmente passato. Ma questo esigerebbe che i morti tutti potessero risorgere; che ci fosse come un giudizio universale nel quale la vittima è risarcita e l’oppressore punito; che ci fosse un bilancio integrale alla fine della storia; che Madre Teresa non finisse come Hitler: un pugno di polvere.

            L’enigma della storia diventa indecifrabile per la ragione, la quale però non può non porre quelle domande.

            La seconda. Agostino, parlando del desiderio più profondo che alberga nel cuore umano, il desiderio di una vita felice, di una buona vita, di una vita vera; di una vita tale da farci esclamare: “come è bello vivere”, ha scritto un testo mirabile e molto profondo. Lo trascrivo.

            «Quando… una cosa non riusciamo a immaginarla come è in realtà, certamente non la conosciamo; tutto ciò che s’affaccia al pensiero lo rigettiamo, lo rifiutiamo, lo disapproviamo, sappiamo che non è quello che cerchiamo, quantunque non sappiamo ancora che cosa sia specificamente… Se lo si ignorasse del tutto, non sarebbe oggetto di desiderio; e se d’altro canto lo si vedesse, non sarebbe desiderato né domandato con gemiti». [Lettera 130,14,27.15.28; NBA XXII, 105].

            Ciascuno di noi vive spesso questa esperienza. La ricerca di una felicità vera fa sì che prima o poi sentiamo che ogni bene limitato non risponde pienamente al nostro bisogno: dunque abbiamo in noi come il presentimento di un bene possedendo il quale il nostro desiderio sarebbe soddisfatto. Se così non fosse, non proveremmo mai quel senso di insoddisfazione. Ma nello stesso tempo, noi sperimentiamo solo l’illimitatezza del nostro desiderio, e non ancora il possesso di quel bene, ed ancora meno chi/che cosa sia quel bene.

            Anche questa seconda esperienza ci conduce alla stessa conclusione, espressa da Pascal nel modo seguente: «l’uomo supera infinitamente l’uomo». Cioè: la ragione umana pone inevitabilmente delle domande alle quali non è capace di rispondere; il cuore chiede inevitabilmente il possesso di un bene che non è in grado di procurarsi; la persona invoca una risposta che non è in grado di darsi da sola.

            «L’uomo, a differenza di tutte le altre creature attinte dall’esperienza, è quell’essere che può e deve andare oltre se stesso. Il trascendimento della propria natura appartiene essenzialmente all’uomo» [M. Schmaus, Le realtà ultime, Edizioni Paoline, Alba 1960, 16].

            La proposta cristiana si è offerta all’uomo, fin dal suo principio, come narrazione di un fatto accaduto in un luogo preciso in un determinato tempo: Gesù di Nazareth è Dio fattosi uomo, morto per noi e risorto.

            Non mi è chiesto questa sera di spiegare questa sintetica narrazione del fatto cristiano; avrete sicuramente altre occasioni. Mi limito a proseguire il filo del mio discorso.

            L’accettazione di quel fatto come fatto realmente accaduto e del senso che esso ha per l’uomo è ciò che noi chiamiamo fede.

            Quel fatto se accettato per fede risponde alle due grandi domande della ragione: è possibile una vera felicità? Tutta la vicenda umana, la storia ha in sé un senso che troverà definitivo compimento? E’ possibile una vera felicità, perché è possibile incontrare e lasciarsi possedere da Dio stesso che in Gesù è venuto per donarci, precisamente, la vita eterna. La storia è opera della libertà dell’uomo e per questo ciascuno sarà giudicato da Cristo come meriterà; ma è anche al contempo opera di Dio, che fa cooperare tutto al bene di coloro che lo amano [su questo Kierkegaard ha scritto una pagina molto profonda: Diario, 1854, XI2 A98, trad. it. t.II , 656 ss].

            Perché questa fede salva la ragione? Perché non le chiede di estinguere il suo slancio verso una verità totale; di rinchiudersi dentro alle percezioni sensibili [la casa di cemento senza finestre, di cui parlava Benedetto XVI]. Ma anche perché le chiede di non elevarsi a misura ultima delle verità; di non ritenersi in grado di giungere ad una verità totale e totalizzante.

            Che cosa accade alla ragione quando rifiuta la salvezza che le viene dalla fede? Quando ritiene di non aver bisogno di nessuna salvezza, ma di bastare a se stessa? Lo abbiamo sotto i nostri occhi, poiché nella vicenda della modernità la ragione e la fede hanno divorziato, con danno grave reciproco. La fede senza ragione è cieca poiché il Signore non ha dato altra facoltà di conoscere la verità che la ragione, e rischia di corrompersi in superstizione. La ragione senza la fede rischia di elevarsi a misura suprema della realtà, e di rifiutarsi a porre le domande che sole meritano un interesse supremo, lasciando l’uomo in balia del potere e della fortuna, del caso e di un destino senza senso. Leopardi dice «l’oscuro poter che a comun danno impera» [A se stesso]

            3. Vorrei ora mostrare un altro aspetto della salvezza della ragione compiuta dalla fede, di più immediata rilevanza nella nostra vita quotidiana. La fede salva la ragione nel senso che aiuta questa a scoprire realtà che sono de jure alla sua portata, ma de facto la ragione da sola non le ha raggiunte. Il tema è molto ampio e suggestivo. Mi limito a due fatti.

            3,1. Uno dei fatti culturali più importanti accaduti in Occidente è stata la scoperta della categoria concettuale di persona. L’Occidente prima della proposta cristiana non aveva avuto la percezione di questa realtà; fuori dall’ambito dell’influenza cristiana non esiste neppure.

            In che cosa consiste esattamente questa scoperta? Nel vedere colla propria intelligenza che «essere qualcuno» è essenzialmente diverso ed infinitamente superiore che «essere qualcosa». E’ la scoperta che sul piano dell’essere la persona non è equiparabile a nessun altra realtà esistente.

            Da ciò è derivata la consapevolezza che nessuna persona non può mai essere semplicemente usata, cioè trattata come un mezzo per raggiungere uno scopo diverso dalla sua propria perfezione.

            E’ derivata la consapevolezza che sul piano dell’essere ogni persona è uguale all’altra. Nessuna persona è più persona che un’altra, e quindi nessuna persona ha un valore maggiore di un’altra.

            Tutto questo che ho detto finora nel linguaggio comune è detto in modo sintetico: la dignità della persona. Tutto ha un prezzo; solo la persona ha una dignità.

            Perché il cristianesimo è giunto a questa conclusione? Dalla considerazione del fatto che è il contenuto centrale della fede cristiana: Dio in Gesù rivela un amore infinito per ogni uomo. La conseguenza era immediata: se Dio si interessa tanto dell’uomo, vuol dire che ogni uomo ha una preziosità incomparabile.

            Una volta che il cristianesimo ha detto all’uomo tutto questo, e lo ha detto soprattutto colla carità, la ragione umana si è ritrovata pienamente in questo discorso. Ha detto: “è vero: è esattamente così”. Non si è trovata di fronte ad affermazioni che superavano le sue forze conoscitive.

            3,2. C’è un altro ambito nel quale la fede salva la ragione nel senso che stiamo dicendo: l’ambito della conoscenza morale.

            La conoscenza morale è la conoscenza della verità circa il bene/il male della persona umana come tale. “Come tale”, ho detto. Posso infatti considerare la persona umana come un organismo vivente psico-fisico, ed allora il suo bene è la salute e la conoscenza di esso è la medicina. Posso considerare la persona umana come cittadino di uno Stato, ed allora lo conoscenza di essa è la scienza politica. La conoscenza morale riguarda la persona umana come tale. Se tu sei intemperante nel cibo fai male alla tua salute: questo te lo dice la medicina. La conoscenza morale ti dice: è un comportamento contro la dignità della tua persona, perché è irragionevole. Fai male a te stesso.

            Ora anche alla luce di una conoscenza superficiale della storia umana, vediamo quanta difficoltà incontra l’uomo nella ricerca della verità morale, in quanti errori incorre. Così che non raramente non riuscendo a vivere come pensa, finisce col pensare come vive, e a giustificare anche vere e proprie aberrazioni.

            Pascal ha scritto pensieri straordinari al riguardo. Ve ne leggo alcuni.

«Giustizia. Come la moda determina il piacevole, così determina la giustizia.»

«Ridicola giustizia, delimitata da un fiume! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là»

            Si pensi alla giustificazione della tortura, dell’infanticidio, della schiavitù, ed altro ancora.

            La fede ci aiuta a comprendere qual è il vero bene dell’uomo; ci libera da molti errori morali.

            Concludo. Nel momento decisivo del suo cammino verso la Chiesa Cattolica, il b. J. H. Newman scrive: «L’unica questione era: che cosa dovevo fare? Dovevo decidere da solo; gli altri non potevano aiutarmi. Decisi di lasciarmi guidare non dall’immaginazione, ma dalla ragione». [Apologia pro vita sua, Edizioni Paoline, Milano 2001, 259].

            Il testo è mirabile: le scelte più intimamente religiose non possono essere fondate principalmente sulle emozioni di qualche momento, su bisogni psicologici confusi con esigenze spirituali. Debbono essere fondate sulla incondizionata esigenza e obbedienza della verità.

            «L’uomo infatti che si sente fatto per la felicità, a cui lo destina con l’infinita apertura dell’essere l’insaziata brama di vita e di amore, si sente sbarrare la via da ogni parte di fuori ed insieme angustiare di dentro dai contrasti dell’io, dalle sue passioni, oscurità e segreti timori» [C. Fabro, L’uomo e il rischio di Dio, Ed. Studium, Roma 1967, 485].

            A questo uomo la Divina rivelazione offre la possibilità di incontrare il Tu Assoluto, e passare dalla zattera ad una nave ben più sicura per la traversata della vita.

           

 

 

19/11/2012
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