Messa Crismale

Bologna, Cattedrale

La liturgia della messa crismale primariamente e per sè magnifica e canta la dignità e la missione di tutto il popolo dei battezzati: un popolo che possiede l'”unzione”, ricevuta da colui che è Santo (cf 1 Gv 2,20), un popolo “consacrato” chiamato a esercitare il suo sacerdozio regale a vantaggio dell’umanità intera.

Proprio in virtù di questa consacrazione la “nazione santa” è mandata ad annunziare profeticamente alle genti la verità e l’imminenza del Regno di Dio; offre con Cristo, a vantaggio di tutti gli uomini, l’unico sacrificio di salvezza; introduce nel mondo la legge evangelica della carità.

Ma – nella forma concreta in cui si svolge e collocata com’è nel giorno della “cena del Signore” – la liturgia della messa crismale esalta altresì l’unità del sacerdozio ministeriale e santifica il vincolo che stringe il vescovo al suo presbiterio.

Ce lo dice questa stessa solenne concelebrazione, spettacolo stupendo che certo suscita la compiacenza degli angeli; e ce lo dice la benedizione degli oli, che dalla cattedrale fluiranno come da un’unica fonte in tutte le parrocchie e, per le mani dei pastori d’anime, diventeranno strumento delle diverse azioni santificatrici.

Quest’anno – nella prossimità del Congresso Nazionale di settembre – è conveniente che la riflessione di oggi si soffermi sul rapporto che c’è tra il ministero, di cui siamo investiti, e l’Eucaristia.

L’Eucaristia è la ragione principale del nostro sacerdozio. Noi siamo ordinati soprattutto perché non manchi mai nelle nostre comunità la grande ricchezza del “Corpo dato” e del “Sangue versato” – cuore e alimento di tutta la vita ecclesiale – e perché attraverso il sovrumano potere di perdonare i peccati, a noi affidato, tutti, anche dopo le colpe più gravi, siano posti in condizione di ricevere degnamente il “Pane vivo disceso dal cielo” (cf Gv 6,51).

Eucaristia e successione apostolica sono tra loro intrinsecamente congiunti. La tipologia delle varie denominazioni cristiane, che in occidente sono andate proliferando, è la controprova di questa organica connessione: là dove è andato smarrito il concetto di un sacerdozio ministeriale – tale da comportare una configurazione speciale, permanente e oggettiva a Cristo, Sposo e Capo della Chiesa – si è contestualmente dissolta la persuasione ardua ed entusiasmante del realismo eucaristico.

Si capisce allora come mai il “sacramento dell’altare” – quando è davvero il “sole” della nostra giornata – costituisca la forza del nostro ministero e sia la causa precipua della sua fecondità.

In tema di Eucaristia, la prima cosa che è richiesta, particolarmente a noi, è quella di credere sul serio al mistero che celebriamo.

“Mistero della fede!”, noi proclamiamo.

Questa fede noi la chiediamo all’assemblea radunata quando presentiamo alla sua adorazione il pane e il vino ormai arcanamente transustanziati; ma prima ancora la dobbiamo chiedere a noi stessi, alla nostra mente inquieta, che continuamente si interroga, al nostro cuore così facile a turbarsi tra le mille voci dell’incredulità. Insomma la dobbiamo chiedere al nostro mondo interiore.

La fede, crescendo, farà crescere in noi l’amore; e l’amore, una volta che divampi in tutte le fibre del nostro essere, toglierà alla fede le sue asperità, la pacificherà e la farà diventare sorgente di luce consolante per tutta la nostra vita.

Questa fede poi – rasserenata e illuminante – ci suggerirà, quando saremo all’altare, di evitare la fretta, di assaporare ogni frase dei testi liturgici, di tendere davvero l’orecchio dell’anima a ogni parola di Dio che accompagna l’azione sacra.

Questa fede innamorata ci insegnerà la cura e la proprietà delle vesti, ci farà evitare ogni grettezza nell’arredo, ci renderà per la nostra gente testimoni credibili della realtà trascendente e salvifica che è significata, attualizzata e velata dal rito.

Questa fede ci aiuterà a percepire – magari oltre gli spazi vuoti che talvolta affliggono le nostre messe – la folla delle creature beate che sono presenti, dal momento che nella conclusione del Prefazio le abbiamo convocate per associarle al nostro canto di lode e di riconoscenza. E ci consentirà di guardare all’altare terreno come la figura-corrispondente e collegata- dell’altare del cielo, sul quale la stessa Vittima che sta tra le nostre mani è posta davanti alla maestà divina ed è offerta al Padre dall’unico sacerdozio di Cristo, cui siamo stati scelti a partecipare.

Ciò che durante la nostra messa appare agli occhi di Dio è colto appieno solo dalla fede e dall’amore sponsale della Chiesa, che ce lo confida nel linguaggio ammirevole dei suoi antichi testi.

Così ad esempio si esprime un transitorio ambrosiano: “Stant angeli ad latus altaris; et sanctificant sacerdotes corpus ed sanguinem Christi psallantes et dicentes: Gloria in excelsis Deo” (XII per annum).

“Gli angeli circondano adoranti l’altare e i sacerdoti consacrano il corpo e il sangue di Cristo, cantando gioiosi: ‘Gloria a Dio nell’alto dei cieli'”.

E un altro transitorio ci rivela chi è colui che in effetti presiede e compie l’azione sacra:

“Angeli circumdederunt altare, et Christus administrat panem sanctorum ed calicem vitae in remissione peccatorum” (IX per annum).

“Gli angeli stanno attorno all’altare e Cristo porge il Pane dei santi e il calice di vita a remissione dei peccati”.

Qui la nostra fede si fa più impervia e più alta, perché si tratta di convincerci che persino sotto la nostra personale pochezza agisce, avvalendosi del nostro povero servizio, lo stesso Signore Gesù, unico sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza.

Come dice un’espressione un tempo citatissima – e oggi un po’ desueta, e non si capisce il perché – in tutti i sacramenti e specialmente nel gesto eucaristico noi agiamo “in persona Christi”.

“Dato quindi – così ne deduce Giovanni Paolo II – che ogni sacerdote, nel modo che gli è proprio, agisce a nome e nella persona di Cristo stesso, fruisce anche di una grazia speciale, in virtù della quale…egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di colui del quale è rappresentante” (Pastores dabo vobis 20).

Da questa fede, resa più penetrante e coraggiosa, scaturisce immancabilmente la gioia: la gioia di contemplare tutta la bellezza del disegno del Padre e la gioia di essere preti. Diventa allora del tutto naturale rinnovare con piena convinzione e con animo pervaso di gratitudine le nostre promesse sacerdotali.

27/03/1997
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