messa in cena Domini

Bologna, Cattedrale

“ Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel modo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).
Nel vangelo di Giovanni queste parole, toccanti e colme di verità, aprono il racconto dell’ultima cena del Signore e al tempo stesso avviano il ricordo di tutto ciò che è stato operato dal Figlio di Dio per la nostra salvezza.

La sapiente pedagogìa della Chiesa ce le ha riproposte perché ci aiutino a cominciare nel migliore dei modi la rievocazione commossa e riconoscente non solo del grande dono dell’eucaristia, ma anche dell’intero evento di riscatto e di rinnovamento, che sarà l’oggetto della nostra appassionata contemplazione personale nonché delle azioni liturgiche della Settimana Santa, centro e cuore dell’anno cristiano.

E’ una frase rapida e semplicissima, che riesce a dirci con chiarezza quale sia il concetto primario e autentico della Pasqua, e quale sia la sua ispirazione e la ragione del suo valore.
Il significato originario ed elementare della Pasqua è quello di essere un “passaggio”; l’energia che la determina e la impreziosisce è l’amore.

La pagina dell’Esodo, riferitaci dalla prima lettura, ci ha fatto conoscere il senso della prima Pasqua: “Io passerò per il paese dell’Egitto” (Es 12,12), abbiamo ascoltato. Dio “è passato”; e in questo passaggio (“la Pasqua del Signore!” <cfr. Es 12,11>), ha cominciato a liberare “con mano potente e braccio teso” (cfr. Sal 135,12) il suo popolo dalla schiavitù e dall’oppressione.

Già in questo inizio primordiale, la Pasqua ha offerto e offre un messaggio di consolazione e di speranza: abbiamo un Creatore che non ci abbandona ai nostri guai, è disposto camminare con noi, è intenzionato a entrare nella nostra vicenda per piegarla ai suoi fini di misericordia.
Ma il pregio più alto e più essenziale della Pasqua ebraica (che era soprattutto la commemorazione di una salvezza nazionale e intramondana) è quello di essere profezia e raffigurazione del “passaggio” decisivo e totalizzante dell’umanità da uno stato di decadenza e da un destino di perdizione alla vera libertà dei figli di Dio e a una condizione di gloria e di felicità senza fine.

Questo “passaggio” – questa “Pasqua” che avvera tutti i simboli antichi ed esaudisce tutte le aspirazioni – è prima di tutto del “Nuovo Adamo”, capo e archètipo di ogni creatura, colui che ha condiviso in tutto la nostra miseria (tranne che nel peccato) ed è divenuto il principio dell’universo rinnovato. Lui per primo “è passato da questo mondo al Padre”, perché questo “passaggio” diventasse anche nostro e la Pasqua fosse un’avventura trasformante anche per noi.
Il “passaggio” salvifico di Gesù è stato un capolavoro di dedizione alla nostra causa: una dedizione totale, che arriva fino alla morte e addirittura l’oltrepassa nella gloria alla destra del Padre, dove egli è “sempre vivo per intercedere a nostro favore” (cfr. Eb 7,25).

Ciò che è avvenuto sul Golgota – ciò che domani sarà posto davanti ai nostri occhi – non è solo un omicidio, è un sacrificio di espiazione che ci consente il ritorno alla casa del Padre. Quelle membra, che la malvagità ha spento e reso inerti, sono un “corpo dato per noi” (cfr. Lc 22,19); quel sangue è stato sì sparso dai soldati uccisori, ma prima ancora è “il sangue dell’alleanza, versato per la moltitudine in remissione dei peccati” (cfr. Mt 26, 28).

“ Fate questo in memoria di me” (1 Cor 11,24): proprio perché non ci dimenticassimo mai di lui e della sua dedizione totale per noi, Gesù istituisce il rito eucaristico che rende presente in ogni ora della storia e in ogni angolo dell’universo la sua “Pasqua”, cioè il suo passaggio salvifico.
In virtù di questo rito che ci edifica e ci alimenta, è dato anche a noi di passare “da questo mondo al Padre”. “Chi mangia la mia cane e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54): chi ascolta questa parola di Cristo e crede a lui “passa dalla morte alla vita” (cfr. Gv 5,24).

Nel battesimo, e poi in tutto l’itinerario sacramentale che scandisce l’esistenza cristiana, noi ci assimiliamo a poco a poco alla Pasqua del Signore, cioè del Nuovo Adamo, e operiamo il trasferimento dalla triste eredità del Primo Adamo alla dignità e alla fortuna di essere figli di Dio e coeredi di Cristo (cfr. Rm 8,17).

Ma questo nostro “passaggio” – che il banchetto eucaristico stimola e sorregge giorno dopo giorno – non può essere soltanto un fatto rituale: deve toccare e trasfigurare tutto il nostro essere. La nostra vera Pasqua non si riduce a una scadenza liturgica: è anche una trasformazione interiore.

Vale a dire, comporterà il nostro transito di conversione dall’abitudine triste del peccato alla serenità della vita di grazia; dalla rassegnata mediocrità e dall’incoerenza al fervore religioso e alla generosità della militanza ecclesiale; dai pensieri superficiali e sbandati, che ci vengono imposti dalla cultura dominante, a un’integrale mentalità di fede, che ci consente di vedere e giudicare ogni situazione e ogni idea con gli occhi stessi e con la logica del Maestro unico e incontrovertibile.
Fino a che la nostra Pasqua arriverà al suo culmine e al suo compimento quando varcheremo, anche con le nostre membra, la soglia della Gerusalemme celeste.

“ Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”.
“ Sino alla fine” vuol dire prima di tutto “sino alla morte”; quella morte che della sofferenza redentrice è il momento finale e il traguardo.
“ Gesù disse: ‘Tutto è compiuto!’. E, chinato il capo, spirò” (Gv 19,30), ascolteremo domani sera dallo stesso evangelista Giovanni. Del resto, il Figlio di Dio – in questa cena della vigilia, che precede il suo arresto – lo dice esplicitamente: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15.13).

Come si vede, “sino alla fine” vuol dire anche “sino all’estremo”, cioè sino al grado sommo e insuperabile della capacità d’amare.
“ Li amò sino alla fine”. Questa frase è posta qui dal quarto vangelo come risposta anticipata (la sola risposta possibile) ai molti “perché” che fioriscono nel cuore di chi medita sul mistero di questi tre santi giorni.

Perché Gesù ha voluto rendersi presente, nascostamente ma realmente sotto gli umili segni del pane e del vino? Per amore. Perché si è sottoposto all’amarezza di essere tradito da uno dei suoi, all’odio della sua gente, alla pena atroce dei malfattori, alla catastrofe umana della morte e della sepoltura? Per amore.

Tutto è stato fatto per il desiderio appassionato di salvarci; e tutto è stato fatto per insegnarci ad amare; per insegnarci ad amare sul serio, ad amare concretamente, ad amare sino alla difficile e costosa donazione di noi stessi.

17/04/2003
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