Messa nel 12° anniversario della morte di monsignor Luigi Giussani e nel 35° del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione

Gli anniversari ci aiutano a ricordare, ringraziare, scegliere. Ricordiamo un carisma che, a differenza del protagonismo che finisce con chi lo possiede e lo amministra, è comunicato a tanti, diventa una strada, affidato, regalato ad altri. Così è delle cose di Dio che restano di Dio e che proprio per questo sono condivise e possibili ad altri. La celebrazione liturgica, insegnava don Giussani, è il centro di tutto, perché, diceva “Nel suo senso più vasto la liturgia è l’umanità resa consapevole dell’adorazione a Dio come supremo suo significato, e del lavoro come gloria a Dio”. Ci chiedeva di viverla tutta la celebrazione di quel mistero di amore che continua a farsi corpo e parola. “Se è vero che si può restare colpiti di fronte a una frase o a un’altra del testo liturgico, dobbiamo essere attenti a non ridurre la ricchezza di questa meditazione a una cernita di frasi. Si è cioè trattata la Bibbia, che è la storia del mistero di Dio nel mondo, come fonte di belle frasi — giuste e profonde — ma si è lasciato da parte il contesto, cioè il vero discorso di Dio. Così abbiamo ridotto la Bibbia a sostegno dei nostri ideali morali. Invece di cogliere il discorso di Dio come la lingua nuova che distrugge la nostra sapienza, abbiamo reso la parola di Dio sostegno della nostra sapienza, quando addirittura non si è trattata la Bibbia in senso accomodatizio, cioè quando la “frase” non si è interpretata così come suonava al nostro orecchio, all’orecchio della nostra mentalità, della nostra cultura, invece di cercare di adeguare la nostra mentalità, la nostra cultura al significato, alla comunicazione, alla testimonianza che scaturiva dalla frase”. Ecco come abbiamo trovato la sapienza che aiuta a scorgere i nostri passi, che ci guida, quella sapienza che ci aiuta a “persistere nel suo timore e invecchiare in esso”, a “amare il Signore”, perché i nostri cuori siano “ricolmi di luce”.
Il ricordo di don Giussani aiuta a contemplare questa luce, così come la sua vita ha aiutato tanti a non perdersi nell’oscurità dell’amore per se stessi e nella mediocrità del poco amore.  Ringraziamo per una famiglia davvero senza confini, diversi e resi uguali dall’amore. Il ricordo è sempre una responsabilità. Cosa significa conservare il carisma? Quali sono le battaglie per cui vale la pena combattere? Questa celebrazione è gratitudine per un amore tanto più grande della nostra umiltà e anche della contraddizioni, ringraziare per i tanti doni ricevuti e anche occasione per rinnovare la nostra scelta di amore, il nostro si a questa chiamata, per un nuovo inizio.
Il vangelo che abbiamo ascoltato ci aiuta e come sempre ci sorprende. Quando non scegliamo il vangelo, facendolo a pezzi e ritagliandolo sulle nostre misure, piegandolo al nostro individualismo e non viceversa, ci trafigge, il cuore come avvenne nel primo annunzio pubblico, nel primo Vangelo il giorno di Pentecoste, a Gerusalemme. Gesù parla della sua debolezza, cioè dello scandalo del suo amore senza limiti, che svuota se stesso, tanto da farsi schiavo per liberare gli uomini. Egli si identifica in coloro che sono umiliati, messi a morte, nei suoi fratelli più piccoli che sono i poveri. Nella lettera scritta recentemente a Carron Papa Francesco scrive che “I poveri infatti ci rammentano l’essenziale della vita cristiana. Sant’Agostino insegna: «Ci sono alcuni che più facilmente distribuiscono tutti i loro beni ai poveri, piuttosto che loro stessi divenire poveri in Dio». Questa povertà è necessaria perché descrive ciò che abbiamo nel cuore veramente: il bisogno di Lui. Perciò andiamo dai poveri, non perché sappiamo già che il povero è Gesù, ma per tornare a scoprire che quel povero è Gesù”. E’ proprio vero. Tornare a scoprire Gesù povero, che si è fatto povero e che ci insegna a trovarlo e ritrovarlo nella sua presenza, che completa quella della mensa. “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. Essere amici dei poveri, divenire poveri e non solo distribuire i beni o iniziative. E poi aggiunge nella lettera che Sant’Ignazio di Loyola scriveva che “la povertà è madre e muro. La povertà genera, è madre, genera vita spirituale, vita di santità, vita apostolica. Ed è muro, difende. Quanti disastri ecclesiali sono cominciati per mancanza di povertà”. E’ così vero ancora oggi. Se dimentichiamo, come avviene nel racconto evangelico, la sofferenza di Gesù, ignorandola perché lo cerchiamo nella grandezza del mondo, nell’affermazione di sé oppure perché presi dalla discussione eterna su chi è il più grande, la comunità facilmente diventa influenzabile dalla mentalità del mondo. “E’ un programma radicale perché significa un ritorno alle radici. Il riandare alle origini non è ripiegamento sul passato ma è forza per un inizio coraggioso rivolto al domani. È la rivoluzione della tenerezza e dell’amore”. E’ la sfida di un incontro personale e comunitario che si rinnova oggi. Le parole di Papa Francesco, così affettuose e profonde, ci aiutano a vivere come un nuovo inizio, forti dell’esperienza e della storia che avete vissuto in questi anni.
Perché i discepoli discutono su chi è il più grande? Un po’ perché non stanno a sentire Gesù, non lo prendono sul serio. Un po’ perché qualcuno avrà cominciato e tutti gli altri gli sono andati dietro. Certamente tutti perché pensano come i mondo che grande lo si diventa per meriti, per capacità e quindi cerchiamo tutti conferma sul nostro ruolo. Abbiamo bisogno di essere confermati, anche se sappiamo che questo produce orgoglio e tristezza, frustrazione e presunzione. E poi non basta mai, perché grande dobbiamo poi imporlo, mantenerlo, manifestarlo con i primi posti e le apparenze, la considerazione, il ruolo. Ma grandi non lo diventiamo da soli e non ci facciamo importanti imponendoci. Grande è il piccolo. Colui che si lascia amare, che deve imparare, che non può fare da solo. Sì. Perché grande è chi si lascia innalzare da Dio; grande è l’umile che è l’unico a potere compiere le cose grandi di Dio. Chi sente quanto è amato è davvero grande, perché non deve miseramente rubare la sua grandezza o cercare di diventarlo da solo, ma lo sa che è grande solo perché pienamente amato da Dio e proprio per questo regala quello che ha agli altri, non deve rubarlo a chi ha vicino.
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». Bambini è ritrovare l’amore di un tempo, quello dell’inizio. Non è mediocre, modesto. Anzi. Come vi ha sempre insegnato Giussani a compiere le cose grandi dell’amore. E credo che tuti voi hanno ricevuto molto dipiù e fatto quello che non avrebbero immaginato avere. Io faccio tante, ciò non so fare niente. Giussani aveva un termine che vi ha sempre accompagnato: lo stupore. E’ possibile solo ai bambini. E questo non finisce neppure da grandi, se conserviamo un cuore pieno di grazia. Negli esercizi del 1998 Giussani vi disse: “Gregorio di Nissa (una grande figura dei primi secoli cristiani): «I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce». A me ha fatto colpo, perché è uguale al nostro concetto di conoscere Cristo, riconoscere Cristo. Il motivo per dire «sì» a una cosa che si introduce nella nostra vita vincendo tutti i preconcetti è una bellezza: deve implicare una bellezza e una bontà che possiamo benissimo non riuscire a definire, ma che possiamo sentire come contenuto della nostra ragione per la decisione più grave che la nostra ragione ha: la fede. Perché la fede nasce come riconoscimento della ragione. La semplicità dei bambini è la verità del nostro aderire alla fede, dell’aderire della nostra fede a ciò che la Chiesa dice, a ciò che la Tradizione cristiana porta a noi, a ciò che la Chiesa, nel movimento, ci dice: l’atteggiamento del bambino, che va davanti alle cose senza «ma», «se» e «però», va davanti alle cose, le tocca o le tratta, con immediatezza. Per questo Gesù dice: «Se non sarete così da grandi, non entrerete mai, non capirete mai, non sentirete mai». Per questo anche noi diciamo che «i concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce».  
Grazie don Giussani perché il tuo stupore non è mai finito, è diventato sapienza di vita e del vangelo, intelligenza e decisione, sempre guardando con gioia alla scoperta e all’incontro che cambia la vita e la rende piena.  

21/02/2017
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