Messa per il Corpus Domini

Bologna, Cattedrale

E’ rivolto a noi l’invito di Mosè al popolo di ricordarsi del cammino percorso nei quaranta anni del deserto e non dimenticare. Abbiamo nel cuore e negli occhi la città ridotta ad un deserto e come il nostro cammino improvvisamente sé diventato difficile, segnato dalla paura, dalla fatica, dal dubbio, dal sentirsi sospesi, perduti, fragili, incerti. Pensiamo anche a chi si ritrova nel deserto della disoccupazione o nell’incertezza della propria attività, che fa precipitare tanti vulnerabili nell’angoscia e nella povertà.

Del deserto ricordiamo l’isolamento fisico e quello interiore, il turbamento del delicato equilibrio dei nostri sentimenti, a volte così difficile da mantenere, il senso di sentirsi abbandonati che lascia nei nostri cuori. Dio ci ha condotto in questi mesi così difficili quando il mondo era diventato deserto, davvero “grande e spaventoso”, luogo di pericoli imprevedibili, come gli scorpioni del virus, terra assetata di speranza e popolata da persone affamate di protezione e sicurezza.

Dio ha vinto la distanza più grande proprio perché nessuno si senta perduto e ci chiede di fare crescere la vicinanza tra di noi, particolarmente verso quanti non ce la fanno da soli e hanno bisogno di persone che – sempre con la mascherina! – mostrano il volto del fratello. Ricordare il deserto di quel lungo venerdì santo di sofferenza e di morte ci aiuta a comprendere la gioia della Pasqua, dell’amore che vince il male, della scelta definitiva di Dio di stare con noi nella sofferenza perché la vita non termini nel sepolcro.

La Pasqua è la terra promessa, il deserto che diventa giardino, l’isolamento che si apre alla comunione, la tristezza trasformata in gioia, il limite della morte che diventa un passaggio per la vita. Quanto abbiamo bisogno di pasqua che risponda alle domande vere e come abbiamo capito di più, misurandoci con la vita così com’è per davvero e non quella caricature che illudevamo fossero possibili, la gioia di quel primo giorno dopo il sabato! Non dimentichiamo, però, la sofferenza di questo e di tutti i virus perché ci chiede di non scappare, di non tornare a pensare al nostro piccolo, di non dire “a me che importa” ma capire la scelta di Dio di mandare il suo figlio e noi scegliere di farci vicini a chi oggi ne è colpito.

Il coinvolgimento che abbiamo vissuto in questi gironi è la compassione che possiamo avere verso gli altri anche quando non ne siamo coinvolti personalmente. Insomma, sulla stessa barca ci siamo sempre, non solo nell’emergenza! Tutti ci siamo scoperti vulnerabili: amiamo oggi chi non ha difese. Tutti ci siamo scoperti malati: aiutiamo chi ha bisogno di aiuto, non perdiamo tempo, non rimandiamo. Siamo stati isolati: visitiamo chi non può uscire e stiamo vicini fisicamente e spiritualmente a quanti sono soli tutti i giorni e senza un decreto o meglio condannati alla tortura della solitudine da quel decreto che si chiama indifferenza.

Ricordiamo il cammino nel deserto creato dal virus per ricordarci di essere migliori, non solo umiliati ma più umili, consapevoli della vita vera, dei tanti doni che permettono di combattere il suo nemico, il male. Ricordiamo, perché abbiamo visto le conseguenze di sofferenza che porta il vivere per sé, gli interessi individuali, lo sfruttamento delle risorse, pensare solo a fare soldi o rimandare per non avere problemi, come è avvenuto in particolare per gli anziani. Il deserto stordisce tutti e rivela come facilmente il nostro cuore si riempie delusioni, ci sembra di non risolvere mai tutto, sentiamo una provvisorietà che non si risolve mai, perché mai niente è definitivo e troppo poco rispetto alle attese e allo sforzo profuso.

La vulnerabilità ci rende consapevoli che è vero, tutto è parziale, facilmente si può perdere quello che abbiamo raggiunto e che le sicurezze sono sempre parziali e caduche. C’è Dio e davvero solo Lui ha parole di vita eterna, che non passano. Ricordiamo, per non tornare quelli di prima, “perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”. Non possiamo tornare silenziosamente all’amore per noi stessi, accontentarci di recuperare le misure avare e mediocri di attenzione verso gli altri, guardare il mondo intorno da spettatori. Se non cambiamo torniamo indietro. In realtà siamo cambiati! Abbiamo imparato che siamo gli uni responsabili degli altri, e non siamo rimasti indifferenti vedendo qualcuno che scompariva nell’anonimato delle corsie e non vogliamo esserlo per quelli che scompaiono in mezzo al mare o per i tanti anziani la cui vita finisce sommersa perché un mondo folle dichiara che non possono essere salvati o non ne vale pena.

Ricordare ci aiuta a capire in maniera interiore la gioia di essere suoi, di essere chiamati da un pastore che non scappa e che ha compassione di noi, che è salito sulla nostra stessa barca con il suo corpo, vulnerabile alle tempeste come noi. Celebriamo il Corpus Domini, una presenza reale, perché per Lui e quindi anche per noi l’amore non sia una parola, una vaga promessa, un esercizio verbale che tante delusioni produce. Gesù si dona con il suo corpo perché il suo e il nostro amore coinvolga tutta la nostra vita, comunione con Lui e tra di noi. Gesù non è un fantasma che sfugge, inarrivabile, che ci umilia nella miseria della nostra umanità o ci spaventa perché non riusciamo a capire. E’ un corpo non una presenza virtuale e richiede il nostro corpo, cioè tutta la nostra vita.

Ecco, oggi nel Corpus Domini contempliamo questo mistero di amore eterno che è presente in mezzo a noi, il “già” dal quale niente ci può separare, vittoria già definitiva sul male anche se dobbiamo continuare a combatterlo e a lottare. La comunione con Cristo, pane di vita eterna, ci libera dalla tentazione del vittimismo, e dai suoi due fratelli che sono il narcisismo e il pessimismo indicati di Papa Francesco. Sono in effetti molto legati tra loro e portano a vivere come isole, ad idolatrare sé stessi, a nutrire l’io consumando il prossimo e piegando al proprio nutrimento le possibilità.

Quando l’uomo disprezza il pane spirituale finisce per vivere ossessionato dal pane e diventa un consumatore, che consuma per sé la sua vita e la perde. Spesso il vittimismo porta a disprezzare quello che abbiamo, perché ci fa sentire sempre insoddisfatti e quindi in diritto di esigere perché ci manca qualcosa e pensiamo non dipenda da noi. Il pessimismo persuade che non si può fare nulla, ci spinge a studiarci perennemente, cercando stare bene possedendo o alla ricerca di sicurezze che non bastano mai. Gesù facendosi dono si espone al nostro rifiuto, alla nostra sufficienza, al rifiuto pratico. Ma il Corpus Domini significa anche la scelta irrevocabile di Dio di fare sua la nostra umanità, vulnerabile e debole com’è perché questa vinca il duello con la morte.

In queste settimane il digiuno obbligato del Corpo del Signore ci ha fatto provare la fame del suo pane, liberandoci da tanta scontatezza e ci ha aiutato a nutrici del Corpus Domini che sono il Verbum Domini e il corpo dei poveri, cioè la loro concretezza, non una categoria astratta o virtuale. Fare la comunione indica sia nutrirci del pane spezzato e del vino versato, ma anche la parola che diventa nostra nell’ascolto e nella terra buona del cuore e il legame interiore, personale, che ci unisce con la comunità dei fratelli, la comunione dei santi. Proprio con la nostra povera umanità facciamo comunione e siamo già comunione perché “come questo pane era sparso sui colli e raccolto è diventato una cosa sola, così si raccoglie la Chiesa dalle estremità della terra” recita la Didachè  (9, 1). Quanto c’è bisogno di essere uniti! Non uguali: uniti! Non isole, ma fratelli. Non estranei, ma amici, che si visitano e spezzano il Corpus Domini tra loro perché diventi gioia, amore gli uni per gli altri, visite, sostegno.

Nella comunione tra i fratelli, insomma nel nostro concreto volerci bene, si manifesta la presenza di Gesù, l’essere “benché molti un solo corpo” perché come “quando ne mangiate e bevete, si trasforma in voi, così anche voi vi trasformate nel corpo di Cristo”. In un mondo diviso, che fugge l’unità perché idolatra il proprio io, amiamo e difendiamo sempre questa comunione con Cristo e con tutti, universale, l’opposto della pandemia. Davvero è il pane degli angeli, che ci fa capire che già oggi ci nutriamo dello stesso pane del cielo. E questo ci dona pienezza anche se non smettiamo di dovere camminare e cercare. E’ il già che rende santa e piena la nostra misera vita e le nostre comunità, pur sempre parziali e limitate. “Tu che tutto sai e puoi, che chi nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo nella gioia dei tuoi santi”.

11/06/2020
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