Omelia per il funerale di don Mario Cocchi

Bologna, Cattedrale

Quanta consolazione nel ritrovarci in tanti – come alcuni dei tanti pezzi del piccolo universo che è la vita di una persona – per accompagnare nell’ultimo tratto del suo cammino sulla terra il caro don Mario. Consolazione per noi che riceviamo nella comunione il frutto del vero pescatore di uomini che è Gesù, legami di amore che con la rete di Pietro strappa dal mare della solitudine e del non senso, per raccogliere e rendere una cosa sola con Lui e tra noi. La consolazione è anche sentirci figli di questa madre che nella fragilissima storia degli uomini e nelle diverse stagioni della nostra vita ci genera a figli, ci fa sperimentare che non siamo orfani, ci prende con sé e si lascia accogliere nella nostra casa.

Sentiamo il dolore per una strappo improvviso che ci ha portato via – davvero in un soffio è svanito il soffio della sua vita – un fratello importante della nostra chiesa, un amico, una voce autorevole del nostro presbiterio, un punto di riferimento credibile per tanti nella città degli uomini, un pastore che fino alla fine ha dato la vita per le sue pecore. Ci ha lasciato proprio nella domenica di Cristo Re dell’universo e nostro: nessuno può strapparci dalla sua mano, le sue pecore lo seguono perché riconoscono la sua voce e perché non scappa come il mercenario. Le sue pecore gli appartengono e lui si dona interamente a loro, si pensa per loro. Capiamo oggi con dolorosa chiarezza quanto afferma l’apostolo Paolo: Gesù è primizia di coloro che sono morti, perché in Adamo anche noi moriamo, in Cristo tutti riceviamo la vita. “Tutti”. Don Mario aveva un senso largo della comunità, voleva sempre superare i limiti angusti nei quali la Chiesa a volte si confina, rivolgendosi ai lontani, accogliendo con intelligenza, attraendo tutti con l’affabilità del suo sorriso, mai compiacente o facile, non scontato, sempre personale e pieno di significato. Iniziava a vivere oggi quel “Dio tutto in tutti” che è il nostro futuro. E’ la pienezza dell’io e del noi. Spessissimo parlava di questo, possiamo dire fosse proprio la sua ricerca personale, sempre attratto da un noi che era la comunità che amava, che a volte per amore strattonava come per verificare che fosse tale corrispondente al suo desiderio e per renderla migliore, cui si scusava, ma sempre legando tutto se stesso a questo noi. Usava spesso due parole così importanti: scusa e grazie. La comunione era la riforma che sentiva più decisiva per la Chiesa, solo nella quale si può comprendere il servizio del presbitero e dei tanti ministeri che compongono il popolo sacerdotale, regale e profetico.

E’ questa comunione che lo animò, a volte con lo sconforto e l’amarezza di non riuscirci altre con la gioia di vederne i frutti, nel suo impegno come vicario per la pastorale integrale. Penso al Piccolo Sinodo della Montagna che contiene ancora tante indicazioni importanti non solo per quel territorio ma per tutta la Diocesi perché sia capace di seminare con larghezza il Vangelo e di essere chiesa viva, accogliente, familiare, famiglia di famiglie. Questo servizio gli aveva permesso di conoscere molti preti nel loro quotidiano, verso i quali sentiva una profonda responsabilità. Tesseva tanta fraternità tra noi e aveva a cuore la salute spirituale, l’interiorità di ognuno, come per proteggere dal rischio dell’isolamento. Non voleva usare più la parola presbitero o presbiteri, ma la parola presbiterio sia per visione ecclesiale e teologica ma soprattutto per scelta umana, esistenziale di sentirci un corpo e non una somma di individui. Era vibrante quando si trattava di scuoterci dai ritardi, dalle lentezze perché non aveva smesso di desiderare una Chiesa di, tutti. Voleva una Chiesa della Parola, che spezzava e alla quale legava, una Chiesa dell’Eucarestia, che rendeva familiare con il suo tratto sempre personale di tanta sensibilità e una Chiesa di quell’altra Eucarestia che è la carità, tutte stanze dell’unica casa del Signore, legate inscindibilmente l’una all’altra. Come non ricordare il suo legame personale con la casa della carità di Corticella. Amava una Chiesa aperta, accogliente per tutti, dove la porta della misericordia (come quella che ha lasciato fino adesso a San Giovanni dall’anno della Misericordia) liberasse da tanti orpelli e pesi inutili di ecclesiasticismi e fosse invece larga, spaziosa per chi la desiderava a causa della sua condizione di miseria. Molti sapevano che aveva nascosto una copia della chiave di casa sua dietro un vaso, in chiesa, in modo che potessero utilizzarla per raggiungerlo chi avesse avuto bisogno, in ogni momento. Accoglienza preventiva! Come l’apostolo Pietro viveva in maniera personale, direi affettiva, il suo incontro con il Signore e ogni incontro con le persone, vissuti con il calore che metteva, con il sorriso aperto così come con parole taglienti, con abbracci sinceri e con scossoni per verificare il legame.

Anche don Mario non mancava di dire al Signore: non abbiamo preso nulla, a volte con amarezza, con cuore ferito, che diventava proprio per questo a tratti aspro, come quando ricordava le nostre lentezze ecclesiali nel coinvolgimento dei laici e delle donne. Ma sempre con piena disponibilità “sulla sua Parola” gettava di nuovo, con l’entusiasmo dell’inizio, le reti.

Credo sentiamo tutti fortemente la domanda che ci percorre e ci lacera interiormente. Cosa il Signore ci vuole dire con questa morte, che si unisce a quella di altri fratelli presbiteri, alcuni giovani – lasciatemelo dire! – come lo stesso don Mario e altri più anziani? La tentazione è sempre quella di cercare cause immediate, tentazione perché le risposte sarebbero superficiali, temo anche ingiuste. In realtà ci aiuta proprio don Mario a trovare la risposta ed è il mio ultimo ringraziamento a lui. Lo ripeteva continuamente, come per aiutare un serio discernimento, che siamo piccoli, poveri e provvisori! Non è per pessimismo ma per seria e serena consapevolezza che, non era certo la prima volta, l’altro giorno aveva detto a sua sorella: “Se il Signore mi chiama sono pronto”. Noi, che siamo garantiti spiritualmente e materialmente in un mondo che al contrario vive l’angoscia di non avere riferimenti, che sperimenta la pandemia senza reti di protezione vere, provando il freddo dell’isolamento, la disperazione della solitudine e del non senso, la vulnerabilità, siamo serenamente consapevoli della nostra fragilità e per questo anche della nostra forza. “Sono pronto”. Significa anche che si era preparato. Essere pronti: è la serena consapevolezza di un uomo che sapeva bene che nulla è eterno, che misurava la sua debolezza perché la vedeva e la amava negli ospiti della casa della carità. “La luce vespertina è sempre il presagio dell’eterna aurora”.

Don Mario ci aiuta con la sua ultima predica, ultima, ma direi anche la prima perché ci porta a vedere l’altro lato di quella frontiera della vita che oggi don Mario oltrepassa, lasciando tanto amore e portandoselo tutto. E’ l’unica cosa che ci portiamo, oltre le relazioni, cioè la comunione dei santi. Quelle mondane finiscono rapidamente, anche in vita, sono fugaci e strumentali. Quelle dei santi sono eterne, gratuite, pienamente umane e per questo di Dio. Don Mario mi sembra mi chieda e ci chieda di profittare dell’undicesima ora, di avere urgenza di fare qualche cosa di importante prima che sia troppo tardi, di non rimandare sempre affidando tutto, serenamente, alla provvidenza del Padre.

Le sue parole erano queste: “La parola ultimo non è vera del tutto. Tutto della nostra vita è penultimo, grazie alla Pasqua di Gesù che è venuto ad abbattere il muro di separazione che è la morte. Parlare di ultimo è parlare di morte. Noi che crediamo in Gesù sappiamo che tutto è penultimo. La fine. Cosa succederà, dal momento che noi siamo in cammino. Dove andiamo a finire. Matteo ci tiene a metterci davanti un momento delicatissimo che è quello del giudizio finale, dove Gesù si comporta da re, cioè colui che domina la situazione in quanto Figlio di Dio, quando sottometterà tutti, ultimo la morte. Gesù re si comporta come un pastore e questo ci racconta chi è Gesù. Gesù non è prima di tutto colui che viene a giudicarci ma è quello che viene per condurre tutti noi ai pascoli di vita eterna, condurre in paradiso. Non è la stessa cosa lasciarsi condurre dal pastore ed essere noi pastori. Viene dato un criterio per capire quando seguiamo il pastore e quando di fatto seguiamo noi stessi. Il vangelo di oggi è sicuramente per “tutti” ma a me piace pensarlo per chi non conosce Gesù, per chi è lontano dalla fede ma che è anche lui chiamato ad andare in paradiso. La strada è avevo fame e mi avete dato da mangiare. Il criterio non è tanto fare del bene ma credere che in quel fare il bene c’è il senso della vita perché in quel momento noi riconosciamo la bellezza l’importanza di chi ci è messo vicino in particolare per aiutarci a volere bene al Signore e agli altri. Ogni volta che la persona umana, che sia atea o appartiene ad altre religione tira fuori la sua umanità non si chiude nell’individualismo entra in rapporto salvifico con il Signore. Preghiamo di non essere egoisti ma che la gente che non crede in Gesù possa tirare fuori qualcosa di bello perché cammina per il paradiso”.

Tutti. Mario oggi termina la sua strada del paradiso. Come Pietro si presenta oggi al Signore carico dei tanti frutti del suo servizio alla chiesa, al Vangelo, ai poveri, alla città degli uomini. Ha seminato con larghezza il seme della parola, fino alla fine. Nella riunione che stava conducendo ha risposto dicendo: “Non importa la programmazione. Non sappiamo nemmeno se domani siamo…”.

Peccatore, come tutti, è oggi pienamente accolto e trasfigurato dall’amore di Gesù, trova il noi pieno che realizza il suo io, insieme ai tanti amici di Dio, i poveri, chi elemosina speranza, i mendicanti di vita. Il tramonto della vita presente è sempre il penultimo giorno e oggi don Mario vive nel giorno che non conosce tramonto, stretto nel suo abbraccio e in un amore pieno, senza più timore. In pace. E’ la pace.

23/11/2020
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