Prima lezione magistrale sul tema:
“Una vita giusta, una vita buona:
 progetto sociale possibile?”

Il titolo dato a questa riflessione non è dei più felici! Devo dunque in via preliminare dire con la massima esattezza ciò di cui intendo parlare.

01. Che la persona umana abbia bisogno di vivere in società, è una constatazione da tutti condivisa: «l’uomo è per natura un essere che vive in comunità», scriveva già Aristotele [EN I,7 1097 b,12]. Di questo “bisogno”, ancora fin dall’antichità, sono state date due interpretazioni fondamentali. è il bisogno di condividere il proprio bene [non inteso solo in senso economico] con gli altri: «nessuno sceglierebbe

tutti i beni a costo di goderne da solo» scrive ancora Aristotele [EN IX,7, 1169b, 18]; è il bisogno di essere aiutato da altri a raggiungere il proprio bene non raggiungibile da soli.

02. Tralasciamo per il momento la prima interpretazione; tralasciamo per ora la considerazione di altre società umane, e limitiamoci a parlare solo della società politica, dello Stato. Facciamo l’ipotesi che i cittadini – singolarmente presi e/o in comunità intermedie – non abbiano la stessa concezione del bene in cui porre la riuscita della propria vita. Diciamo più brevemente: ipotizziamo che nella società ci sia un pluralismo di concezioni

di vita buona non solo diverse, ma contrarie.

Tenendo presente tutto questo domandiamoci: quale deve essere l’attitudine dello Stato nei confronti delle molteplici e fra loro contrarie concezioni di vita buona presenti nella società? Quando dico “Stato” intendo concretamente l’esercizio del potere che è proprio ed esclusivo dell’autorità politica: fare leggi; metterle in atto; amministrare la giustizia.

0.3 Proviamo ora, come mero esercizio intellettuale, ad ipotizzare tutte le risposte possibili. Esse, mi sembra, possono essere non più di tre: neutralità, imposizione, partecipazione. La neutralità denota negativamente l’astensione dello Stato dal favorire l’una o l’altra concezione di vita buona, e positivamente l’impegno dello Stato di creare le condizioni in cui nessuna concezione di vita buona sia sfavorita a favore di un’altra. L’imposizione denota

positivamente la scelta dello Stato a favore di una concezione di vita buona a preferenza di altre, e negativamente la tolleranza o perfino la persecuzione di ogni altra concezione di vita buona. La partecipazione denota positivamente la scelta dello  Stato di favorire gli stili di vita che al contempo sostengono e la realizzazione della persona e la realizzazione del bene comune: la realizzazione di sé con gli altri; negativamente, non favorisce né condanna altri stili

di vita, ma semplicemente li ignora [ovviamente sempre che non siano penalmente perseguibili].

Ora siamo in possesso di tutti gli elementi per costruire con precisione la domanda alla quale cercherò di rispondere. Intendendo con «vita giusta» la modalità con cui lo Stato organizza la convivenza dei cittadini che perseguono concezioni di vita buona contrarie; intendendo con «vita buona» la realizzazione da parte degli agenti razionali delle proprie concezioni di vita buona, ci chiediamo: che rapporto deve esistere fra la «vita buona»  – la

realizzazione da parte degli agenti razionali delle proprie concezioni di vita buona – e la «vita giusta» – la modalità con cui lo Stato organizza  la  convivenza  dei  cittadini   di opposte concezioni di vita buona – ? Cercherò ora di rispondere a questa domanda, sia pure nella necessaria brevità.

L’IMPOSSIBILE SEPARAZIONE

Prendo subito in esame la risposta oggi dominante nel nostro Occidente, sia sul piano del pensiero sia sul piano della prassi. è la risposta colla quale abbiamo a che fare ogni giorno nel dibattito pubblico, in modo esplicito od implicito.

Ne farò un’essenziale esposizione e poi mi impegnerò a mostrarne l’inconsistenza teoretica e l’impraticabilità nella vita.

1,1 [Breve esposizione della risposta]. Formulata in maniera ancora molto rozza ma non falsamente, la risposta di cui stiamo parlando è la seguente: fra «vita giusta» e «vita buona» [nel senso spiegato sopra] deve esserci separazione. Esse connotano due ambiti della vita che non devono comunicare.

E ciò si realizza da parte dello Stato, colla scelta della neutralità nei confronti delle varie concezioni di vita buona;  da parte dei cittadini, colla scelta di confinare nel “privato” le proprie concezioni di vita buona.

Ma procediamo con ordine, vedendo in primo luogo come si arriva a questa risposta, o più precisamente quali sono i suoi presupposti.

Il primo presupposto è che nessuna concezione di vita buona è vera in alternativa alla sua contraria. è impossibile qualificare come vera qualsiasi concezione di vita buona e quindi falsa la sua contraria, dal momento che esse esprimono sempre e semplicemente fini e preferenze soggettivamente motivate, e sempre quindi rivedibili. è per questa ragione che nel contesto di questa teoria non si parla di “bene/vita buona”, ma di “concezioni di

vita buona”, volendo così connotare una necessaria pluralità fino al limite [anche se non sempre né necessariamente] della mera soggettività. Insomma: una verità circa il bene della persona e della società o non esiste [relativismo etico] o non può essere razionalmente affermata e dimostrata [agnosticismo etico].

Corollario del primo presupposto: qualunque scelta [legislativa, amministrativa…] a favore dell’una concezione piuttosto che dell’altra diventa inevitabilmente parzialità ingiusta e violazione dell’autonomia del soggetto.

Il secondo presupposto è che deve essere possibile organizzare la vita associata prescindendo imparzialmente dalle varie concezioni di vita buona; attraverso proposte universalmente condivisibili perché giustificabili senza riferimento a nessuna delle varie concezioni di vita buona; ed attraverso proposte che non sono meramente formali o procedurali. Il concetto di «giustizia» denota precisamente questa modalità di organizzare la vita associata: la vita  [associata]

giusta è la vita progettata secondo questa modalità. La giustizia quindi “si situa come punto di equilibrio e di imparzialità, tra pretese diverse e contrastanti e quindi anche tra possibili standards di eccellenza” [A. Verza, La neutralità impossibile, cit. pag. 22].

Prima di passare alla riflessione critica, annoto solo fugacemente che nel dibattito italiano, se non vado errato, al posto del termine “giustizia” nel senso spiegato, si usa non raramente il termine “laicità”.

1,2 [Riflessione critica]. Vorrei ora suggerirvi un’essenziale riflessione critica nei confronti di questa risposta.

Dobbiamo renderci subito conto che ci troviamo veramente dentro ad uno dei “nodi” del dramma contemporaneo.

Questo dramma è costituito dall’incapacità di rispondere ad esigenze spirituali che sembrano fra loro contrarie. Da una parte si avverte ogni giorno più l’urgenza di risposte alle grandi domande etiche e bioetiche, e dall’altra si è quanto meno incerti sulla possibilità di fondarle ragionevolmente. Ancora. Da una parte si avverte il bisogno di un “tessuto connettivo spirituale” universalmente valido, e dall’altro  si nega

l’esistenza di principi universali ed ancor più di assoluti morali vincolanti. è stato detto giustamente che le persone in quanto agenti morali sono in una condizione di “stranieri morali” [H.T. Engelhardt], che rende ogni giorno più difficile proporre risposte condivise e quindi efficaci. I fatti recentemente accaduti in Francia devono farci riflettere seriamente.

La via di uscita da questa situazione sopra proposta – quella della separazione – è percorribile? La mia risposta è negativa, a causa della sua inconsistenza teoretica e della sua impraticabilità esistenziale.

Inizio dal mostrarvi l’inconsistenza teoretica. è teoreticamente inconsistente una proposta quando è in se stessa contraddittoria, nel senso che non è in grado di accogliere in sé tutta la portata dei suoi assiomi. Più brevemente: la neutralità  – imparzialità può essere più affermata che mantenuta.

(a) Essa implica una precisa concezione di vita buona che trova nell’autonomia dell’individuo il suo valore di base. La proposta cioè non è neutrale – imparziale fino al punto da giudicare  imparzialmente, da essere neutrale di fronte alla proposta autonoma od eteronoma [la proposta cristiana ed ultimamente quella ebraica non è né di auto-nomia né di etero-nomia].

Il concetto-valore di autonomia è un concetto da usare con molta consapevolezza critica poiché nel momento in cui lo si afferma come “metodo”, lo si propone di fatto come “contenuto”. Si pensi alla giuridica equiparazione fra matrimonio e convivenza omosessuale, per fare solo un esempio. Essa viene non raramente giustificata colla teoria che stiamo discutendo. In realtà l’equiparazione è la scelta di una precisa concezione di matrimonio

e famiglia.

(b) All’interno di questa proposta è stata elaborata la categoria di tolleranza. Ora il concetto stesso di tolleranza connota un atteggiamento non di neutralità imparziale verso le concezioni di vita buona tollerate. La tolleranza connota un giudizio negativo o comunque non favorevole nei confronti di concezioni, soprattutto se aggressive, in contrasto con i valori della vita giusta intesa come sopra.

Se si vuole parlare-pensare coerentemente di neutralità ed imparzialità della condotta pubblica nei confronti di tutti, bisogna bandire l’idea che esista, e possa/debba esistere un gruppo tollerante di cittadini ed un gruppo tollerato, discriminati in base alle loro concezioni di vita buona. Le seconde in sostanza non sono più trattate imparzialmente.

Come si vede, quindi, la proposta di separare vita giusta e vita buona finisce col contraddirsi.

(c) Perché la separazione di cui stiamo parlando sia pensabile, è necessario che la giustificazione razionale delle norme di giustizia non sia desunta da nessuna concezione particolare di vita buona: neutralità nelle giustificazioni.

Ma una tale posizione è impossibile in quanto qualsiasi tipo di giustificazione, di argomentazione deve far riferimento ad un quadro ideale d’insieme, ad una visione dell’uomo. Solo un “sistema etico” particolare e quindi “parziale” può essere alla base di questa proposta di vita giusta, contro i suoi presupposti fondamentali.

L’unica giustificazione quindi è che questo è l’ethos particolare della società in cui viviamo e che deve essere semplicemente sostenuto. Non è quindi una vita giusta universalmente giustificabile, razionalmente giustificabile, ma solo giuspositivamente e storicamente.

(d) Resta, e lascio intenzionalmente inevaso il problema in realtà di base, e cioè la tesi dell’agnosticismo etico e quindi il giudizio dato sulle «concezioni della vita buona» .

Ed ora vorrei mostrare che non solo questa proposta di vita giusta è teoreticamente inconsistente, ma è anche non praticabile. In un duplice senso: di fatto nessuno Stato la pratica “allo stato puro”; non è augurabile che sia praticata.

Riguardo al primo significato di impraticabilità rimando semplicemente all’argomentazione c) di sopra. Ed aggiungo che la nostra Costituzione, il patto fondamentale cioè della nostra convivenza civile e politica, veicola un preciso quadro di valori e di principi.

Vorrei invece fermarmi più a lungo sul secondo significato. L’idea di fondo, la tesi che sostengo, è la seguente: tra le diverse forme di vita sociale e i diversi stili di vita personale lo Stato deve privilegiare e favorire quelli che creano e custodiscono valori sociali [«capitali sociali»: Donati – Zamagni – Belardinelli ], a preferenza di quelle forme e stili che non li costituiscono o li usurano.

Questa tesi, come risulta chiaro da quanto ho detto finora, è recisamente contraria alla teoria e alla pratica della neutralità come principio guida di qualsiasi azione che abbia rilievo pubblico. In questo senso dico che non è da augurarsi che la neutralità sia praticata. E «sono proprio i problemi che dobbiamo fronteggiare a seguito della crisi del Welfare State e dell’asse individuo-Stato a spingerci verso il superamento del principio di neutralità e

dell’idea che sta alla base, secondo la quale i diritti sarebbero da intendere esclusivamente come diritti individuali» [S. Belardinelli, L’idea di Welfare community, in (a cura di) S. Belardinelli, Welfare community e sussidiarietà, Egea ed., Milano 2005, pag. 18].

Mi limito ad una sola riflessione, ma che reputo fondamentale. La convivenza civile non può sussistere se non è pervasa da uno spirito particolare, da un ethos impastato di fiducia reciproca, di senso del bene comune, di fraternità, di responsabilità. Esso inoltre non può essere costituito che attraverso quel lungo processo di “socializzazione” della persona che ha il suo inizio nella comunità famigliare e si continua anche nelle altre formazioni

sociali. La convivenza civile ha bisogno di questi “capitali sociali”. Essa quindi deve favorire le forme sociali che li producono.

Esemplifichiamo: una coppia omosessuale non può essere messa sullo stesso piano e definita famiglia allo stesso modo del matrimonio. Non si tratta di privare ciascuno del diritto di vivere come vuole [purché ovviamente non violi il Codice penale], ma di sapere, di interrogarsi se una totale neutralità dello Stato alla fine  non dilapidi il suo  [dello Stato ]necessario ordine normativo ed i capitali sociali indispensabili.

In questo senso, il relativismo etico soprattutto, ma anche l’agnosticismo etico non è una base consistente per una giusta convivenza umana. E quindi una vita giusta ha bisogno di radicarsi in una vita buona. Non solo questo è un progetto sociale possibile, ma desiderabile.

TRANSITO al PUNTO SUCCESSIVO

Noterete che non discuto neppure la seconda ipotesi, quella della imposizione o dello Stato etico: essa è totalmente insostenibile. Non solo, ma prima di passare alla terza ipotesi, devo fare alcune importanti, necessarie precisazioni.

La critica fatta alla neutralità/imparzialità nel punto precedente non significa la critica, ed ancora meno il rifiuto a quei principi e valori che la teoria  e la prassi della neutralità criticata intende tutelare e promuovere: il valore della libertà [libertà civili, libertà religiosa, libertà economica o di impresa, libertà della ricerca artistica e scientifica]; il valore del riconoscimento reciproco; il valore della

pacifica convivenza di opposte concezioni etiche e/o religiose. Il problema che pongo è un altro: se, cioè la custodia di quei valori è possibile solo attraverso quella figura di neutralità o se invece si deve procedere oltre. Quando I. Berlin scrive che nessuna società, per quanto pluralista voglia essere, non può essere ugualmente ospitale verso tutte le concezioni della vita buona, pone o non un problema reale?

Seconda riflessione non meno importante. Storicamente risulta che quei valori non hanno potuto vivere a lungo, essere custoditi a lungo senza quel sistema politico; ma è ugualmente vero che oggi questa custodia presenta falle preoccupanti. Sarebbe teoricamente un errore e praticamente impossibile il voler “ritornare indietro”. Il compito nostro è di elaborare una teoria ed una prassi che non rinnegando nulla di ciò che di positivo c’era nel passato prossimo

e meno prossimo, faccia una proposta migliore di una “vita giusta” in ordine ad  una “vita buona”.

Scrive A. Panebianco: «Non si deve abdicare alla difesa attiva e vigorosa di quel poco di libertà di cui godiamo. Né si deve rinunciare allo sforzo di applicarla. Si deve però sapere che i nostri sforzi sfortunatamente, non potranno mai essere coronati da successo pieno. Anche nella società che chiamiamo libre la sfasatura fra la libertà che vorremmo e quella che abbiamo è dolorosamente destinata a rimanere molto ampia» [Il potere, lo Stato,

la libertà. La gracile costituzione della società libera, il Mulino, Bologna 2004, pag. 308].

La proposta che ora facciamo sembra più adeguata non a sopprimere quella sfasatura, ma a renderla meno ampia.

LA GIUSTA E BUONA PARTECIPAZIONE

Inizio da un testo di J. Maritain che esprime molto bene la ispirazione di questa proposta: «Il dramma delle democrazie moderne è di aver cercato senza saperlo qualche cosa di buono: la città della persona, sotto la specie di un errore: la città dell’individuo, che conduce di per sé a terribili liquidazioni» [La persona e il bene comune, ed. Morcelliana, Brescia 1963, pag. 63]. Come possiamo realizzare “la città della persona”?

Parto da alcuni presupposti si carattere ancora antropologici.

Il primo presupposto. Partendo dalla constatazione ovvia che il sociale umano si costituisce attraverso la co-operazione delle persone, è necessario partire dall’atto della persona, e quindi dal valore personalistico dell’agire con gli altri che istituisce la società.

Il valore personalistico consiste nel fatto che l’azione sia compiuta dalla persona e che in essa la persona realizzi se stessa; che mediante essa fiorisca la sua umanità.

Questo valore è negato quando l’agire della persona è pre-determinato da altri fattori, e pertanto la persona non trova più in esso la realizzazione di se stessa: non vivrebbe nella città delle persone. Sarebbe una città ingiusta ed in essa la persona vivrebbe una vita cattiva.

Il secondo presupposto. La modalità della vita associata che riconosce, difende e promuove il valore personalistico dell’agire con gli altri è la partecipazione, mediante la quale la persona realizza se stessa anche agendo con gli altri, nell’agire con gli altri. Ci sono beni umani che si possono realizzare solo agendo con gli altri, e la figura della partecipazione assicura precisamente il valore personalista del proprio atto senza ostare alla

realizzazione degli obiettivi comuni.

Sia la configurazione individualistica sia la configurazione totalitaria si oppongono alla configurazione partecipativa e la rendono impraticabile nella vita associata, in quanto e l’una e l’altra partono da un errore antropologico fondamentale: il bene dell’individuo [è qui il caso di dire] si oppone al bene comune o comunque l’uno è estraneo all’altro. E pertanto o il bene comune si riduce al “giusto” nel senso che abbiamo

visto nella prima parte; oppure il bene dell’individuo va ricondotto alla costruzione di un sociale imposto come bene totale.

E l’una e l’altra configurazione rendono impraticabile la partecipazione, in quanto ritengono impossibile una vera integrazione fra il bene della persona ed il bene comune. è precisamente a questo livello che avviene lo scontro fra la “città della persona” e la “città dell’individuo”.

Il terzo presupposto. A quali condizioni è possibile configurare la città dell’uomo come “città della persona”?

La domanda ha un duplice significato. Ha un significato descrittivo-ipotetico: «Ã¨ possibile se esistono…»; ha un significato normativo: «per realizzare una vera partecipazione bisogna che …». Consideriamoli distintamente.

Secondo il primo significato, la partecipazione è possibile in quanto la persona umana è per la sua stessa costituzione comunionale; in quanto, di conseguenza, esiste un bene umano comune; in quanto storicamente la costituzione comunionale della persona ed il bene umano comune si concretizzano in una comunità di destino e di vocazione, in una comunità culturale precisa.

Nel secondo significato, la partecipazione è possibile, cioè concretamente praticabile, se ci si impegna sul piano oggettivo a realizzare un forma di convivenza secondo alcuni principi ultimamente ordinatori della vita associata; se ci si impegna sul piano soggettivo ad acquisire alcune attitudini permanenti [= virtù] capaci di realizzare alcuni valori fondamentali.

E siamo così arrivati, terminati i presupposti, alle configurazioni del rapporto fra «vita giusta» e «vita buona» nello stile della partecipazione.

2,1. A livello oggettivo. La forma di convivenza che obiettivamente assicura una vera partecipazione è quella costruita sulla base di alcuni principi fondamentali la cui esigenza morale riguarda le istituzioni, le leggi, la convivenza civile.

Questi principi sono i seguenti: la dignità incondizionata di ogni persona umana; la radicale uguaglianza di tutti e di ciascuno; la principalità del bene comune proprio di ogni forma espressiva della socialità umana e costitutivo del suo [di ogni forma] significato e ragione d’essere della sua realizzazione; il principio della sussidiarietà.

Non è compito di questo intervento scendere ora ad una analisi particolareggiata di ciascuno di questi principi.

Ciò che volevo dire è che una società è giusta tanto quanto ispirata nella sua struttura e nella sua costruzione da questi principi.

Di conseguenza non ogni concezione di vita buona è ugualmente adeguata a costruire una città giusta in questo senso.

2,2. A livello soggettivo. Riprendo l’ultima osservazione. Una “città della persona”, nel senso spiegato sopra, esige che i suoi cittadini posseggano alcune attitudini spirituali.

Per individuarle, è necessario sviluppare brevemente un tema che sopra abbiamo appena accennato: il tema del bene comune. Esiste  un vero e proprio bene comune che è insito in ogni particolare forma espressiva della socialità umana: il bene comune che è insito nella società coniugale e le è proprio; il bene comune insito nella comunità imprenditoriale o impresa, e così via. Il bene comune è parte costituiva del bene della

persona, sia pure in grado e ragione diversa a seconda della forma espressiva della socialità. Hanno una particolare importanza le comunità naturali, come la famiglia e lo Stato. Il bene comune quindi è il bene che fonda ed istituisce ogni comunità umana: ne è – dicevano gli Scolastici – la “causa formale”.

Le attitudini di cui parlavo sono le attitudini della persona verso il bene comune; per partecipare alla sua realizzazione. Insomma: quale “vita buona” è adeguata per costruire una “vita giusta”?

La prima e fondamentale attitudine è la solidarietà. Essa consiste nella disponibilità permanente a prendersi cura della realizzazione del bene comune proprio della comunità.

Essa può/deve esprimersi in due modi fondamentali: la collaborazione; la opposizione. La prima modalità connota il prendere positivamente parte alla realizzazione del bene comune; la seconda consiste  nella critica ragionevole alla modalità con cui si sta realizzando il bene comune. Essa per sé riguarda i mezzi non il fine. Quando l’opposizione scendesse al livello del fine, ci troveremmo in una condizione di grave disgregazione della convivenza sociale, colla

necessità di reinterrogarci sulle ragioni ultime dell’essere, vivere, operare insieme.

La seconda e fondamentale attitudine è il dialogo. Essa consiste nella disponibilità permanente ad esibire argomentazioni razionali circa il proprio modo di realizzare la solidarietà. è questa un’attitudine di fondamentale importanza, sulla quale sarebbe necessaria una lunga riflessione. Mi limito solo ad una.

Perché il dialogo rispetti la “vita giusta” è necessario che sia ispirato dalla convinzione che esista una verità  circa il bene [comune] della persona; che pertanto esso non deve essere pensato come un conflitto tra avversari in cui si cerca di vincere, imponendo il proprio punto di vista; che è una ricerca comune della verità.

Non mi resta ora più il tempo per parlare delle attitudini viziose contrarie. Mi limito ad indicarle. Alla solidarietà si oppone sia il conformismo sia il disimpegno; al dialogo si oppone sia il relativismo che il fondamentalismo.

Concludo. La «vita giusta» non consiste solo nel rispetto di regole pattuite contrattualmente in modo che ciascun individuo sia ugualmente  in grado di realizzate la propria concezione del bene. La «vita buona» non consiste solo nella realizzazione della propria concezione del bene.

La «vista giusta» consiste nella costruzione di una vita associata nella quale sia possibile ad ogni persona realizzarsi mediante l’altro, e la comunità sia una dimensione costitutiva dell’autorealizzazione personale.

La «vita buona» consiste nella realizzazione della verità circa il bene integrale della persona umana comprendente anche quelle virtù che consentono una vera partecipazione alla vita associata.

In breve: è necessario passare dalla “città dell’individuo” alla “città della persona”, e quindi riunire il giusto al bene.

CONCLUSIONE

Quale fine quindi si propone questa Scuola che oggi apriamo? Quello di educare uomini e donne ad operare quel passaggio e quella riunificazione di cui parlavo.

Tale preparazione avviene ad un duplice livello: a livello del giudizio politico; a livello della condotta.

Il livello del giudizio politico denota la capacità di elaborare giudizi veri all’interno dei problemi propri dei fondamentali ambiti della vita civile e politica. Veri significa adeguati alla realtà umana ed in grado di compiere il passaggio alla “città della persona”.

Il livello della condotta è l’educazione a quelle attitudini di cui ho parlato sopra.

La Scuola che oggi si apre si pone al primo livello di preparazione: è educazione al giudizio politico .

  Nella stesura di questo punto ho trovato aiuto e ispirazione in A. Verza, La neutralità impossibile. A. Giuffrè ed., Milano 2000.

  Anche quando non è detto, si intende sempre parlare in questo contesto sia dei singoli sia delle comunità.

Al riguardo si può vedere Vita e Pensiero (LXXXVIII), 2005, 5 (settembre-ottobre), pag. 69-86 e la risposta a D. Antiseri di “Melisso” in www.chiesaespressonline.it.

Per «capitale sociale» intendo” la trama di relazioni fiduciarie fondate sul principio di reciprocità, il cui fine specifico è la fraternità”, praticando il principio di sussidiarietà in tutto il suo significato.

Così inteso, il «capitale sociale» è nutrito dalle concezioni etiche ed antropologiche presenti nella società e dal loro confronto aperto [S. Zamagni].

Desumo e sviluppo il concetto di “partecipazione” dalla filosofia sociale di K. Woitila, quale si trova già compiutamente esposta in Persona e atto. Parte quarta [vedi l’ed. italiana Rusconi libri, Milano 1999, pag. 611-693].

13/01/2006
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