“riflessioni sul Giorno del Signore”

Bologna

PREMESSA
Distinguerei la mia conversazione sul «Giorno del Signore» – tema primario e ineludibile di riflessione e di impegno per quanti attendono alla cura d’anime – in due parti e una conclusione.
La prima parte (più breve) avrà un’indole, per così dire, autobiografica: evocherà dei ricordi, in conformità alle inclinazioni tipiche delle persone anziane; ricordi non tanto di fatti quanto di idee: idee – considerazioni, suggerimenti, proposte – che si sono via via affacciate nelle discussioni ecclesiali del mezzo secolo che è trascorso.

La seconda parte (più impegnativa) vuole esporre qualche dubbio e delle possibili riserve sull’oggettiva validità di quelle idee. In sostanza sarà una piccola rassegna critica di alcuni «miti» che in quei decenni si sono presentati, se non come verità assolute, almeno come opinioni serie e plausibili.
La conclusione sarà un tentativo di raccogliere da questa duplice analisi qualche attenzione opportuna e qualche utile convincimento .

I. LE PERPLESSITÀ DI UN PASTORE
1. Quando ho iniziato la mia attività ministeriale, tutti i pastori d’anime annoveravano tra i loro più evidenti doveri quello di esortare all’osservanza del «precetto festivo». E anch’io mi sono messo su questa strada con tutto lo zelo di cui ero capace. Ripetevo alla mia gente che colui che mancava alla messa veniva meno a un obbligo grave e violava una delle leggi fondamentali del cristiano. Mi ritenevo in questo confortato dalla tagliente ed essenziale dizione del can. 1248 del Codice di diritto canonico, che non lasciava spazio per nessuna incertezza. «Festis de praecepto diebus Missa audienda est».

Ma un bel giorno m’informano che il mio zelo era mal consigliato, che la mia era una visione «precettistica» della domenica, assolutamente da superare; che il «giorno del Signore» era per essenza un giorno di gioia, e la gioia – è ovvio – non può essere imposta per legge; e che tutto sommato la cosa migliore era quella di non parlare mai più di «precetto festivo».
Il ragionamento mi pareva avesse il fascino dei pensieri intelligenti e la carica liberatrice dei pensieri nuovi. Restava solo da verificare se fosse anche un ragionamento capace di portare a messa qualche cristiano di più.

2. Mi sono comunque accinto con entusiasmo nell’impresa di far capire ai miei parrocchiani tutta la bellezza della domenica come giorno della gioia: gioia perché il mondo è stato creato, gioia perché è stato rinnovato dall’azione redentrice di Cristo, gioia perché su questo giorno si riverbera la luce letificante del Risorto, gioia perché anticipa, trascendendo la monotonia feriale della vicenda terrestre, la felicità del Regno dei cieli.
Sennonché mi capitò di leggere da qualche parte che neppure questa presentazione era encomiabile: essa in fondo non faceva nient’altro che avvalorare il gioco astuto dei borghesi, i quali alla religione chiedevano appunto di imbellettare con qualche rito ornamentale e consolatorio le loro ingiustizie, oltre che di pacificare in tal modo le loro false coscienze.

Che se poi in chiesa ad ascoltarmi c’erano, più che i borghesi da rimproverare, gli operai, le operaie e le addette ai lavori domestici (ed era il caso della mia parrocchia), la cosa non era meno deplorevole: una celebrazione tutta tesa a contemplare il Signore glorioso e a sperare nel conseguimento della vita eterna era senza dubbio «alienante», perché distoglieva gli uomini dai loro veri problemi e dalle loro povertà, cullandoli con i vagheggiamenti dell’al di là. Questo modo di santif¦care la festa faceva perdere al messaggio cristiano la sua originaria carica rivoluzionaria.

La strada da percorrere, mi dicevano, era l’opposta; era quella cioè di scuotere il torpore dei praticanti con la prospettiva impietosa di tutte le iniquità della società in cui si vive e con la condanna delle strutture oppressive. Si trattava insomma di fare della domenica non tanto il giorno della gioia quanto il giorno dell’accusa, della protesta, della «coscientizzazione» del proletariato (come si arrivava a dire, aggredendo con la mentalità «borghese» anche l’incolpevole lingua italiana).

3. Qualcosa di vero c’era forse anche in questo modo di ragionare. Confesso però che non mi sono mai sentito di seguirlo nella mia pratica ministeriale. E non per mancanza di coraggio: non ci voleva un gran coraggio a farsi carico delle medesime denunce che in quei giorni si ascoltavano dalle voci più chiassose ed erano argomento di assidua predicazione da parte dei detentori dell’egemonia culturale di quel tempo; ma proprio non me la sentivo di avvelenare il poco spazio di lode, di ringraziamento, di implorazione concesso ai miei fedeli né di amareggiare anche la domenica a gente che nella settimana già viveva una vita problematica e assillata, e aveva soprattutto bisogno di essere spiritualmente rianimata e ricondotta a sperare.

Soprattutto, quella di rovinare la gioia non mi pareva un programma conforme allo stile di Cristo, il quale – anche quando andava a tavola dai grassi borghesi sfruttatori del suo paese, che erano i pubblicani – mi pareva di poter supporre che non avesse mai raggelato un boccone ai suoi commensali né inacidito il vino bevuto in allegra compagnia, col richiamo (nel bel mezzo del pranzo) all’ingiustizia della società, alla miseria degli uomini, al problema della fame nel mondo; che pure erano mali che gli erano noti e lo facevano soffrire. Se i pubblicani continuavano a invitarlo (mi dicevo), è segno che non lo ritenevano un guastafeste.

4. D’altronde mi era anche capitato di leggere che le assemblee parrocchiali consuete (come quella che si radunava nella mia chiesa) non erano ecclesialmente genuine e credibili, perché erano composte di persone reciprocamente estranee e indifferenti, che non fondevano in unità i loro pensieri, le loro pene, le loro speranze, ma piuttosto obbedivano stancamente a un’abitudine ricevuta e compivano un gesto senz’anima. Non erano «comunità», e dunque il loro esterno radunarsi non aveva valore. Come si potevano qualificare come «credenti», i partecipanti a quelle messe? Tutt’al più potevano essere definiti «cristiani sociologici».

E anche qui c’era del vero. Il risultato però era che anch’io, essendo il loro parroco, mi sentivo avvilito a «parroco sociologico» e mi trovavo costituito in uno stato obiettivo di responsabilità morale o quanto meno di complicità; una complicità che, qualunque cosa facessi, non poteva che aggravarsi.
Che fare?

Da qualche parte mi veniva il suggerimento di abbandonare questa assemblea sociologica al suo destino e di affidarmi, come a una valida e profetica alternativa della parrocchia, alle «comunità di base». Questi piccoli raggruppamenti di persone affiatate tra loro, culturalmente omogenei, dalla partecipazione vivace e dall’impegno verificabile, erano presentati da alcuni come la forma ecclesiale dell’avvenire. Tanto più che bisognava riconoscere che la Chiesa viveva ormai in «stato di diaspora» e le manifestazioni di massa erano da ritenere trionfalistiche, inautentiche, in ogni caso prossime all’estinzione.

Un po’ di tempo dopo però qualcuno cominciò ad accorgersi che i «piccoli gruppi» non costituivano un’alternativa molto affidabile. La loro vitalità dipende spesso dalle doti e dalle attrattive caratteriali di alcuni dei partecipanti; e viene meno quando vien meno la loro presenza o anche solo la loro assiduità. Qualche analisi della situazione era arrivata a notare che i così detti gruppi spontanei avevano una durata media di qualche decina di mesi. Ricordo un parere d’Oltralpe, che sconsigliava di ripetere un’esperienza già dimostratasi fallimentare nella Germania degli anni trenta, quando si era tentato un analogo passaggio dalla parrocchia alle piccole comunità, sotto l’influsso di quella che allora era ritenuta una geniale e feconda intuizione pastorale, ma che adesso veniva dai più qualificata sprezzantemente come «ideologia socio-romantica».

5. Ma, a parte la questione sulle dimensioni e sulla natura della comunità cristiana che è la protagonista visibile della domenica, mi pareva che qualcosa di certo poteva essere insegnato sul «giorno del Signore» considerato in se stesso. Esso – racchiudendo in sé in modo obiettivo un mistero di salvezza – giustamente doveva essere definito «sacro», sicché il compito della pastorale poteva ricondursi a quello di aiutare i credenti a entrare sempre più consapevolmente e sempre più esistenzialmente in possesso di una ricchezza più alta e sostanziosa, che è già donata alla Chiesa: già è, per così dire, tra le nostre mani.
Ahimè! Neppure questo mi era pacificamente concesso.

In quegli anni iniziava ad affacciarsi alla ribalta teologica e pastorale – nel contesto di una declamata e compiaciuta «svolta antropologica» della «sacra doctrina» – una forte affermazione circa il valore della «secolarità» delle cose e la sua sufficienza per una lettura adeguata della realtà; affermazione che poi dava il via alla proposta (finallora inaudita) di «desacralizzare» l’intera vita cristiana e quindi anche l’azione cultuale.
Secondo quest’ottica, nell’universo uscito dalle mani del Creatore e tenuto in essere da lui, non esiste una realtà «sacra» e una «realtà profana», non esistono «azioni sacre» e «azioni profane»: la sola distinzione consentita è quella tra il «buono» e il «cattivo».

Tanto meno si potranno distinguere «canti sacri» e «canti profani», «vesti sacre» e «vesti profane», eccetera. L’unica differenza ammissibile è quella tra ciò che è umanamente autentico e ciò che non è autentico, che non è umano, che non è apprezzabile dall’uomo di oggi.
Ovviamente in tale visione neanche i giorni potevano essere classificati in «sacri» e «non sacri»: tutti i giorni sono di Dio e tutti i giorni sono dell’uomo. Insomma, era lo stesso concetto di «sacro» a dover essere ormai abbandonato come vano e fuorviante.

Da qualche parte mi sembrava addirittura di capire che si irridesse alla visione «misterica» della domenica, come a qualcosa di astratto, se non di onirico e di fiabesco.

6. Mi fermo qui, anche se potrei continuare in questa descrizione – senza dubbio sommaria, schematica, e con qualche esagerazione didattica – dei disorientamenti e delle perplessità che a un pastore derivavano (certo, insieme con molte idee stimolanti) dall’apprendimento delle teorie di alcuni moderni scrittori di cose ecclesiali. I quali fino al Concilio sembravano quasi tutti ammantarsi nell’atteggiamento – serio e anche un po’ noioso – dei «probati auctores»; mentre poi pare che spesso si siano divertiti a giocare agli «enfants terribles» della cultura cattolica: «enfants terribles» spregiudicati e volubili.

Ma è purtroppo un divertimento che personalmente avevo qualche difficoltà ad apprezzare. Avere di fronte ogni domenica gli stessi volti conosciuti e amati, volti di uomini che nella loro unica vita decidono di un destino eterno, non incoraggia certo un pastore, che abbia conservato un po’ di cuore e un po’ di senno, a proporre insegnamenti cangianti ed effimeri e ad avventurarsi in esperimenti sempre diversi. Così si spiega che molti pastori, pur benintenzionati, abbiano dato l’impressione di essere spesso incerti, confusi e un po’ persi; che non è lo stato d’animo più conveniente per chi ha il compito irrinunciabile di essere la guida dei suoi fratelli.

II. APPUNTI E RISERVE SU ALCUNI «MITI»
Dopo aver descritto sinteticamente alcune delle perplessità che negli anni passati potevano nascere nell’animo dei sacerdoti in cura d’anime, vorrei adesso valutare un po’ più da vicino alcune sentenze che sono circolate tra noi, fino ad assumere la connotazione quasi di affermazioni «mitiche», e come tali sottratte a un esame critico approfondito.
Non è che quelle idee non avessero qualche parziale validità; ma spesso peccavano di unilateralità e di troppa semplificazione. L’eresia – ha osservato acutamente Chesterton – talvolta più che un errore è una verità che si è dimenticata di tutte le altre.

Primo «mito»
Il carattere oppressivo della legge
La legge, si dice, è coartante; limita la libertà, mortifica lo slancio interiore, contrasta la fantasia dello spirito, spegne la gioia. Ciò che è comandato, diventa perciò stesso odioso.
C’è molta verità in questa persuasione. Tutti noi conosciamo la critica alla legge mosaica che si trova nelle lettere di Paolo. Ho tuttavia il sospetto che qualche assalto al «precetto festivo» trovi ispirazione più nella concezione nominalistica, largamente presente nella cultura contemporanea, che non in quella paolina.
Secondo la concezione nominalistica, la legge è essenzialmente un atto di volontà; è sempre perciò qualcosa di arbitrario, di sopravvenuto alla natura delle cose e di imposto estrinsecamente. È perciò sempre, poco o tanto, irritante e mal tollerata.

La mentalità di oggi ha esasperato al massimo questo sentimento, fino alla persuasione almeno implicita che è «vietato imporre» ed è «vietato vietare».
Ma san Tommaso – in quell’ammirevole capolavoro che è il suo trattato De legibus – ci insegna al contrario che la legge non è tanto un «imperium» quanto una «ratio»: è una intrinseca «misura del comportamento», che si identifica con la natura o almeno vi si innerva e vi si connette (Ia-IIae quaestiones XC-CVIII).
In questo secondo modo di vedere, la legge – lungi dall’essere oppressiva – aiuta il soggetto «misurato» a conoscersi nella sua verità e gli consente di essere autenticamente se stesso.

Press’a poco come, quando acquisto un’automobile, non posso giudicare una prepotenza e un’insidia alla mia gioia di proprietario, se il venditore mi avverte che nella macchina, per farla marciare, devo mettere la benzina.
Paolo stesso, che si proclama liberato dalla legge (e quindi in qualche senso «ànomos»), riconosce di essere «énnomos Christoù» (1Cor 9,21), cioè di avere la propria legge nell’organico inserimento in Cristo.
Il problema del precetto domenicale è appunto di appurare se la domenica sia o non sia parte del mistero totalizzante di Cristo, e di vedere se sia possibile dirsi adeguatamente inseriti in Cristo, senza celebrarla. I martiri di Abitina che dicevano: «Sine dominico esse non possumus», è probabile che non pensassero affatto a un’obbligazione di carattere meramente esteriore, che insidiasse la loro gioia.

Questa è una questione pastorale che dovrà essere affrontata senza superficialità.
Bisogna far entrare nella coscienza comune dei fedeli che la celebrazione domenicale (e non soltanto la celebrazione eucaristica) è obbligatoria e vincolante non perché sia arbitrariamente imposta dall’autorità, ma perché è intrinseca alla stessa struttura interiore della personalità cristiana e alla natura misterica della comunità ecclesiale.

Secondo «mito»
Il culto di Dio come «alienazione»
Il concetto di alienazione – che nei decenni trascorsi è ritornato con una certa frequenza nei nostri discorsi anche liturgici – è di origine hegeliana, ma alla cultura contemporanea arriva attraverso la mediazione di Marx. Per Marx, l’uomo cade nell’alienazione di tipo religioso (tanto per limitarci al campo che direttamente ci interessa), quando, dimenticando che l’unica sua patria è la terra, perde se stesso inseguendo le chimere dell’al di là e cercando un immaginario rapporto col Dio trascendente che egli stesso si è figurato.
Sotto l’influsso inavvertito di questo pensiero può capitare di trovare anche dei cattolici che giudicano alienante una liturgia primariamente dedicata alla contemplazione di Dio e alla memoria di Cristo, e qualificano alienante una domenica contrassegnata in modo eminente (anche se non esclusivo) dal culto del Signore.

Questo giudizio di alienazione – che in Marx è coerente con la sua antropologia ed è perciò normale rinvenirlo nell’ambito del suo sistema – è perfettamente antitetico all’insegnamento di Cristo e al suo Vangelo.
Anche in Gesù noi troviamo l’idea di alienazione, ma in ben altri termini. Citiamo qualche esempio: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?» (Mt 16,26). «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignuola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi tesori nel cielo…

Perché dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,19-21). È un rimprovero di alienazione quello che risuona nelle orecchie del ricco avido della parabola: «Stolto questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12,20); perché «la vita di un uomo non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15).
Si supera secondo Cristo questo radicale spossessamento di sé – questa «alienazione» – quando ci si reintegra, vale a dire si ritorna a essere ciò per cui siamo stati creati: cioè dei contemplatori di Dio e del suo progetto. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).

Se noi crediamo che la natura vera dell’uomo sia quella teologicamente attingibile – e cioè sia di essere immagine viva di Cristo nel suo molteplice aspetto di ricercatore, di adoratore, di figlio e di erede del Padre – dovremo ritenere appartenente intrinsecamente a noi tutto ciò che ci pone in rapporto diretto coll’Unum necessarium e dovremo ritenere alienante tutto ciò che ci porta a perderci nella molteplicità delle cose.

Terzo «mito»
Lo stato di «diaspora»
È abbastanza frequente sentir parlare, perfino con un certo compiacimento, di Chiesa che, dopo il tramonto della cristianità, si troverebbe in stato di «diaspora» o di dispersione.
La parola non è illegittima nel linguaggio cristiano, tanto è vero che si ritrova a capo della lettera di Giacomo (1,1) e della prima lettera di Pietro (1,1). Il suo uso però sollecita un minimo di riflessione critica, se si vuole evitare qualche malinteso.

Se si intende dire che i discepoli di Gesù «non abitano proprie città, non parlano una lingua speciale e non vivono una vita a parte» (come dice la Lettera a Diogneto, V,2), ma esistono sparsi, presenti e attivi in tutto il mondo e in tutte le situazioni umane, frammisti ai non credenti come il grano della parabola evangelica, e perciò anelanti a essere radunati nei granai del Regno, il termine è senza dubbio da accogliere. Basterà ricordare a questo proposito le belle espressioni con le quali, sempre la Lettera a Diogneto, descrive la vita «incredibile» («paràdoxos») dei cristiani: «Ogni estranea regione è patria per loro, e ogni patria è per loro terra straniera…» (V,5).

Sarebbe invece inaccettabile nell’economia della Nuova Alleanza la parola «diaspora», se per essa si volesse disconoscere la profonda e inalienabile realtà di comunione che lega i cristiani tra loro, a partire dal carattere oggettivo e permanente della rinascita battesimale. È una realtà che non giace solo sul piano dell’invisibile, ma si manifesta anche sul piano sociale e visibile. In questo senso, la redenzione di Gesù è stata proprio il superamento definitivo dello stato di dispersione: il Signore è morto – ci dice il quarto evangelo – «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). La Chiesa è dunque la fine senza ritorni della «diaspora», sicché un’ipotetica «diaspora» sarebbe per assurdo la fine non tanto della cristianità quanto della Chiesa.

Ma questo affascinante vocabolo, da taluno è usato per fare da furtivo supporto all’asserto che la «cristianità» sia un’idea costantiniana, medievale, oggi assolutamente improponibile: la cristianità è defunta, ed è un’encomiabile liberazione (si sente dire ogni tanto).
E chi mai ce lo ha rivelato?
La «cristianità» – cioè il riverbero sociologico della realtà misterica della Chiesa – è stata attuata in ogni epoca che è seguita all’effusione pentecostale. La comunità di Gerusalemme e le Chiese paoline (che certo non si possono definire «costantiniane») sono state autentiche cristianità, addirittura con elementi sociali, giuridici, economici, che, secondo la moda dei nostri giorni, sarebbero definiti «integralisti».

Va detto piuttosto che le forme di cristianità sono mutevoli: nessuna è eterna, e ogni secolo deve costruirsi la propria.
Agli effetti poi del nostro argomento, direi che la domenica è intrinsecamente orientata a trascendere la «diaspora» e a essere una manifestazione oggettiva ed eloquente della «cristianità». La disgregazione, come tutti i fermenti di male che derivano dal peccato, è un’insidia sempre in atto per i discepoli di Gesù che vivono ancora nel mondo; il mistero del giorno del Signore – come il mistero dell’eucaristia dal quale non può mai essere avulso, neppure nella considerazione – ci è dato appunto per superarla.

Uomini, topograficamente e socialmente dispersi, sono dalla domenica convocati in una unità anche esteriore e visibile. «Di tutti coloro che abitano nelle città o nelle campagne si fa il raduno nello stesso luogo», scriveva Giustino.
Ogni celebrazione domenicale è dunque intimamente orientata a trionfare dell’impulso disgregante del Maligno nella comunione donataci dal sacrificio di Cristo.

Quarto «mito»
L’enfatizzazione della «comunità»
In questo mezzo secolo la nozione di «comunità» si è progressivamente diffusa nelle tematiche pastorali, e oggi la si incontra un po’ in tutti i contesti. Le «parrocchie» sono diventate in larga misura «comunità parrocchiali», almeno nella loro carta intestata.
Anche la legislazione canonica si è adeguata. Il Codice del 1917 descriveva la parrocchia radunando quattro precisi elementi: un territorio distinto, un popolo determinato, una chiesa propria, un proprio pastore che è a capo per la necessaria cura delle anime (can.216 § 1).

Secondo il nuovo Codice (1983) «la parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell’ambito di una Chiesa locale, e la cui cura è affidata sotto l’autorità del vescovo, a un parroco quale suo proprio pastore» (can. 515, §1). Il principio del «territorio», che era primario, sembra addirittura scomparso; è però recuperato al can. 518 che dice: «Come regola generale la parrocchia sia territoriale».
Il legislatore ha dunque assunto un concetto – quello appunto di «comunità» – che si era già ampiamente imposto nella cultura ecclesiale.

Ed è una lodevole novità, che però domanda di essere ben valutata.
Che cosa è la «comunità» e che cosa è la «comunione»?
« Comunità» nasce come concetto sociologico e indica propriamente un raggruppamento di persone che passano insieme una buona parte della loro esistenza. Nel contesto che qui ci interessa significa un’aggregazione di creature umane che si conoscono, che hanno tra loro rapporti di amichevole consuetudine, che pongono in comune problemi, gioie, aspirazioni, progetti, che si sentono anche sul piano emotivo legate le une alle altre.

Fino a diversi decenni fa – prima dell’avvento degli «appartamenti», della televisione, dell’automobile e dei «fine settimana» – gli uomini conducevano un tipo di esistenza fortemente comunitario, sia nelle «corti» contadine sia nei caseggiati popolari delle città. Oggi la situazione è molto cambiata. Viene il sospetto che quando noi esaltiamo la «comunità» e la citiamo quasi ossessivamente nei nostri discorsi («comunità cristiana», «comunità parrocchiale», «comunità giovanile», eccetera), più che rappresentare una situazione di fatto riveliamo una nostalgia. Al tempo stesso però tentiamo di assegnarci un compito e un ideale; e qui sta la positività della locuzione.

Come si intuisce, «comunità» non è sinonimo di «comunione», che è un concetto teologico. «Comunione» evoca il grande e sorprendente dono del Padre, che ci ha radunati a costituire un’unica realtà trascendente: la realtà del «Christus totus» (del Cristo totale): «Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6). Questa è la «comunione», questa è la «definizione reale» della Chiesa, che perciò è «mistero di comunione».

La Chiesa, che è «comunione», deve essere anche «comunità»? L’interrogativo vale proporzionatamente anche per la parrocchia, che ha un essenziale indole ecclesiale.
Se è vero che la Chiesa è una comunione santa di uomini peccatori che tentano di vivere da fratelli (e quindi comunitariamente) riuscendoci sempre poco, allora la parrocchia deve essere vista come una comunione trascendente (fondata sulla fede, sul battesimo, su un minimo di appartenenza al Corpo di Cristo dei suoi componenti), che si sforza – si deve sforzare – di diventare sempre più «comunità», anche socialmente percepibile.

La vitalità e il pregio di una parrocchia, delle sue domeniche, delle sue celebrazioni eucaristiche sarà desumibile dall’ampiezza, dall’efficacia, dalla generosità delle sue esperienze comunitarie; ma sarà bene non dimenticare che la piena coincidenza della «comunione» con la «comunità» si avrà soltanto nella Gerusalemme celeste, nella liturgia eterna, nella domenica senza tramonto.

Bisognerà perciò fare attenzione a non far coincidere sbrigativamente la «parrocchia» con la «comunità». Si correrebbe il rischio di escludere dalla nostra sollecitudine quei fratelli che per i più diversi motivi non sono in grado di inserirsi o comunque di fatto non si inseriscono nelle iniziative e nei momenti comunitari: ma restano anch’essi «parrocchiani» a tutti gli effetti e sono anch’essi destinatari della nostra operosa carità pastorale.

Quinto «mito»
La «desacralizzazione»
Proponiamo un’ultima riflessione sulla categoria del «sacro» e sull’ideologia della «desacralizzazione».
La categoria del «sacro» è sempre stata patrimonio comune della dottrina e della prassi ecclesiale. Anche il Concilio Vaticano II non ha temuto di parlare di «sacra liturgia», «sacre celebrazioni», «musica sacra», «arte sacra», «segni sacri», «sacro ministero», «tempi sacri». Si ritrova altresì questa terminologia nei «Praenotanda» dei nuovi libri liturgici. Il Codice del 1983 intitola la sua terza parte: «I luoghi e i tempi sacri» (cann. 1205-1253).

In questi decenni invece la terminologia «sacrale» è stata fatta oggetto di estesa contestazione.
Ricorrere alla categoria della «sacralità» – si è detto da più parti – comporterebbe addirittura il pericolo di ricadere in una concezione vetero-testamentaria o addirittura di ripiombare – sia pure in buona fede – in una cosmologia pagana. Sacralizzare i luoghi, i tempi, le cose, significherebbe rivolgersi di nuovo ai «deboli e miserabili elementi» del mondo, come dice san Paolo, e meritare dallo stesso apostolo l’accusa di «vana osservanza»: «Voi osservate giorni, mesi, stagioni e anni! Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo» (Gal 4,10-11). Anche la domenica quindi non può più essere presentata come un giorno «sacro».

Al fondo di questa critica – che contrasta con l’intera tradizione ecclesiale – c’è, mi sembra, una insufficiente comprensione del disegno salvifico del Padre che ci è stato rivelato. Cercherò di spiegarmi nella maniera più semplice e più sintetica.
L’economia in cui viviamo non è l’economia della pura natura né l’economia dell’elevazione innocente: noi viviamo nell’economia della redenzione, cioè in un mondo che è stato contaminato dalla colpa ed è riconquistato e rianimato dalla grazia.

Non solo, ma l’epoca in cui ci troviamo – cioè quella che decorre tra la prima e la seconda venuta del Signore – è già l’epoca della vittoria di Cristo, ma non della totale e visibile disfatta del male; è l’epoca del progressivo riscatto. Satana non è ancora estromesso e la sua azione si esercita ancora. Le realtà vanno a una a una raggiunte e liberate dalla forza del Redentore, i cuori vanno a uno a uno santificati. Tutti noi siamo coinvolti in questa lotta, che si svolge dentro e fuori di noi.

A questo punto si inserisce la «dimensione sacrale» come una sorprendente misericordia del Padre.
Poiché egli ha scelto – con decisione oscura e adorabile – di apparire temporaneamente sconfitto e quasi allontanato dalla sua creazione, Dio si preoccupa di quelli che sono suoi e sono costretti a restare nella tensione nonostante la loro fragilità e la loro congenita tendenza a disanimarsi. Li assicura allora di una sua speciale «presenza salvifica», che eccede quella puramente creaturale (la così detta «presenza d’immensità», che c’è in tutti gli esseri), e al tempo stesso è sottratta alla volubilità degli atteggiamenti interiori dell’uomo (e quindi alla deteriorabilità della «presenza di grazia»).

Questa è la presenza «sacrale», che non si smarrisce coi nostri smarrimenti, che sopravvive alle nostre sconfitte, che rimane come base salda di ogni ripresa.
Per esemplificare, il battezzato conserva una somiglianza inviolabile col suo Redentore anche se si è lasciato riprendere dal peccato. Cristo è presente e opera indefettibilmente nel sacerdote anche quando questi è divenuto indegno della grazia di cui è ancora strumento. Sono due esempi di «persone sacre».

Ma ci sono innumerevoli realtà che appartengono all’ordine del «sacro», vale a dire di quella presenza salvifica che non dipende dal permanere della libera adesione dell’uomo, ma trova il suo fondamento nella fedeltà di Dio che supera ogni possibile infedeltà della creatura. Sacro è il libro ispirato da Dio, sacra è l’infallibile trasmissione della verità rivelata, sacri sono il banchetto eucaristico e tutti i riti sacramentali.
La sacralità è una dimensione essenziale del progetto con cui Dio ci salva, e la si incontra in ogni angolo del mistero cristiano; ma possiede una diversa intensità e si attua con diversa pienezza.

Si capisce allora come si possa arrivare per analogia digradante a ritrovare il «sacro» oltre che nelle persone e nelle azioni, anche nelle cose, nei luoghi, nei tempi che in modo stabile sono riservati al culto del Signore e possiedono una connessione permanente con l’iniziativa salvifica.
La santità soggettiva (cioè l’adesione libera e personale dell’uomo all’azione dello Spirito) è richiesta e sostenuta dalla «sacralità», così come la «sacralità» esige la corrispondenza soggettiva del soggetto: la verità intrinseca della Sacra Scrittura sollecita l’apertura personale della fede; l’infallibilità del magistero ecclesiastico suppone l’atteggiamento di docilità degli animi; l’immancabile efficacia dei sacramenti postula che siano amministrati e ricevuti nell’amore; la consacrazione battesimale ci impegna a vivere la vita nuova; il mistero obiettivo della domenica ci domanda che in quel giorno abbiamo a rendere esplicita in noi la memoria della risurrezione di Cristo e ad anticipare coscientemente il giorno eterno.

La sacralità e la santità dunque non si oppongono, ma nemmeno possono essere risolte l’una nell’altra: sono due aspetti fondamentali e irrinunciabili del divino progetto di salvezza.
Naturalmente la sacralità degli atti, delle cose, dei tempi, dei luoghi, è legata a questa epoca della storia di salvezza (che decorre tra la prima e la seconda venuta del Signore) e perderà alla fine la sua ragion d’essere nell’universo pacificato, quando tutte le cose saranno sottomesse «perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). Dove si vede che i «desacralizzatori» più che in errore sono solo in anticipo sui tempi; escatologicamente saranno accontentati.

Invece in questo periodo, nel quale stiamo ancora aspettando la Gerusalemme celeste, negare o trascurare la categoria del «sacro» significa vietarsi una comprensione adeguata della misericordia del Padre, che resta presente tra noi con la sua forza rinnovatrice e liberante, oltre ogni nostra possibile defezione.
Potremmo osservare incidentalmente che si può capire come il senso della sacralità si estingua in una teologia che abbia smarrito il principio sacramentale, l’idea del sacerdozio ministeriale e il sentimento della vita cristiana come progressiva mistagogia. È più difficile spiegare questa eclissi in una teologia che voglia con intelligenza restare «cattolica», cioè non voglia lasciare nell’ombra niente di quanto è contenuto nel tesoro della Rivelazione.

Naturalmente se si definisce la domenica «giorno sacro» – cioè connesso obiettivamente col mistero salvifico – si rende perciò stesso necessario chiedersi perché, in che senso e in che misura si avvera questa connessione. Si rende cioè necessaria l’esplorazione e la contemplazione del «mistero della domenica», proprio come «mistero», come «grazia», come realtà che ci trascende.

CONCLUSIONE
Le considerazioni sin qui fatte sono, come si è visto, abbastanza varie e quasi sconnesse. Vorrei almeno in sede di conclusione, enunciare l’idea ispiratrice che soggiace a questa specie di rapsodia e in qualche modo la unifica. Tenterò di chiarire il mio pensiero formulando cinque rapide annotazioni di metodologia pastorale.

1. Occorre ripartire dal «mistero salvifico», considerandolo non tanto un’occasione per le nostre esercitazioni e le nostre ipotesi quanto un dono da ricevere e da assimilare. Si tratta di ritornare a vedere l’azione liturgica come atto essenziale di obbedienza a un disegno che ci precede e ci sovrasta. «Il mistero che celebriamo, o Padre, è obbedienza al comando di Cristo», dice il canone pasquale del messale ambrosiano subito dopo le parole dell’istituzione. Con questo atteggiamento interiore non faticheremo tra l’altro a capire che il progetto salvifico è già in se stesso un progetto di promozione dell’uomo, elaborato nell’eternità – prima dunque della così detta «svolta antropologica» – dalla sapienza trascendente del Padre.
La realtà della domenica va dunque accolta in tutta la sua ricchezza, come giorno del Signore risorto, come giorno della gioia dei redenti, come giorno della carità, come giorno epifanico della Chiesa, come giorno dell’attesa e dell’anticipazione escatologica.

2. Il «mistero della domenica» va proposto continuamente a tutto il popolo di Dio nella sua verità e nella sua totalità, senza mutilazioni, senza distorsioni. senza aggiunte stridenti.
Le nostre tentazioni sono molte: da quella di voler migliorare il progetto, a quella di praticare degli sconti nell’annuncio della realtà salvifica. Ma la proposta va presentata integralmente, con chiarezza e con fermezza, nella convinzione che in essa sta la salvezza dell’uomo.

3. Se la proposta di Dio è totalizzante e deve restare integra, la risposta dell’uomo è sempre inadeguata e parziale. Questa perenne insufficienza della risposta dei fedeli è un fatto che va pastoralmente riconosciuto, senza credere possibile che si avveri il miraggio di una comunità purificata da ogni passività e senza la propensione gnostica a costruire una piccola Chiesa di perfetti.
Tutti i cristiani vanno rispettati e amati, anche nella terminologia pastorale. Quanti così detti «cristiani sociologici» nel momento della prova e dell’adesione penosa alla volontà di Dio mi si sono rivelati molto più autentici di quanto non avessi potuto dedurre dal loro modo di partecipare alla messa!

Può essere piuttosto utile ricordare che nessuno di noi è un cristiano intero: noi siamo tutti dei tentativi di essere cristiani; tentativi che riescono a percentuale diversa, misurata solo dal giudizio di Dio. L’azione pastorale si prefiggerà soprattutto di ottenere che il tentativo sia da tutti ripetuto senza stanchezza. Ma i veri pastori non disprezzeranno mai neppure il più esiguo frammento del Regno, anzi saranno sempre attenti e docili alla parola del Signore: «Raccogliete i frammenti, perché nulla vada perduto» (Gv 6,12).

4. Non è necessario che un raggruppamento di battezzati costituisca una comunità umanamente viva e compatta perché si possa celebrare la domenica, ma è necessario che un raggruppamento di battezzati che celebra la domenica si sforzi di dare origine a una comunità viva e compatta. Il che significa che non sono le affinità elettive, ideologiche, culturali né le connessioni socialmente umane a metterci in grado di entrare in comunione col mistero del Signore risorto, ma è il Signore risorto che ci raduna in una comunione ecclesiale e ci sollecita a superare il nativo egoismo fino a costituire veramente una famiglia.

5. Occorre infine che non si consideri il grande numero dei fedeli che si riuniscono nelle nostre chiese un segno necessario dell’autenticità del nostro annuncio. Il Signore non ha mai assicurato la «maggioranza» al suo «piccolo gregge» (cf. Lc 12,32): non coltivare illusioni fondate su promesse che non ci sono state fatte, è il modo migliore per non lasciarsi sopraffare dalle delusioni. D’altra parte non bisogna guardare alle chiese deserte come a un valore, a una prova della genuinità del Vangelo che predichiamo, a un indizio di fede più personale e matura (come talvolta càpita di ascoltare).

Gli insuccessi e le apostasie possono essere momenti inevitabili e anche previsti dal disegno di Dio, ma non c’è bisogno di presentarli come eventi di grazia.
Oltre ogni esito, dobbiamo lavorare nella fedeltà e nella speranza. Le vittorie definitive non sono in programma prima dell’apparizione gloriosa del Signore, alla quale dobbiamo sempre pensare con desiderio. Ci si impegna con più animo, con maggior tranquillità interiore, con equilibrio più sicuro a una più cosciente e partecipata celebrazione della domenica terrena quando ci si ricorda che in ogni caso alla fine ci attende la domenica eterna.

10/09/2003
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