S. Francesco Sales – Patrono dei giornalisti – Comunicazione e compito educativo

Bologna

Indice
1. Un tema esigente e stimolante.
2. La pedagogia decostruttiva.
3. La ragione umiliata e offesa.
4. Degenerazioni antropologiche.
5. Mettere in campo le potenzialità educative.
6. Una speranza più grande.
7. L’educazione è possibile.
8. Agire su tre fronti.
9. La gioventù e i “” che contano.
10. I Media al bivio: protagonismo o servizio.

 

1. Un tema esigente e stimolante

Sono particolarmente grato agli organizzatori di questa Festa Regionale di S. Francesco di Sales per avermi coinvolto nella riflessione sul rapporto tra “Comunicazione e compito educativo”. È un tema stimolante e attuale, ma soprattutto esigente, perché pone i giornalisti e tutti gli operatori del vasto mondo della comunicazione di fronte alle scelte  di fondo, che riguardano il futuro della società, soprattutto in Italia e in Europa.

Accostare la complessità mediatica all’emergenza educativa può sembrare, oggi, una provocazione e addirittura un volersi porre in condizione di corto circuito senza via d’uscita. Ma la sfida non sta tanto nel cercare le cause di questo black out – cause ben note e purtroppo dai più accolte come ineluttabili – ma nella volontà e capacità di mantenere viva la consapevolezza che esiste tra la comunicazione e l’educazione un rapporto originario che si può calpestare, ma non distruggere.

In questa giornata vogliamo ricordare S. Francesco di Sales come Patrono dei giornalisti presso il Padre Celeste, sorgente primaria e fondante di ogni “buona notizia”, ma anche come esempio di ricerca di nuovi rapporti tra la “buona notizia” e la sua concreta destinazione, cioè, “ogni creatura” (Mc 16, 15) e “tutte le nazioni” (Mt 28, 19).

Per mettere bene a fuoco il nostro tema, però, abbiamo bisogno anzitutto di guardare in faccia la realtà e cogliere, senza reticenze, l’identità dei destinatari della buona notizia educante.

 

2. La pedagogia decostruttiva

Sono passati quarant’anni, ormai, dal 1968, un anno che ha fatto e continua a far parlare di sé.

Ancora oggi i protagonisti di quel periodo (molti sono inseriti nei centri del potere) non danno una valutazione univoca su ciò che è successo. Comunque, da quei fatti, soprattutto nel nostro Paese, sono nati fenomeni distorti, violenti e preoccupanti, come il terrorismo.

Sicuramente il Sessantotto è stato un fenomeno rilevante, perché ha messo in luce un disagio giovanile che nascondeva aspirazioni legittime. Ma le risposte a queste istanze erano sbagliate: il metodo della lotta violenta e le strumentalizzazioni di parte, anziché risolvere i problemi li hanno aggravati.

Nei mesi scorsi, in occasione del 30° anniversario dei fatti del ’77, molti hanno parlato e tanti sono stati i servizi giornalistici che hanno cercato di interpretare il fenomeno ma oggi, come allora, permangono le miopie di parte, che impediscono analisi oggettive, capaci di contribuire all’edificazione di un futuro di speranza per le nuove generazioni.

Purtroppo, l’incapacità o la non volontà di comprendere e di provvedere, da parte di quanti ne hanno facoltà, e soprattutto l’opera decostruttiva di tanti “falsi maestri”, ha favorito il disorientamento di alcuni movimenti giovanili che, ancora oggi, teorizzano e praticano la cultura della violenza come strumento di lotta politica e di equità sociale.

 

3. La ragione umiliata e offesa

Ciò nonostante, per iniziativa di non poche istituzioni, – comprese  alcune Facoltà di rinomate Università italiane – si continua a proporre all’attenzione dei giovani l’insegnamento di “cattivi maestri”, che in passato hanno fatto della violenza, anche estrema, il metodo del loro impegno sociale, ispirandosi a ideologie nichiliste.

L’insipiente episodio accaduto nei giorni scorsi all’Università “La Sapienza” di Roma ne è un’eloquente e triste conferma. In nome della ragione – come ha detto il Cardinale Caffarra – si è voluto umiliare l’Università, la ragione stessa, l’uomo nella sua dignità e libertà.

Si è voluto offendere la comunità cattolica, nella persona di chi ora la guida, Benedetto XVI, che del rapporto amichevole tra fede e ragione ha fatto una delle costanti del suo magistero, offrendo un altissimo contributo all’opera di quanti vogliono promuovere davvero un autentico umanesimo.

L’episodio accaduto all’ateneo romano – che il buon senso del popolo italiano ha immediatamente isolato e condannato – suscita comunque tristezza, perché è nota “la considerazione che da sempre la Chiesa nutre nei confronti dell’istituzione universitaria. Basterebbe pensare a come e dove sono nate le Università (Card. Bagnasco, 21-1-2008).

L’Università di Bologna, per esempio, ha le sue vetuste tracce accanto alla Cattedrale di San Pietro e il suo antico sigillo riporta un detto medioevale molto significativo: “Legum Bononia mater – Petrus ubique pater”.

Questo sigillo esprime “la vocazione della Città in quei secoli, indicandola maestra di legge per la società umana, figlia devota di S. Pietro e della Sede Apostolica per il rispetto, il culto e la messa in opera dei valori religiosi, considerati fondamento e garanzia di un equilibrato convivere civile” (Giovanni Paolo II, 18-4-1982).

 

 

4. Degenerazioni antropologiche

Il 41° “Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese” (2007), mentre fotografa l’attuale società italiana, nelle sue potenzialità e nei suoi limiti, vede questi ultimi soprattutto come “degenerazioni antropologiche”. Queste hanno la loro principale manifestazione nell’intima e profonda “pigrizia fisica e psicologica”, ormai allo stato endemico.

Più in superficie, invece, emerge un notevole disorientamento e uno stressante svuotamento dei ruoli, che sfocia in uno stato di permanente disforia, che abbassa sempre più l’indice di sopportabilità.

Ne consegue un forte aumento della litigiosità e dell’aggressività sociale a tutti i livelli, soprattutto tra i giovani, in famiglia, a scuola, negli stadi, ma anche tra i protagonisti dell’agone politico.

Va sottolineato, comunque, che queste “zavorre antropologiche” – così le chiama il Rapporto – non impediscono l’emergere, sul piano sociale, di una grande voglia di mediazione, capace di dare risposte ai bisogni di socialità e di appartenenza.

 

5. Mettere in campo le potenzialità educative

Da più parti si afferma che è scoccata l’ora di un impegno più forte per superare la pigrizia e la conflittualità sociale, in vista di traguardi condivisi. Ciò richiede la volontà, “super partes”, di mettere in rete tutte le potenzialità educative e formative disponibili.

I giovani, infatti, non hanno bisogno di pedagoghi ideologicamente costruiti, ma di maestri che insegnino a ragionare e a gestire al meglio i propri talenti, mediante la capacità di discernimento e il dominio di sé.

Le nuove generazioni hanno bisogno della testimonianza di uomini e di donne ben formati, capaci di trasmettere i criteri per riconoscere l’inconstistenza argomentativa dei teorici del “disincanto” e dei “giocolieri del pensiero debole”.

Pertanto, di fronte al crescente attacco alla struttura antropologica dell’essere umano, con risvolti sempre nuovi e imprevedibili, è necessario recuperare e ripartire da alcune certezze. Infatti, solo il riferimento a un patrimonio culturale di verità condivise permette, da un lato, di esorcizzare la paura suscitata dagli effetti negativi della “globalizzazione”, dall’altro, di sconfiggere il “soggettivismo morale e sociale”, vero ostacolo ad una misura più alta della qualità della vita, fondata invece su un “ordine etico oggettivo”.

 

6. Una speranza più grande

Certo, la “globalizzazione” è un fatto inarrestabile, ma ciò non significa che non sia orientabile. Di fronte ai conflitti planetari per la supremazia economico-energetica e le problematiche sociali e morali che ne derivano, Benedetto XVI ha detto che “non si può dire che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro” (Cf. Omelia dell’Epifania 2008).

Di conseguenza, per dare maggiore consistenza ai tentativi di instaurazione di un efficace ordine globale, c’è bisogno di una speranza più grande. Non basta quella connessa ai progetti umani che, anche quando si realizzano, rimandano sempre a una speranza ulteriore, che spinge verso il tutto (Cf. Enciclica Spe salvi, n. 30).

Questa speranza più grande, nasce dalla fede e introduce un elemento decisivo nella dinamica del “già e non ancora”, una formula che non va intesa in un’ottica di separazione tra il presente e il futuro escatologico ma, secondo l’ottica dell’Enciclica Spe salvi: “la fede, cioè, non è soltanto un protendersi verso le cose che devono venire”, ma già ora ci dà qualcosa. “Essa attira il futuro dentro il presente” (Cf. n. 7)

Ora, “questa grande speranza – ribadisce il Papa – può essere solo Dio… non un qualsiasi Dio, ma quel Dio che possiede un volto umano, perché si è reso visibile in Gesù Cristo (Cf. Spe salvi, n. 31).

 

 

7. L’educazione è possibile

Secondo gli antichi cristiani, Gesù Cristo si è fatto pastore e filosofo, il pedagogo itinerante che sapeva insegnare l’arte essenziale, cioè l’arte di essere un vero uomo: l’arte di vivere e di morire, mentre, a quei tempi, tanti “ciarlatani” andavano in giro solo per “sbarcare il lunario”, incantando le persone con parole eleganti ma inconsistenti.

Gli antichi sarcofaghi, invece, rappresentavano Gesù con il Vangelo in una mano e con il bastone del viandante nell’altra: il Vangelo che porta la verità e il bastone che vince la morte. Gesù, dunque, è colui che indica la via e questa via è la verità che ci dà la vita (Cf. “Spe salvi”, n. 6).

Pertanto, come ha ricordato il Card. Caffarra (29 aprile 2004), “l’educazione delle nuove generazioni è possibile, perché è possibile introdurre i giovani nella realtà della vita”, cioè nella verità.

Questa possibilità e necessità è dimostrata soprattutto dal fallimento delle scelte culturali in atto nel nostro paese che, troppo in fretta, ha ceduto alle pressioni libertarie e ha posto a fondamento della propria razionalità il “relativismo”, il quale nega l’esistenza della verità. Ma su questa strada non è possibile fondare né la “conoscenza”, né la “scienza” come forma di conoscenza dimostrativa e, tanto meno, la “comunicazione” persuasiva.

Le conseguenze pratiche di tale situazione sono sotto gli occhi di tutti: l’incapacità di gestire la propria libertà; la mancanza di un’etica della responsabilità; la perdita della concezione di diritto naturale e – lo vediamo ogni giorno con evidente disagio per tutti – l’incapacità di costruire un’autentica democrazia.

Tutto questo porta ad una crescente “invivibilità della società”, con riverberi inquietanti, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. È necessaria, pertanto, una rieducazione all’uso dell’intelligenza, per ricostruire la “pienezza della razionalità” (Cf. A. Strumia, Le scienze e la pienezza della razionalità, Cantagalli, Siena 2003, pp. 8-11).

 

8. Agire su tre fronti

Occorre, pertanto, attivare un’autentica pedagogia formativa che si impegni su tre fronti: il buon uso dell’intelligenza, contro l’irrazionalità dilagante; la conoscenza della verità, per l’esercizio maturo della libertà; la gestione della propria capacità di amare, fino alla riscoperta del fascino delle scelte definitive, per una piena donazione di sé.

Le decisioni definitive, anziché togliere la libertà – come qualcuno sostiene – la esaltano. Infatti, solo gli uomini e le donne ben formati, motivati, e spiritualmente robusti, sono in grado di maturare in pienezza e di costruire qualcosa di solido e duraturo nella vita. In particolare di esprimere l’amore vero, capace di donare gratuitamente se stesso, nelle piccole come nelle grandi scelte.

Pertanto, dalla formazione al buon uso dell’intelligenza, della libertà e della capacità di amare fino al totale dono di sé, deriva, nell’uomo e nella donna il coraggio di dire “no” alle illusioni irragionevoli del libertarismo, ai surrogati dell’amore, oggi proposti ai giovani come risposta alla loro ricerca di felicità, mentre sono palliativi ingannevoli e frustranti.

I responsabili dei circuiti mediatici pubblici e privati, sotto questo aspetto, dovrebbero compiere un profondo esame di coscienza, perché hanno una grave responsabilità davanti a Dio e agli uomini.

“Con il pretesto di rappresentare la realtà, di fatto si tende a legittimare e a imporre modelli distorti di vita personale, familiare e sociale. Inoltre, per favorire gli ascolti, la cosiddetta audience, a volte non si esita a ricorrere alla trasgressione, alla volgarità e alla violenza” (Benedetto XVI, Messaggio per la giornata mondiale delle Comunicazioni sociali 2008).

 

9. La gioventù e i “” che contano

Educare le nuove generazioni alla capacità di dire “no” significa anche sviluppare l’attitudine a dire i “sì” che contano nella vita. “Sì” soprattutto all’amore di Dio e del prossimo, da cui sgorga la forza e il coraggio di rispondere alla chiamata del Signore e consacrare la propria vita nel Sacerdozio o nella speciale consacrazione religiosa maschile e femminile, per reintrodurre nel nostro paese una “misura alta” della vita cristiana ordinaria, a servizio del bene comune.

I Sindaci dei nostri paesi di montagna e di pianura, di qualunque estrazione politica, sono in grado, più di altri, di comprendere questa emergenza, perché in una comunità a misura d’uomo emerge con maggiore evidenza che il prete è un dono per tutti e, se viene meno, non solo ne soffre la pratica cristiana, ma la stessa vita sociale perde uno dei riferimenti strutturali.

Inoltre, occorre recuperare la capacità di dire “sì” alla famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” tra l’uomo e la donna, come stabilisce l’Art. 29 della Costituzione italiana, famiglia che va aiutata anche economicamente, come raccomanda l’Art. 31 della stessa Costituzione.

Educare i giovani a gestire la propria capacità di amare significa, anche, rivalutare il sacramento del matrimonio tra l’uomo e la donna, vissuto come patto indissolubile sorretto dalla grazia di Dio, capace di promuovere la famiglia secondo l’ottica dell’amore integrale, che col tempo si trasforma e si fa dono per tutta la vita e fa dell’istituto familiare una “cellula” viva della società, un vero e proprio “serbatoio” di risorse sociali.

A tale proposito, Benedetto XVI, nel Messaggio per la giornata della Pace (1-1-2008) ha detto: “I mezzi della comunicazione sociale, per le potenzialità educative di cui dispongono, hanno una speciale responsabilità nel promuovere il rispetto per la famiglia, nell’illustrarne le attese e i diritti, nel metterne in evidenza la bellezza” (n. 5).

 

10. I Media al bivio: protagonismo o servizio

Giovedì scorso, 24 gennaio, festa liturgica di S. Francesco di Sales, è stato presentato alla stampa il Messaggio di Benedetto XVI per la XLII “Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali”, che si celebrerà il 4 maggio 2008.

Questo documento viene a dare un’ulteriore conferma dell’urgenza e del bisogno che il mondo della comunicazione ha di prendere in considerazione l’emergenza educativa. Il tema della giornata, infatti, parla chiaro: “I mezzi di comunicazione sociale: al bivio tra protagonismo e servizio. Cercare la verità e condividerla”.

È un documento che l’UCSI, la FISC, il Club S. Chiara e tutto il mondo della Comunicazione Sociale non dovrebbero accantonare troppo facilmente, come se fosse il solito “fervorino” di circostanza. È un documento, invece, che nella sua sintetica brevità tocca le questioni fondamentali del futuro della nostra società, proprio in relazione al potere comunicativo dei media.

Essi sono diventati “parte costitutiva delle relazioni interpersonali e dei processi sociali”, pertanto il Papa ribadisce la loro “potenzialità educativa” e quindi la loro “responsabilità” sociale.

I meriti della Comunicazione di massa, grazie ad una costante evoluzione tecnologica, sono innegabili (alfabetizzazione, socializzazione, sviluppo della democrazia), ma oggi pongono “nuovi e inediti interrogativi e problemi”.

Pertanto, il mondo della Comunicazione, si trova di fronte a un “bivio”: o il “protagonismo indiscriminato”, con la conseguente possibilità di “manipolazione delle coscienze” oppure lavorare perché restino a servizio della “persona” e del “bene comune”, lasciando spazio alla “formazione etica”.

La gravità della situazione non permette di eludere ancora queste scelte di fondo, perché il “ruolo” assunto dai media nella società è ormai “parte integrante della questione antropologica”, la sfida cruciale del terzo millennio.

Anche nel settore comunicativo, infatti, sono in gioco “dimensioni costitutive” dell’uomo e della sua verità. In molti pensano che, accanto alla “bio-etica”, sia necessaria, oggi, una “info-etica”, che rispetti la persona, la sua libertà e dignità, di fronte all’uso improprio dei mezzi che spesso, anziché informare, “creano” l’evento.

In sostanza – conclude il Papa – la “vocazione più alta” della comunicazione sociale è quella di far conoscere “la verità sull’uomo”, modellato su Cristo “via, verità e vita” (Gv 14, 6). Da questa verità nasce e si sviluppa la nostra “libertà” (Cf. Gv 8, 32) e si costruisce il futuro dell’Italia e dell’Europa.

 

26/01/2008
condividi su