santa messa del giovedì santo

Bologna, Cattedrale

Secondo la testimonianza del vangelo di Luca, Gesù si mette a tavola per l’ultima volta coi suoi discepoli dicendo queste parole: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi” (Lc 22,14).

Queste parole ci sembra stasera di risentirle rivolte anche a noi: il Figlio di Dio crocifisso per noi e risorto – che non ha certamente bisogno della nostra attenzione e del nostro affetto – desidera ardentemente di averci suoi commensali e di ammetterci alla sua intimità; un’intimità superiore ad ogni altra: è l’intimità che ci deriva dal suo sangue versato per noi e dal suo corpo che ci viene donato.

E noi – che senza di lui vagheremmo nel deserto dell’esistenza come creature miserabili e smarrite – talvolta tentiamo di sfuggire a questo amore gratuito e di sottrarci al suo abbraccio che salva. Ma questa sera siamo qui ben decisi a diventare più saggi e a non deludere le attese di chi si è dato tutto per noi.

Noi stiamo rivivendo la “cena del Signore”: non è il puro ricordo di un fatto avvenuto una volta a Gerusalemme e ormai perso in un lontano passato; è una memoria che anche oggi è arricchita della medesima realtà di quella prima celebrazione. Sotto un rito semplice e significante, il Signore Gesù si fa davvero presente con la sua persona adorabile, col suo sacrificio che ha sancito la Nuova Alleanza, con un nutrimento arcano – la sua “carne per la vita del mondo” (cf Gv 6,51) – che ci consente misteriosamente ma realmente di vivere la sua stessa vita.

La “cena del Signore”, che qui rievochiamo, non è dunque un’esperienza remota ed estranea, che impallidisca sempre più con l’implacabile fuggire dei secoli: al contrario, ci propone una partecipazione personale e coinvolgente all’avvento centrale della storia, che è reso presente; non è la cenere di un fuoco irrimediabilmente spento, è la fiamma di un amore che continua a divampare nei cuori.

“Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi”. L’istituzione dell’Eucaristia avviene, come si vede, nel contesto del banchetto pasquale ebraico, quando – in obbedienza alle prescrizioni ricevute da Mosè, che abbiamo riascoltato nella prima lettura – ogni famiglia mangiava un agnello immolato.

Quell’agnello – nella coscienza israelitica – raffigurava, compendiandole in sÈ, tutte le vittime di espiazione e tutte le sofferenze innocenti: lo strazio di Abele, trucidato dall’invidia del fratello Caino; l’angoscia di Isacco già disteso sulla catasta dell’immolazione; lo sgomento di Giuseppe venduto dai suoi familiari a ignoti mercanti; il pianto della vergine figlia di Iefte, sacrificata dal padre; il sangue di Zaccaria, il profeta abbattuto tra il vestibolo e l’altare; fino al martirio di Giovanni il Battezzatore, ultima voce della Rivelazione antica e primo annunciatore dei tempi evangelici.

Ma soprattutto in quell’agnello che gli sta davanti sulla mensa Gesù riconosce se stesso, nella sua prerogativa di vittima unica e pienamente sufficiente per il riscatto dell’intera famiglia umana: le “figure” sono finite, colui che era stato in esse presagito e aspettato ormai è presente, le avvera tutte e tutte le oltrepassa.

“Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (Is 53,7): così era preannunciato nelle pagine di Isaia il Servo di Iahvè “trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità” (Is 53,5).

Davanti al pane e al vino – che agli apostoli e a tutti noi egli consegna trasnaturati e colmi della sua passione redentrice – il Figlio di Dio accetta interamente il disegno del Padre e si dispone a prendere su di sÈ tutto il male del mondo, per espiare ogni colpa, ogni ingratitudine, ogni ribellione. Come ancora sta scritto: “Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti” (Ib.).

In conformità a questo progetto eterno, Gesù distende liberamente le braccia sulla croce in una suprema offerta d’amore; e nel “pane santo della vita eterna” e nel “calice dell’eterna salvezza” racchiude per sempre e ci ripresenta la realtà e il valore di questo olocausto.

Perciò san Paolo ci ha detto che ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice noi annunziamo la morte del Signore finchè egli venga (cf 1 Cor 11,36).

In ogni messa noi annunziamo la morte redentrice dell’Agnello; lo stesso Agnello che ora vivo e splendente nel santuario celeste – ci dice l’Apocalisse – “è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (Ap 5,12).

Prorompe dunque dall’azione eucaristica un messaggio totalizzante, che proclama in sintesi l’intera vicenda salvifica; un messaggio di immolazione e di vita, di sconfitta e di vittoria, di umiliazione e di universale e definitivo dominio.

Tutto questo ci viene rammentato quando, al momento di cibarci del Pane celeste, lo stesso Signore Gesù – nella realtà della sua palpitante presenza – viene offerto alla nostra fede con le parole: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”.

Entrare in comunione con questo Agnello significa assimilarne l’indole e la missione. Significa rinunciare a ogni forma di prepotenza e a ogni rancore, per incamminarci sulla via della mansuetudine e del perdono. Significa abbandonarci fiduciosamente e pazientemente a quanto il Padre ha stabilito che ci avvenga per il bene nostro e della santa Chiesa. Significa accettare di spenderci per Cristo, che è morto e risorto per noi, e per ogni uomo che è sempre la sua immagine viva.

“Dì soltanto una parola e io sarò salvato”, noi diciamo.

Questa parola che salva, questa sola parola che spiega tutto, la parola che tutto racchiude e tutto trasforma, la parola che il Signore ci sussurra in questa sera suggestiva del Giovedì Santo è la parola “amore”.

27/03/1997
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