Dal 1° al 5 ottobre 2025

Giubileo della speranza in Ucraina

Don Turchini: «Ogni gesto di fraternità prepara un futuro di pace»

Da Kyiv a Kharkiv, 110 attivisti italiani hanno partecipato al Giubileo della speranza promosso dal Movimento europeo di azione non violenta, su invito della Chiesa ucraina. Don Andrea Turchini (Agesci): “Abbiamo incontrato una popolazione che resiste, sogna e costruisce legami. La speranza nasce anche nelle ferite, e la fraternità è l’unico futuro possibile”

Entrare in un paese in guerra e vivere con chi resiste e non si arrende, cambia le prospettive e i numeri del dolore diventano volti. Quando questo processo avviene, le relazioni fanno germogliare gemellaggi, azioni comuni, progetti condivisi. È vita che nasce anche nelle pieghe dolore e dei conflitti. È questa l’esperienza vissuta dai 110 attistivi italiani che su iniziativa del Mean – Movimento Europeo di Azione Non Violenta hanno deciso di andare in Ucraina, prima e Kyiv e poi a Kharkiv, per vivere un Giubileo della speranza. All’iniziativa – sostenuta dalle chiese e da rappresentanti di enti e associazioni della società civile Ucraine – hanno aderito movimenti ecclesiali e associazioni italiane, sindaci e amministratori locali. Una adesione non priva di rischi. Arrivati a Leopoli, il gruppo di italiani che si trovava a bordo del treno, è rimasto fermo per un’oretta a causa di esplosioni, colpi di artiglieria e droni che hanno assaltato la città. Abbiamo chiesto a don Andrea Turchini, assistente generale dell’Agesci e rettore del Seminario regionale Benedetto XV di Bologna, di raccontarci come sono stati questi giorni di Giubileo vissuti in una terra martoriata dalla guerra.

Quale Paese avete trovato?
L’Ucraina è un Paese che sta resistendo a un’aggressione importante, mettendo in campo non solo le forze militari ma anche una popolazione che si è mobilitata per il proprio Paese.
Ho visto tante persone, soprattutto donne, che hanno assunto la loro responsabilità e messo in gioco le loro competenze per preparare il Paese di domani.
Abbiamo quindi visto, da una parte, questo impegno totale a resistere all’aggressione e, dall’altra, una retroguardia popolare impegnata nel preparare le condizioni perché il Paese non esca lacerato dall’esperienza della guerra. C’è una grande cura nel ricostruire legami comunitari e civili: la base per una futura pace reale e duratura.

Cosa l’ha colpita di più?
Prima di tutto, le conseguenze immediate, cioè il numero dei morti. Visitando il cimitero è impossibile restare indifferenti davanti a volti, date, storie di giovani e persone comuni la cui vita è stata spezzata. È una ferita di morte che i numeri delle statistiche non raccontano mai fino in fondo. Poi mi ha colpito questo stato di guerra permanente che ognuno vive: anche se l’ambiente è curato e la vita prosegue, c’è una tensione costante che ricorda che si è in guerra. E infine, la coesione. Paradossalmente, la guerra ha aumentato il senso di responsabilità collettiva. Ho visto Chiese unite, amministratori locali impegnati, cittadini che si muovono insieme con un obiettivo comune. È triste doverlo dire, ma questa unità è un frutto positivo della guerra – ed è un peccato che spesso non si veda in tempo di pace.

Perché celebrare proprio in Ucraina un Giubileo della speranza?
Quando Papa Francesco ha annunciato il Giubileo con il tema della speranza, mi ha molto colpito perché in fondo dà voce a un’esigenza profonda. Il Giubileo è, per definizione, un’esperienza di liberazione e riconciliazione.
Fare un Giubileo della speranza significa essere capaci di gioire per ciò che siamo certi che Dio realizzerà, anche se ancora non lo vediamo.
Celebrarlo qui, in un contesto di guerra e dolore, vuol dire sostenere la speranza di una comunità cristiana che soffre ma non rinuncia a guardare avanti. Mi ha colpito sapere che l’invito è arrivato proprio dalla Chiesa ucraina: non è stata un’idea nata in Italia, sono stati loro a chiedere di condividere questo cammino. E io ho sentito che a questo appello non si poteva rispondere con il silenzio.

In un mondo segnato da più di 50 conflitti attivi e da un clima di violenza diffusa, che futuro possiamo sperare?
Il futuro ce lo ha indicato Papa Francesco. Nell’enciclica Fratelli tutti ci ha mostrato qual è l’unico futuro possibile: costruire relazioni fraterne. Mi hanno colpito molto le parole di un amico impegnato con Operazione Colomba a Kherson, in Ucraina. Diceva che il contrario della guerra non è semplicemente la pace: il contrario della guerra è costruire relazioni fraterne. Se ci pensiamo, la guerra, come ogni forma di violenza, nasce dalla rottura di una relazione. Il vero antidoto alla guerra è quindi costruire relazioni, ovunque. Questo è anche il cuore dello scoutismo, nato dopo la Prima guerra mondiale dall’intuizione di Baden-Powell: costruire una fraternità mondiale attraverso l’educazione dei giovani. Questo è l’orizzonte. E anche se non è facile, ogni gesto che difende, custodisce e alimenta la fraternità prepara il futuro, che oggi è responsabilità di ciascuno di noi.

M. Chiara Biagioni,
Sir

condividi su