incontro con gli adolescenti che intraprendono il Cammino della Professione di Fede

Bologna, Cattedrale

Premessa
Le vostre domande sono serie e impegnative. Non sono come quelle dei quiz televisivi: non è a credere che ad esse si possono dare risposte di poche parole in pochi minuti. Sono domande che, nella sostanza, vi accompagneranno (e vi pungeranno) tutta la vita.

E sono domande alle quali ciascuno deve arrivare a rispondere adoperando sempre più decisamente tutta la sua intelligenza, tutto il suo buon senso, soprattutto una forte capacità di elevarsi sopra la superficialità, la banalità, l’assurdità, cui sembra costringerci quello che ogni giorno ascoltiamo e vediamo: vale a dire, bisogna rispondere a queste domande adoperando una forte capacità di oltrepassare, con spirito critico, la “cultura” (cioè la mentalità) che ci viene imposta quotidianamente attraverso le frasi fatte, gli slogans, le canzoni intriganti, le ripetizioni ossessive di affermazioni non dimostrate; oltrepassare, insomma, tutto ciò che ci impedisce di pensare con la nostra testa e di guardare in faccia coi nostri occhi alla realtà dell’esistenza.

Alle vostre domande dovrete rispondere voi stessi, cominciando da questa sera: cominciando oggi, ma poi proseguendo tutta la vita a interrogarvi e a riflettere. Io posso solo offrivi qualche piccolo aiuto e qualche elemento di soluzione.
Il vero Maestro da ascoltare l’avete dentro di voi, ed è lo Spirito Santo che avete ricevuto nel battesimo e nella cresima. Se farete ogni tanto un po’ di silenzio interiore, riuscirà lui a farvi sentire la sua voce. Gesù ha detto: “Lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa…Egli vi guiderà alla verità tutta intera” (cfr. Gv 14,26; 16,13).

1. …“perché questo nuovo impegno…”
Sapete perché molti ragazzi, diventando adulti, perdono la fede? Perché non si sono curati di farla crescere dentro di loro, mentre loro diventavano grandi.
La fede cristiana è una componente viva della personalità umana. Come tutte le cose vive, deve essere alimentata, deve farsi più robusta e più attiva; se non si sviluppa, intristisce e muore.
Nel momento della vostra prima comunione, avevate una fede proporzionata all’ampiezza umana di quell’età; così nel momento della cresima.

Ma se negli anni successivi la fede resta sempre infantile, avviene una specie di rachitismo spirituale: c’è qualcosa che in voi rimane piccolo, mentre tutto il resto si sviluppa. Sarebbe come se adesso continuiate a mettere il vestito della prima comunione. Finisce che l’organismo psicologico non sopporta più questa anomalia, ed espunge ciò che in lui non si è sviluppato.
Allora ho pensato di proporvi un’altra occasione per mettere la vostra fede in pari con la vostra umanità. Ecco la proposta della professione di fede.

Perché questo è da non dimenticare: affrontare l’esistenza senza la luce che ci viene dal Signore Gesù, è tremendamente rischioso. C’è il pericolo di non trovare più i percorsi giusti, nella giungla dell’esistenza. Si finisce col non sapere più rispondere alle questioni fondamentali e ineludibili; e quindi di camminare nell’incertezza e nel buio.

Ed è un dramma, perché ci è data una vita sola da vivere; se si sbaglia a viverla, se ci si rassegna al nonsenso (che è fatale, quando non c’è più la prospettiva della fede), si perde tutto e si perde se stessi. Gesù ha detto: “Che vantaggio ha l’uomo se guadagna il mondo intero, e poi perde la propria vita?” (cfr. Mt 16,26).

2. “Perché le religioni?…Non basta l’impegno per la pace e per la giustizia?”
Su questo argomento devo sottoporvi un ragionamento semplice, ma non facilissimo, che richiede perciò molta attenzione.
Intanto, non dovete mai mettere insieme il cristianesimo con le “religioni”: sono due cose molto diverse. Ogni religione è un insieme di idee su Dio e sui nostri rapporti con lui; invece il cristianesimo – ed esso solo, tra le varie proposte cultuali – è un “fatto”: è l’annuncio del fatto della morte e della risurrezione di Gesù; un fatto che ci ha dato la possibilità di diventare figli di Dio.

Tanto è vero, che a chi si prepara a fare la professione di fede viene detto: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9). Gli si propone cioè di credere e professare un avvenimento, non una teoria.

Da questo fatto ricevono consistenza e fondamento logico tutti gli “impegni umanitari”: la solidarietà, la pace, la giustizia, l’aiuto ai poveri eccetera; insomma l’amore per gli altri uomini. Senza quel fatto, gli “impegni umanitari” non si giustificano: perché dovrei far del bene agli altri, invece di pensare solo al mio bene? perché dovrei essere giusto, se non mi conviene? perché dovrei amare la pace nel caso che la guerra mi sembrasse più conveniente per me?

Inoltre, la morte – che nessuno di noi può schivare – è un fatto che sembra vanificare tutto.
“La morte – ha scritto Solovev – livella ogni cosa e di fronte ad essa l’egoismo e l’altruismo sono parimenti privi di senso”. E ha aggiunto che un “fatto” come questo può essere vinto e superato non da una ideologia, ma solo da un altro fatto: il fatto della risurrezione di Cristo e il fatto (entro la risurrezione di Cristo) della nostra personale risurrezione.

Solovev ha anche detto che tutta la ideologia umanitaria, diffusa a partire dall’800, era fondata su questo curioso ragionamento: “Tutti gli uomini derivano dalla scimmia, dunque dobbiamo amarci come fratelli”. Era cioè il tentativo di salvare la conclusione pratica del Vangelo, sostituendo alla premessa di fede una premessa scientista.

Ma la cosa non funziona. Difatti tutto il secolo ventesimo ha dimostrato che da quell’ideologia non è derivata un’età più fraterna; al contrario è venuta l’età più insanguinata e crudele della storia: tutto il Novecento è una vicenda di guerre spaventose, di genocidi, di massacri di massa, di soppressione degli innocenti. Solo se siamo convinti di essere tutti, in Cristo, figli di Dio, possiamo tentare di vivere come fratelli, nella pace, nella giustizia, nell’amore.

3, Di fronte ai “gesti estremi”
Come mai molti giovani compiono “gesti estremi” su se stessi e sugli altri, come se la vita propria e altrui non avesse alcun pregio ai loro occhi?
Ho già ricordato in altre circostanze un episodio che mi ha particolarmente colpito. Qualche anno fa, un ragazzo romagnolo si è ucciso lasciando scritto: “Ho avuto tutto dalla vita”.

Sì, forse gli era stato dato tutto: vitamine, proteine, adeguati percorsi scolastici, svaghi, piaceri, libertà di comportamento oltre ogni regola; gli era stato dato tutto, tranne il significato di tutto. E una vita piena di tante cose e vuota di senso gli è parsa insopportabile.

Questo è il nòcciolo del problema. La cultura dominante censura la “domanda di senso”. Invece del significato, offre (come se fossero valori assoluti e incontestabili) dei “miti” inconsistenti: il libertarismo comportamentale senza limiti, il sesso senza ragione e senza finalità intrinseca, l’egocentrismo individualistico: “è vietato vietare, tutto è lecito”, essa ci dice.

Ma se tutto è lecito, tutto è uguale, tutto si appiattisce, tutto è insignificante. E si arriva alla “noia di esistere” e alla disperazione, da cui talvolta si cerca di uscire coi “gesti estremi”.
La questione del “perché” delle cose e della nostra stessa vita è fondamentale e ineludibile. Quando si conosce il “perché” (e questo è il vantaggio della fede), si può superare tutto, anche la prova della sofferenza e del disagio. L’esempio più chiaro e persuasivo è il dolore del parto, che non è uno scherzo: la donna lo sa sopportare bene, perché sa a che cosa serve; vale a dire, ne percepisce immediatamente la finalizzazione, cioè il senso.

Quando invece non si conosce il perché, a lungo andare diventa insopportabile anche il piacere, il comportamento senza vincoli morali, la frenesia di fare solo ciò che ci piace.

4. Di fronte alle sciagure umane
La storia dell’umanità è una storia di sciagure e di tragedie inaudite; e troppo spesso sono sofferenze e disgrazie che vanno ad affliggere proprio i più incolpevoli. Noi ne siamo intimamente lacerati e ci domandiamo: come mai ? E poiché crediamo in Dio, ne restiamo addirittura scandalizzati.

Questo è il “problema del male”, che tutti sono costretti ad affrontare e nessuno riesce a risolvere. E meriterebbe un discorso lunghissimo, che qui non possiamo fare.
Io mi limito ad aiutare la vostra riflessione prima di tutto attirando la vostra attenzione su una costatazione evidente, e poi suggerendovi un atteggiamento che potrà sembrare strano e spregiudicato.

La costatazione evidente è che le sciagure e i dolori del mondo esistono, indipendentemente dai nostri pensieri e dalle nostre convinzioni. Si può essere credenti e si può smettere di essere credenti, la situazione non cambia. Non è che negando l’esistenza di Dio, il male scompare; e neppure scompare se si afferma la sua esistenza. In ogni caso, il male c’è e costituisce un problema.
Ad affrontare utilmente questo problema (questo è il suggerimento), è meglio non partire da Dio: vale a dire, è più svantaggiato chi suppone l’esistenza di Dio di colui che non la suppone. Vediamo se riesco a spiegarmi.

Al cospetto del male, il credente d’istinto è portato a mettere Dio sotto accusa: perché permetti questo? perché non hai impedto quest’altro? Si finisce così col rivolgersi al Signore dell’universo con il cipiglio della maestra che rimprovera uno scolaro pigro o maldestro che ha fatto le macchie sul quaderno. Ma questo è, nella creatura che si rivolge al suo Creatore, un atteggiamento irragionevole e grottesco.

Il non credente invece, di fronte alla intrinseca ingiustizia delle sofferenze degli innocenti (ingiustizia che in questo mondo non può mai essere compensata adeguatamente), è indotto a pensare: o tutto è assurdo (e allora è inutile fare tanti ragionamenti e farsi tante domande) oppure bisogna supporre che esista un altro ordine di cose (che adesso non vediamo) dove il dolore possa essere compensato e tutti i conti possano tornare in pareggio. Allora un Dio, che ha un disegno più grande di ciò che appare quaggiù, diventa non la grande difficoltà ma addirittura l’unica soluzione esistenziale auspicabile al problema del male.

Mi spiegherò con un’esperienza che ho fatto quand’ero parroco. Una copia di coniugi – ambedue medici – avevano un figlio unico, bello, buono, intelligente. La moglie era cattolica praticante e fervorosa; il marito, retto e onesto, non aveva fede. Una malattia sconosciuta nel giro di una settimana porta a morire il ragazzo diciottenne, sotto gli occhi angosciati dei genitori impotenti a salvarlo.

Risultato: la madre (che era credente) non riesce a superare la prova, se la prende con Dio e perde la fede; il padre (che non era credente) dopo questo dolore inconsolabile comincia a capire che questo mondo visibile non può essere tutto, perché, preso per se stesso, è impietoso e ingiusto fino a essere assurdo. E arriva alla fede in un mondo invisibile, più giusto e più vero, dove il Signore pareggerà i conti e asciugherà tutte le nostre lacrime: in questa fede trova l’unica risposta possibile al suo dramma. E’ un caso che mi ha fatto molto pensare; mi auguro che faccia pensare anche voi.

5. Il “gruppo”
L’ultima vostra domanda è di carattere pratico: cosa dobbiamo fare? E voi stessi avete cominciato a rispondere, mettendo in campo l’idea del “gruppo”.
E’ un’intuizione felicissima. Per affrontare bene i problemi dell’esistenza e per sviluppare la vostra fede in armonia con lo sviluppo dell’intera vostra personalità, non dovete restare isolati. E’ importante che scopriate la realtà di una compagnia di amici coi quali confrontarvi, discutere, crescere nella conoscenza del Signore Gesù e nella intensità della vita ecclesiale.

Ciascuno deve fare in modo, per quel che sta a lui, che il gruppo sia vivo, vitale, vivace; che sia capace di offrire spazio non solo di svago, ma anche di attività formative; che sappia coltivare la gioia, ma sappia anche affrontare gli argomenti più seri.
Il segreto è quello di non mancare mai – mai – agli appuntamenti previsti e proposti. Ad essi si deve sempre partecipare, anche superando qualche momento di malavoglia.
Ed è indispensabile che il gruppo abbia qualcuno più adulto, più motivato, più spiritualmente ricco, che faccia da punto di riferimento e da guida. Se si ha la fortuna di avere un sacerdote disponibile con queste doti, è il massimo delle fortune.

Conclusione
Ragazzi, avete davanti a voi tutta la vita. E’ un bellissimo dono di Dio, vedete di non sciuparlo. Non vi mancheranno fatiche, difficoltà, prove; ma se non perderete di vista gli ideali che adesso, nella professione di fede, brillano davanti a vostri occhi, la vostra vita sarà davvero una splendida avventura.

09/11/2002
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