1.«Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi
ristorerò». Col peso della nostra fatica e della nostra oppressione
abbiamo ascoltato l’invito del Signore di venire a Lui per essere
sollevati. Sollevati dal peso della nostra incapacità di trovare un
senso a tragedie come queste.
Il Signore rivolge il suo invito in primo luogo a famigliari, coniugi e/o
figli, genitori e/o fratelli-sorelle, che piangono e soffrono la morte dei
loro cari. Ma lo stesso invito è rivolto anche a noi tutti, drammaticamente
feriti come siamo da eventi come questi: «venite a me, voi tutti che
siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò».
Il fatto che abbiamo accolto l’invito del Signore, indica che abbiamo
bisogno, un bisogno struggente, di incontrarci con qualcuno che sappia rispondere
alla domanda di senso che dimora nel cuore di tutti noi.
Certamente abbiamo anche il diritto di sapere se l’evento tragico trova
ragioni in precise responsabilità prossime e/o remote degli uomini.
Ma altri sono i luoghi in cui si va a cercare risposta a questa legittima domanda;
in cui si opera la rigorosa e doverosa verifica di queste eventuali responsabilità .
Siamo venuti in questo luogo a cercare risposta al bisogno di decifrare un
mistero infinito che ci domina: quello della morte.
Tuttavia, il Signore ci avverte subito che queste cose sono nascoste ai sapienti
ed agli intelligenti, e sono rivelate ai piccoli. L’uomo è ristorato
dalla sua fatica e dalla sua oppressione non dai suoi ragionamenti, che mai
come in queste situazioni si dimostrano vani, ma dal porsi semplicemente – come
fanno i piccoli – nel calore di un rapporto con una Presenza su cui fondarci
e a cui stringerci, quando catastrofi come queste si abbattono su di noi. Più che
della chiarezza di una spiegazione razionale abbiamo bisogno del calore di
un rapporto interpersonale. Solo questo calore ci dà l’intima
sicurezza che possiamo vivere avendo la certezza che ci sono sempre buone ragioni
per continuare a farlo.
Esiste una risposta a questa domanda del calore di un rapporto? Riascoltiamo
la parola evangelica: «nessuno conosce il Figlio se non il Padre. E nessuno
conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».
Il Cristo questa mattina ci ha invitati a Lui perché vuole rivelarci
che il nome di Dio è il nome di Padre. è in questa rivelazione
la risposta al bisogno che mai come in questi momenti sentiamo urgere nel cuore,
che cioè il nostro dolore sia redimibile; che abbia un senso anche se
da noi non percepibile. Cristo ci rivela, rivelandoci il Padre, che l’uomo
non è stato gettato nella vita e nella morte da una fatalità senza
nome. Egli esiste e muore sempre amato da Dio che è Padre. Sono le parole
dell’Apostolo appena ascoltate che ci aiutano in modo particolare.
2.«Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun
altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo
Gesù».
Di fronte ad avvenimenti tragici come questo l’uomo prova il senso di
essere come consegnato ad un destino indecifrabile. La paternità di
Dio rivelataci da Cristo in questa liturgia ci assicura che niente e nessuno
ci potrà distaccare dall’amore che Dio ha per noi; che niente
e nessuno è più forte dell’amore che Dio ha per noi. Alla
fine noi non siamo mai abbandonati, né in vita né in morte, perché niente
e nessuno potrà mai separarci dall’amore che Dio ha per noi.
L’apostolo ci dice che questo amore ci è stato mostrato «in
Cristo Gesù». Dio ha risposto alla domanda di senso che portiamo
nel cuore in momenti come questi non attraverso la spiegazione razionale, ma
attraverso la condivisione compassionevole. Cristo, Dio fattosi uomo, è morto
per vincere la nostra morte: la sua condivisione alla nostra condizione è ciò che
ci ristora definitivamente dalla nostra fatica di vivere e dalla oppressione
della morte. Fatica ed oppressione che non solo non ci allontanano dal calore
della sua presenza, ma sono il vero motivo per cui siamo invitati ad usufruirne.
Usciremo da questo luogo – se avremo accolto questo invito – non
necessariamente con maggiore chiarezza, ma sicuramente con più profonda
consolazione.
L’uomo resta capace di credere anche quando dice: «sono troppo
infelice», perché – come Giobbe – egli sa che il suo
Redentore è vivo, e che si ergerà a salvarlo dal nulla eterno: «buono
e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso».
La fede in Cristo non estingue il pianto, ma impedisce il pianto disperato.
