“La libertà come liberazione”
Intervento al Meeting di Comunione e Liberazione

La riflessione sulla libertà costituisce

il nodo centrale di ogni questione sull’uomo, dal momento che esistenzialmente

l’uomo è la sua libertà. Ognuno di noi è padre-madre

di se stesso mediante la sua libertà. Non per caso dunque qualsiasi

discorso sull’uomo è misurato nella sua serietà dalla serietà con

cui affronta il tema della libertà, poiché la realtà della

propria vita non è fatta di pensieri ma di scelte della nostra libertà.

Vorrei affrontare il tema della libertà considerandola nel suo esercizio,

meglio nella fatica del suo esercitarsi. Mi spiego. La nostra libertà è – come

vedremo – insidiata da ogni parte, e se la persona non è in grado

di opporsi a queste insidie, la libertà è gradualmente estinta.

In breve: o la nostra libertà è continuamente liberata oppure

essa diventa schiava dei suoi nemici. In questo senso la libertà è anche

un compito. è il nostro compito supremo poiché la liberazione

della libertà costituisce l’emergenza del nostro io sopra tutto

il mondo delle cose.

Quali sono le “insidie” dalle quali la nostra libertà deve

essere liberata? A me sembra che siano fondamentalmente quattro. La prima si

colloca alla sue spalle per così dire, perché rende non impraticabile,

ma semplicemente impensabile la libertà. La seconda insidia riguarda

la libertà nel suo concreto esercizio: è l’insidia che

la libertà incontra lungo il suo cammino, e che la degrada. Se la prima

insidia impedisce alla persona di pensarsi libera, la seconda le impedisce

di esercitare la sua libertà con tutta la potenza che questa possiede.

La terza insidia minaccia la libertà in quanto pone la persona in un

rapporto di “costrizione” colla legge morale: è la libertà insidiata

dalla legge morale. La quarta insidia minaccia la libertà dal punto

di vista  del suo senso ultimo: del suo significato e del suo fine ultimo.

Se la prima minaccia si colloca alle spalle della libertà, questa si

colloca al traguardo del percorso della libertà medesima, imprigionandola

dentro alla storia.

La mia riflessione quindi sarà scandita in quattro tempi corrispondenti

alle quattro insidie suddette: libertà come liberazione dalla (sua)

radicale negazione; libertà come liberazione dall’indifferenza;

libertà come liberazione dalla (schiavitù della) legge: libertà come

liberazione dalla schiavitù della storia.

1. Libertà come liberazione dal non-essere.

Iniziamo la nostra riflessione ponendoci per così dire alla sorgente

stessa della libertà.

Il fatto a  ciascuno di noi più evidente è anche il fatto

più enigmatico: quello del nostro esserci; il fatto – può dire

ciascuno di noi –  che “io esisto”. Ho pronunciato la

parola più intensa che l’uomo possa pronunciare: «io».

Questa parola infatti denota l’esistenza di un “aliquid” che

si pone come unico, insostituibile, irripetibile. Donde ha avuto origine questa

realtà?

La risposta che può dare il sapere scientifico non è ultimamente

risolutiva. Essa infatti spiega come sorge l’individuo di una determinata

specie vivente; attraverso quale processo di fusione delle due cellule germinali

sorge un individuo appartenente alla specie umana.

Risposta non risolutiva in quanto lascia senza risposta la domanda fondamentale:

perché esiste quell’individuo umano che sono io e  non piuttosto

un altro? L’individualità dell’uomo non è dello stesso

grado dell’individualità di una pianta o di un animale come già sembra

pensare Aristotele [cfr. Categorie 2b 22-23; ma cfr. 3b 35ss].

Abbiamo una sorta di conferma psicologica, per così dire, di ciò che

sto dicendo. Quando un uomo e una donna decidono di dare origine ad una vita

umana, essi possono solo desiderare di avere un bambino. Non hanno alcuna possibilità di

scegliere questo bambino piuttosto che quello. I miei genitori non volevano

me, ma un bambino, un figlio. Che il figlio voluto fossi io, questo non era

più in loro potere.

L’impersonale non può dare origine al personale; la natura non

può giungere a dire «io». Una persona può sorgere

solo dalla Persona.

Alla propria origine non ci può dunque essere che un atto di intelligenza

e di scelta: ero conosciuto prima di esistere e sono stato scelto fra infiniti

altri possibili. La fede cristiana, ma in profonda sintonia colle esigenze

esplicative della ragione, insegna che ogni e singola persona umana è creata

da Dio stesso.

Anzi più precisamente: che lo spirito umano può avere origine

direttamente ed immediatamente solamente da Dio stesso. E la persona nel suo

nocciolo sostanziale è costituita nell’uomo dall’anima semplicemente

spirituale.

In parole più semplici: nessuno di noi esiste per caso o per necessità,

ma ciascuno di noi è stato voluto e scelto da Dio stesso.

Perché questa riflessione mette al sicuro “le spalle” della

libertà? Perché se l’uomo non sporgesse sopra i meccanismi

biologici che lo hanno prodotto, egli sarebbe alla completa disposizione degli

stessi, senza nessuna possibilità reale di poter dire «io agisco:

io scelgo…». Ciò che sto dicendo è che non sarebbe

possibile affermare ragionevolmente la libertà della persona se contemporaneamente

si affermasse che il mio esserci è completamente spiegabile in base

ai suoi antecedenti fisici e biologici. Le due affermazioni, l’uomo è libero – l’uomo è solamente

un individuo della specie, non possono essere razionalmente sostenute contemporaneamente.

«L’essenza della libertà come spontanea auto-determinazione,

o come risposta o decisione portata avanti da nient’altro che il centro

personale stesso, è totalmente incompatibile coll’essere identico

a, o casualmente dipendente da, i processi cerebrali» [J. Seifert, Anima,

morte ed immortalità, in A.VV. L’anima ed. A. Mondadori, Milano

2004, pag. 163].

Poiché ogni persona deve il suo esserci ad un atto di libertà di

Dio, la libertà  umana è posta fin dall’inizio dentro

ad una relazione: la relazione fra Dio e la persona umana.

Questa sua originaria collocazione imprime nella nostra libertà, nel

suo esercizio, un senso indistruttibile. Se la persona umana, ogni persona

umana, è stata pensata e voluta da Dio stesso, ciascuno di noi è investito

di un compito, è depositario di una “missione” affidata

precisamente alla sua libertà. Il senso della vita non deve essere inventato,

ma scoperto.

Comincia a delinearsi la natura intima della nostra libertà: è la

capacità di rispondere alla chiamata di Dio creatore. Capacità di

rispondere, cioè responsabilità. Tu rispondi a Dio di te

stesso: questa è la definizione di libertà cui si giunge

considerando la persona umana alla sua origine.

Nel contesto di questa riflessione appare anche la connessione fra libertà/obbedienza,

che il pensiero cristiano afferma con grande forza come due termini per connotare

la stessa realtà. E l’anello di congiunzione che li connette è il

concetto di “vocazione” o “missione”.

è forse bene, giunti a questo punto, sintetizzare quanto ho detto finora: la

libertà è salvaguardata, la libertà è pensabile

se all’origine del mio esserci c’è una Potenza che mi

ha posto in essere per amore. Solo una Potenza infinita può far sorgere

dei soggetti liberi.

Vorrei ora prima di passare al punto seguente, proporvi una riflessione conclusiva

che ha carattere di corollario in un certo senso.

Se io dipendessi totalmente dai miei antecedenti biologici che casualmente

mi hanno prodotto nel grembo di mia madre, questi stessi elementi sarebbero

in grado di distruggermi completamente. Se io fossi solamente il risultato

casuale della natura, questa stessa sarebbe in grado di annientarmi completamente.

Ma il fatto che io sia posto in essere dalla Potenza creatrice di Dio mi dona

una consistenza ontologica superiore ad ogni forza naturale. La natura non è in

grado di riassorbirmi completamente, perché non le appartengo radicalmente.

Ho una certezza indubitabile del mio io, che fuori da quell’originaria

relazione col Creatore non potrei avere.

La libertà, ciò che nella persona è la sorgente profonda

dell’auto-determinazione, è il segno di questa superiore invincibilità della

persona nei confronti della natura. è impossibile che l’io personale

sia distrutto, proprio perché ciò che lo può uccidere,

l’universo materiale, non solo gli è inferiore per dignità quanto

all’essere, ma è anche liberamente dominato dalla persona mediane

la sua libertà. «Ma anche se l’universo lo schiacciasse,

l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa

di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo

invece non ne sa niente» [B. Pascal 347; San Paolo ed., Milano 1996,

pag. 342].

2. Libertà come liberazione dall’indifferenza verso la realtà.

Solo l’irriducibile alterità ontologica dell’io nei confronti

della natura è in grado di liberare la libertà nel suo porsi

originario, nel suo stesso sorgere.

 Ma liberata alla sua origine, la libertà incontra due altre fondamentali

insidie nel suo attuarsi. In questo secondo punto della mia riflessione parlerò dell’ “insidia

dell’indifferenza”. Non ho trovato denominazione migliore.

Partiamo dalla considerazione della scelta, in cui ciascuno di noi esperimenta

maggiormente la sua libertà. Noi sperimentiamo la nostra libertà come

capacità di scelta, ed è attraverso di essa che noi disegniamo

il volto della nostra persona. «La scelta diventa il mio io, essa non

mi accompagna come un’ombra ma mi precede come una luce, come la mia

individuazione; essa è davanti al mio volto, davanti ai miei occhi, è dentro, è la

mia spiritualità; ecco cosa significa la libertà, la scelta della

libertà». [C. Fabro, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda,

Piemme ed., 200, pag. 166, n. 957].

Ma è ugualmente evidente che la scelta libera, ogni scelta libera, è intenzionata

ad un oggetto: è sempre scelta di … La scelta quindi è lo

stesso soggetto in quanto è capace di attuarsi. Entriamo nella dimensione

più profonda della scelta:  scelta di un oggetto: “qualcosa

o qualcuno” motivata [= messa in movimento] dalla scelta di se stesso,

di un proprio modo di essere e di esistere. In ogni scelta di … l’io

sceglie anche se stesso. Mi spiego con un esempio semplice.

Che cosa muove una persona, messa nella possibilità di scegliere fra

realizzare un grande guadagno economico e commettere una grave ingiustizia,

a scegliere il guadagno economico? Certamente il fatto che egli giudica più importante

per sé la ricchezza piuttosto che la giustizia: l’essere ricco

più che l’essere giusto. Egli ha già – non in senso

cronologico – scelto chi essere: un uomo ricco piuttosto che un uomo

giusto, ritenendo-scegliendo che il bene più grande sia non la giustizia

ma la ricchezza.

In ogni volere, in ogni scelta particolare abita un volere, una scelta radicale

che non è la somma o il risultato delle scelte particolari perché ne è il

principio ed il fondamento. La S. Scrittura dice di Mosè: «Per

fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio

della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio

piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava

l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava

infatti alla ricompensa» [Eb 11, 24-26].

Mosè divenuto adulto si trova a dover scegliere: è il momento

in cui esistenzialmente nasce il suo io. A dover scegliere fra i “tesori

dell’Egitto” e l’ “obbrobrio di Cristo”, cioè la

condivisione della condizione obbrobriosa del suo popolo. Mosè sceglie

di «essere maltrattato col popolo di Dio». Perché? perché ha

giudicato un bene migliore l’umiliazione con Israele che lo splendore

coll’Egitto. Dentro alla sua scelta storica abita una scelta radicale.

Mosè aveva il suo nome di famiglia; era «figlio della figlia

del faraone»; ciascuno di noi ha un nome di famiglia che ci individua

civilmente. Mosè diventa adulto, ciascuno di noi genera se stesso quando

ci chiamiamo con quell’ unico nome spirituale che ci diamo colla nostra

scelta e con ciò che poi siamo in un certo senso obbligati a compiere

secondo questa scelta.

Ma questa che è la storia quotidiana della nostra libertà, è insidiata

dalla negazione che esista una verità circa il bene della persona,

una verità mai completamente riducibile alle circostanze ed alle conseguenze

della scelta. Perché  negare che esista e sia possibile conoscere

una tale verità è la minaccia suprema, è la più grave

insidia all’esercizio della libertà di scelta?

Perché questa negazione comporta come conseguenza sia logica sia esistenziale

che in ordine alle generazione del proprio io eterno tutte le scelte

ed il contrario di tutte le scelte hanno alla fine lo stesso valore, dunque

non ne hanno nessuno. Negata l’esistenza di una verità circa il

bene, la libertà viene completamente  ridotta a forza in sé neutra

di fronte a qualsiasi scelta: la “cifra” della libertà diventa

l’indifferenza [libertas indifferentiae]. Tutto l’esercizio della

libertà viene esaurito in una serie di scelte di cui nessuna può avere

una sua incondizionata giustificazione perché nessuna ha fondamento

assoluto. Una tale libertà genera paura, è la paura del nulla;

genera angoscia, perché nella verità l’io trova fondamento,

mentre nella indifferenza radicale della sua libertà egli toglie a se

stesso ogni fondamento.

Così ridotta la  libertà è minacciata a morte poiché il

suo esercizio alla fine annoia, ed alla fine si  desidera essere liberati

dalla propria libertà: o dallo Stato o dalla Religione o dal Potere

di produzione del consenso.

Ma questo momento centrale della nostra riflessione merita di essere ulteriormente

approfondito, senza uscire dal contesto proprio di questo nostro incontro.

Il recente dibattito sulla procreazione assistita aveva alla sua radice lo

scontro fra due opposte visioni dell’uomo e della sua libertà.

Esso infatti riguardava ambiti essenziali della persona umana, dimensioni costitutive  della

sua esistenza: la generazione (sia in senso attivo sia in senso passivo), la

paternità/maternità, il matrimonio e la famiglia. Si noti bene:

ciò che era in questione era la definizione stessa di questi ambiti

umani. Quale era la “posizione” che si voleva introdurre nell’ethos

del nostro popolo al di sotto dei meccanismi giuridici? Che la definizione

stessa di questi ambiti è opera della libertà umana [è secondario

se del singolo o della maggioranza]; che non esiste una definizione che pre-ceda,

che sia pre-data alla scelta della libertà. Ogni ambito dell’umano è a

totale disposizione delle scelte della libertà; è una invenzione

della libertà, di una persona che non ha nulla da scoprire. Ogni ambito

dell’umano non è che un campo di esercizio della libertà di

scelta. Ciò che deve essere difeso in essi è semplicemente la

libertà.

“La difesa della libertà è, infatti, l’argomento

pubblico per eccellenza a sostegno della temporaneità dei legami affettivi,

dell’equivalenza antropologica e morale delle identità sessuali

(etero/omo/bi/trans), della fecondazione tecnologica, dell’aborto procurato,

della liceità dell’eutanasia” [F. Botturi].

In sintesi. Se distinguiamo in ogni scelta il contenuto – ciò che

la persona sceglie – e la forma con cui sceglie ciò che

sceglie, la libertà appunto, la forma è il valore supremo ed

incondizionato.

Questo modo di vivere la propria libertà di scelta porta al suicidio

del soggetto. Non raramente, come ci dicono i mezzi di informazione, anche

al suicidio fisico soprattutto fra i giovani. Per quale ragione?

Come abbiamo già detto, in ogni scelta di qualcosa noi scegliamo anche

(la configurazione di) noi stessi. I Padri greci insegnano che l’airesis

(la scelta) è preceduta e fondata da una pro-airesis (pre-scelta). Ricordate

l’esempio che ho fatto di Mosè.

Se il contenuto è indifferente perché l’unico valore è la

forma, ciò significa che non esiste né un destino buono né un

destino sbagliato dell’io che si realizza mediante le scelte. L’indifferenza

dei contenuti delle scelte implica – teoricamente ed esistenzialmente – l’indifferenza

dell’autorealizzazione del soggetto mediante le scelte. Più precisamente:

il soggetto come tale è indifferente a qualsiasi autorealizzazione.

La libertà di scelta ridotta a pura forma genera indifferenza per il

destino della persona: la propria e quella altrui.

L’icona di questo uomo non è neppure più l’ing.

Kirillov de I demoni di Dostoevkij. L’uomo che oggi vive il trionfo illusorio

della libertà di scelta non ha più bisogno di dimostrare ciò che

per lui è evidente: «che Dio ci sia o non ci sia è indifferente».

Ho  trovato  l’icona perfetta nel barista non sposato del

racconto Un posto pulito, illuminato bene di Hemingway, quando egli,

chiuso il bar, se ne va a casa, durante la notte. «Di che cosa aveva

paura? Non era né paura né timore. Era un niente che conosceva

troppo bene. Era tutto un niente, ed anche un uomo era niente. Era soltanto

questo, e tutto quello che ci voleva era la luce, e un certo ordine e una certa

pulizia». Ed esce in una incredibile preghiera: «Nada nostro che

sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia la tua volontà nada

in nada come in nada… Ave niente pieno di niente» [Tutti i racconti,

oscar Mondadori, 1990, pag. 423].

Questa straordinaria pagina ci mostra un capovolgimento paradossale. Esiste

nell’uomo una invincibile inclinazione alla realtà e quindi a

conoscere la verità circa il bene, consapevole come è che esiste

un’autorealizzazione vera e un’autorealizzazione falsa. è così invincibile

questa inclinazione che l’uomo di oggi “prega il nulla”.

Rivolge la propria domanda di verità perfino a chi non esiste. Come

già avevano notato i grandi profeti biblici nella loro insonne lotta

contro l’idolatria.

è l’esistenza di una verità circa il bene/male della persona

che liberando la libertà dalla malattia mortale dell’indifferenza,

rende la persona interamente libera. La libertà costituisce il rischio

dell’autorealizzazione; la verità ne è il fondamento.

«Nasciamo anche attraverso una scelta – nasciamo allora dal di

dentro, e non nasciamo di colpo, ma come pezzetto per pezzetto. Allora non

tanto nasciamo, quanto piuttosto diveniamo. Ma a ogni momento possiamo non

divenire, possiamo non nascere. Ciò dipende da noi […]. Questo è il

nascere attraverso una scelta» [K. Wojtyla, Raggi di paternità,

in Tutte le opere letterarie, pag. 929-931].

Concludo questo punto della mia riflessione con un pensiero di C. Fabro che

ne sintetizza tutto il contenuto «Per l’uomo la verità non

può assorbire la libertà, come pensava il pensiero greco; né la

libertà può assumere in sé la verità come pretende

il pensiero moderno: l’uno e l’altro tolgono l’ “intervallo” o

divario fra la forma e il contenuto, fra il contenuto e la forma, e la tensione

dell’uomo aspirante ed intinerante sfuma in mera parvenza.

Verità e libertà sono per lo spirito finito due esigenze convergenti,

essenzialmente complementari: sono le due ali che ci permettono di elevarci

al volo dal grigiore informe della possibilità verso la concretezza

della realtà a cui si volge la verità». [Libro dell’esistenza … cit.,

pag. 117, 646-647].

Dal “grigiore della possibilità” alla “concretezza

della realtà”: ecco la prima fondamentale liberazione dell’esercizio

della libertà di scelta.

3.Libertà come liberazione dalla schiavitù della legge

morale.

Il nostro cammino di riflessione sulla liberazione della libertà entra

ora nel suo momento più drammatico poiché deve affrontare il

tema del rapporto fra libertà e male morale.

Inizio dalla narrazione di quanto accaduto in due notti distanti nel tempo

e nello spazio, a due persone che sia pure in modo diverso hanno avuto una

rilevanza straordinaria per la nostra cultura occidentale, Socrate e Pietro.

La prima notte è ad Atene, nel carcere dove Socrate attende l’esecuzione

della sentenza capitale.

Socrate è in carcere, condannato ingiustamente a morte, e nella notte

precedente alla esecuzione viene visitato da un amico, Critone, che gli fa

una proposta: fuggire dal carcere e mettersi in salvo. La cosa è “tecnicamente” possibile:

i carcerieri sono già stati debitamente pagati, cioè corrotti;

al Pireo c’è già la nave che lo porterà lontano

da Atene. Si tratta ora di convincere Socrate. Quale è il nucleo della

discussione fra i due? Eccolo in breve.

Critone sostiene che Socrate deve fuggire, perché il suo rifiuto avrebbe

conseguenze dannose sia per i suoi (di Socrate) figli sia per i suoi amici

(cfr. Platone, Critone, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, ed.

la Scuola, Brescia 1981, pag. 19-21). Cioè: ciò che decide se

il possibile è anche lecito sono, alla fine, le conseguenze del nostro

agire, misurate secondo l’opinione della maggioranza. Alla domanda quindi

se tutto ciò che è possibile è lecito, Critone risponde:

tutto dipende dalle conseguenze del tuo agire.

Socrate però risponde che prima di chiederci, di verificare quali sono

le conseguenze delle nostre scelte, è necessario sapere se ciò che

facciamo è giusto o ingiusto (cfr. ibid. pag. 33, c-d), poiché “non

dobbiamo darci affatto pensiero di quello che dicono i più, ma solo

di quello che dice colui che si intende delle cose giuste e di quelle ingiuste,

e questi è uno solo ed è la stessa verità”, dal

momento che “non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il

vivere bene” (ibid. pag. 31). Dunque, in questo dialogo platonico è già posta

la domanda di fondo sulla quale abbiamo già riflettuto nel numero precedente: ogni

nostra azione è eticamente indifferente (fino a quando non ne prendo

in esame le conseguenze) oppure esistono azioni che in se stesse e per se stesse

sono sempre e comunque ingiuste?

Socrate ha preferito morire per non rinnegare con una scelta [la fuga del

carcere] quella verità sul bene che aveva conosciuto colla sua ragione.

La seconda notte è a Gerusalemme. La scena ha delle similitudini: c’è un

condannato e un amico che lo sta seguendo. Pietro è messo nella necessità di

fare una scelta: o dire la verità circa un rapporto di amicizia o tradire

l’amico dicendo il falso. E Pietro sceglie il tradimento: «non

conosco quell’uomo» [Mt 26,7].

Ma Pietro chi ha veramente tradito? Contro chi ha prevaricato? Ha tradito

Cristo o non piuttosto  se stesso? ha prevaricato contro Cristo o non

piuttosto contro se stesso?

Socrate e Pietro hanno vissuto la stessa esperienza. Essi hanno “visto” una

verità riguardante se stessi. Fuggire dal carcere non era solo un problema “tecnico” né la

cosa doveva essere valutata solamente in base alle sue conseguenze, ma la fuga

o la non fuga coinvolgeva se stesso dal punto di vista delle ragioni per cui

la vita ha un senso. Il rispondere con verità o con falsità coinvolgeva

Pietro non solo perché era in questione la sua vita fisica, ma perché era

in questione la sua vita umana in senso pieno. Socrate e Pietro hanno vissuto

l’esperienza di una verità su se stessi rimanendo nella quale

la persona salva se stessa pur morendo, tradendo la quale la persona perde

se stessa pur continuando a vivere.

Pietro piange su Pietro perché ha tradito Pietro tradendo il suo Amico.

Di questo tradimento è autore, vittima e testimone. «Quindi l’uomo è se

stesso attraverso la verità. La relazione colla verità decide

della sua umanità e costituisce la dignità della sua persona» [K.

Wojtyla, Segno di contraddizione. Ed. Vita e Pensiero, Milano 1977, pag. 133].

Il dramma di Socrate e di Pietro lo dimostrano.

Nelle nostre riflessioni sulla libertà siamo così giunti a parlare

dell’enigma più indecifrabile presente nell’uomo: il fatto

di una libertà che nega colla sua scelta la verità sul bene riconosciuta

dalla sua ragione. La libertà umana può compiere il male

morale.

Il male morale è la disintegrazione della persona poiché esso

mi si manifesta come la libera negazione coll’azione di ciò che

ho appena affermato colla conoscenza. La libertà nega ciò che

la conoscenza afferma.

Che cosa viene negato dalla libertà? La verità sul bene morale

di cui ho già parlato nel punto precedente. è questa, la verità sul

bene morale, profondamente diversa da ogni altra verità attingibile

dalla ragione umana. Essa  pone la persona in rapporto con un oggetto

possibile di scelta e che risponde a quel desiderio di beatitudine che dimora

nel cuore dell’uomo e muove la persona medesima ad agire. La verità sul

bene morale apre una possibilità che viene pro-posta alla libertà,

perché mediante l’azione la persona si realizzi. Quando pertanto

la libertà nega la verità sul bene morale, è il bene della

persona come tale e la sua autentica realizzazione che sono negati. è una

scelta il cui prezzo è la negazione di sé.

La verità puramente speculativa termina nella contemplazione del suo

contenuto: in essa chi conosce riposa. La verità sul bene della persona

invece ha nel suo contenuto formale solo il punto di partenza. Il suo punto

finale lo ha nella decisione della libertà con cui la persona attua

se stessa in essa: fa sua la verità sul bene.

Questo “matrimonio” della libertà colla verità è un

fatto molto profondo nella vita della persona. Noi non facciamo la verità e

quindi non siamo veri se non nella libertà. Ma  la libertà non

inventa la verità, ma aderisce ad essa, poiché la verità è lo

splendore dell’essere della persona: essere che non poniamo noi. La verità circa

il bene interloquisce solo colla libertà; e la libertà è nella

verità.

Se mi si consente una battuta in temi tanto seri, direi che la verità sul

bene della persona è “democratica” (!). Non è intuizione

riservata ai geni, ma è la possibilità universale offerta all’uomo

comune cioè all’uomo essenziale.

Ho parlato, e sto parlando della “verità sul bene” della

persona. Ma esistono vari “beni della persona”. La salute fisica è un

bene della persona così come la conoscenza della verità. E così via.

Di quale “beni della persona” sto parlando? Lo indicherò per

ora come il “bene (o valore) morale” della persona. Si può percepire,

si può avere un’intuizione intellettuale della bontà morale

descrivendo una semplice esperienza.

Sono valori singolarmente ed incomparabilmente personali perché possono

realizzarsi solo nella persona: nessuno dice di un animale che è giusto/ingiusto.

Sono solamente della persona come tale, perché realizzano ciò che

in essa è propriamente personale: non solo della persona creata ma anche

di Dio; anche del Signore noi diciamo che è giusto, è fedele … Solo

di essi la persona è ritenuta responsabile; nessuno ritiene responsabile

una persona di non essere un poeta, ma la ritiene responsabile di essere un

ladro. Pertanto la loro realizzazione costituisce un merito per la persona

così come la loro negazione una colpa. Solo i valori morali sono indispensabili

e necessari: una persona può essere o non essere un poeta o uno scienziato,

ma non può essere o non essere giusta.

Ora spero risulterà più chiaro che cosa significa dire che quando

la libertà nega la verità sul bene morale, nega la realizzazione

della persona come tale: è forza che distrugge la persona come tale.

Siamo finalmente in grado di avere un’intelligenza più profonda

del male morale.

La verità sul bene morale può essere conosciuta solamente dalla

ragione: la sua conoscenza è opera della ragione. Ma dato il contenuto

di questa conoscenza, ciò che è da me conosciuto, nello stesso

momento in cui conosco la verità sul bene della persona, la mia libertà ne

rimane legata: ob-ligata. E da questo momento se la persona vuole realizzarsi,

deve “fare la verità” conosciuta. Ciò che è “in

gioco” è il mio io stesso, non una verità qualsiasi. Non

posso negare quella verità senza negare me stesso.

A questo punto il peso del male morale mi si rivela. «Ecco allora il

mio proprio io, certamente lo stesso che come soggetto della conoscenza prende – assumendo

il ruolo di testimone oculare – la parte della verità conosciuta,

contraddice se stesso rinnegando – come soggetto della libera scelta – la

verità da sé conosciuta. è difficile pensare a un più assurdo

e nello stesso tempo più autodistruttivo uso della propria libertà» [T.

Styczen, Essere se stessi è trascendere se stessi, in K. Wojtyla, Persona

e atto, Rusconi ed., Milano 1985, pag. 722]. L’uomo come soggetto della

libera scelta nega ciò che come soggetto dell’atto conoscitivo

afferma: è la disintegrazione più radicale della persona. Questo è il

male morale! e la sua esperienza rivela la dimensione più oscura della

libertà.

Alcuni percorsi teoretici della modernità hanno tentato un’impresa

che è stata gravida di tragedie indescrivibili. L’impresa di togliersi

di dosso il peso della testimonianza che ciascuno dà a se stessi della

presenza del male morale nella propria volontà. O almeno il tentativo

di scrollarsi di dosso questo peso insopportabile. Nel mondo occidentale in

cui viviamo queste tentativo assume, mi sembra, due volti, percorre due strade

di cui abbiamo parlato nei due numeri precedenti.

La prima è la negazione della libertà, coerente conseguenza

della riduzione dell’humanum alla natura governata dalle leggi della

fisica e della biologia. La negazione della libertà coincide con la

riduzione di essa alla spontaneità.

Esiste

nell’uomo la capacità di muoversi solamente verso ciò che è “bene

per me”. Non esistono ragioni universalmente e incondizionatamente valide

per volere questo bene piuttosto che quello.

Parlare di male morale non ha più un senso proprio. Si può solo

parlare di azioni che producono un danno o un dolore.

La seconda è la negazione che esista una verità sul bene della

persona che non sia una mera produzione o del singolo o del consenso sociale: bonum

quia consensum! Chi accetta questa posizione deve coerentemente negare

che esista un male morale nel senso sopra spiegato.

Viene a mancare ogni base per parlare di un auto-distruzione da parte della

propria libertà. La decisione con cui ho deciso che cosa sia bene può essere

mutata. Il rapporto libertà-male è una sorta di patto con se

stesso che può sempre essere in ogni momento sciolto. Ogni serietà del

vivere è qui distrutto: il dramma della libertà si è trasformato

in una farsa, tanto seria quanto i colpi che Sancho Panza decide di darsi da

solo.

Viene anche a mancare ogni base per evitare qualsiasi prevaricazione sugli

altri. Se il patto fra le parti è l’unica condizione sufficiente

per determinare ciò che è  bene/male in una data società,

e la votazione l’esclusivo strumento per concluderlo, diventa possibile

ogni prevaricazione contro l’uomo. «Tutta l’età moderna

ha dovunque perduto, soprattutto in politica, l’idea che esiste un “tu

devi”… Ecco dove sta il male. Non c’è bisogno di

essere profeta per vedere quanto costerà raddrizzare questa faccenda» [S.

Kierkegaard,Diario, IV; ed. Morcelliana, Brescia 1980, pag. 104.]

Noi vogliamo ascoltare la testimonianza che l’uomo rende a se stesso:

la testimonianza che la sua è una libertà dipendente dalla verità sul

bene; la testimonianza che la sua è una libertà che può spezzare

il suo vincolo colla verità.

«Il criterio di divisione e di contrapposizione si riconduce alla verità:

la persona come “qualcuno” dotato di dinamismo spirituale si realizza

attraverso il vero bene, non si realizza invece attraverso il bene non vero.

La linea di divisione, di separazione e di opposizione tra il bene e il male

come valore e controvalore morale, si riconduce alla verità» [K.

Wojtyla, Persona e atto, Rusconi Libri, Milano 2000, pag. 371]. Questa linea

di divisione, di separazione e di opposizione è tracciata dalla libertà che

può porsi contro la verità circa il bene.

è possibile essere liberati da questa intima contraddizione? è possibile

liberare la libertà dalla sua intima capacità di negare il bene?

Partiamo da un testo paolino: Rm 7,15-24. Non è necessario fare una

esegesi accurata del testo. Al nostro scopo basta coglierne le idee di fondo.

La pagina paolina intende descrivere la condizione umana in ordine al bene/al

male morale. Più precisamente: l’Apostolo analizza l’io

dell’uomo nel momento in cui questi intende agire bene [nel linguaggio

paolino: conformemente alla Legge di Dio]. L’io considerato in quell’istante

appare come un enigma insolubile: «io non riesco a capire quello che

faccio» [15a]. L’uomo è un mistero a se stesso, e Paolo

in questa pagina descrive questo “mistero”.

Esso è costituito da un’interiore contraddizione che dimora nella

persona. Questa nella sua mente sente un’intima sintonia col bene [con

ciò che ordina la legge di Dio]: condelector, traduce la Vulgata. è quella

partecipazione alla verità sul bene di cui parlavo nelle pagine precedenti.

Tuttavia, nel momento in cui la mia volontà intende compiere il bene,

realizzare la verità sul bene, essa si trova ad essere mossa da una

forza estranea all’io che consente alla Legge di Dio, e contraria a quanto

appreso: «faccio quello che non voglio, ma quello che detesto» [15b].

L’estraneità-contrarietà di questa “forza” è come

personificata, ed è denotata dalla parola «amartía»,

peccato. Pertanto non è la persona da sola il soggetto che compie il

male, ma la persona dominata dal peccato che abita in essa. Di fatto l’io

che delibera è diventato vittima della “carne” dominata

dal peccato [cfr. 18]: vittima cioè di una natura nella quale si sono

insediate tendenze che contraddicono al bene.

La naturale inclinazione al bene da una parte, e le scelte della libertà dell’altra

si contraddicono. Già la sapienza pagana aveva notato: “Video

meliora proboque, deteriora sequor” [Ovidio, Metamorfosi VI,20-27]. Ed

Euripide: “so bene quali mali sto per commettere, ma la passione è più forte

della mia volontà; la passione che è causa ai mortali delle più grandi

sventure” [Medea 1078-1080].

è da questa condizione che l’uomo invoca la liberazione della

sua libertà. In che cosa consiste questa liberazione? Riprendiamo la

nostra riflessione alla luce di quanto abbiamo detto finora.

Essa non può consistere nell’abbandonarsi alla forza delle passioni;

nella decisione di vivere conformemente ad esse. Questa decisione infatti comporterebbe

la negazione di una dimensione della propria persona; comporta il contrasto

fra le scelte e ciò che la mente intuisce essere la verità circa

il bene della persona. Questa sarebbe una sorta di liberazione auto-distruttiva:

di liberazione suicida.

Ma la liberazione della volontà non può consistere neppure nella

decisione di seguire quanto la Legge di Dio mi chiede, semplicemente perché me

lo chiede la Legge di Dio. Scrive S. Tommaso: «Ã¨ libero chi esiste

per se stesso; è invece schiavo chi esiste per un padrone; dunque chiunque

agisce da se stesso, agisce liberamente: chi invece agisce sotto la mozione

di un altro, non agisce liberamente. Dunque colui che fugge il male non perché è male,

ma a motivo del comando del Signore, non è libero; ma colui che fugge

il male perché è male, questi è libero» [in 2Cor,

lectio III; ed. Cai, n°112].

Non è libero né chi fa ciò che vuole ma non facendo ciò che

deve, né chi fa ciò che deve ma non facendo ciò che vuole.

Libertà è fare ciò che vogliamo facendo ciò che

dobbiamo, o fare ciò che dobbiamo facendo ciò che vogliamo. Tommaso

indica questa sintesi vissuta, non solo pensata, di volere-dovere con l’espressione: agere

ex seipso. In questo consiste la libertà.

è necessario allora chiederci a quali condizioni diventa per l’uomo

realmente possibile “agere ex seipso”.

Come già notava Tommaso, chi agisce solamente mosso dalla legge di

Dio non agisce mosso da se stesso, cioè non agisce liberamente. Una

verità sul bene conosciuta mediante la categoria di una legge che si

impone al mio io come “altro” [aliud] da esso non libera la mia

libertà. L’eteronomia contraddice la libertà.

D’altra parte come ho già detto varie volte, ipotizzare e tentare

la liberazione della propria libertà rifiutando qualsiasi verità che

non sia mera produzione del singolo o del consenso sociale, è una scelta

suicida. L’autonomia contraddice la libertà umana.

L’unica via per liberare la libertà dalla schiavitù della

legge morale e dalla schiavitù di se stessi sarebbe che Dio stesso,

fonte nella sua sapienza della verità sul bene, si facesse così intimo

a ciascuno di noi stessi che da una parte la scelta libera fosse sempre scelta

del vero bene, [in linguaggio biblico: conforme alla Legge di Dio] e dall’altra

la persona scegliesse mossa da se stessa. Essere se stessi e quindi agire

da se stessi, ma liberati da se stessi: questa è la liberazione della

libertà. Né eteronomi; né autonomi; ma teonomi. è la

teonomia la liberazione della libertà, purché non sia una teonomia

mediata dalla categoria della legge morale, ma dalla presenza di Dio nel mio

io: Egli che è «intimior intimo meo et superior superiori meo».

L’annuncio cristiano notifica all’uomo precisamente questo fatto: è giunto

il momento, ed è questo, in cui se l’uomo è disposto a

riceverlo, Dio dona all’uomo il suo stesso Spirito che inclina l’uomo

a scegliere da se stesso quanto è comandato dalla legge morale. è questo

dono ciò in cui consiste principalmente il cristianesimo: il cristianesimo

in quanto vita dell’uomo è questo dono dello Spirito Santo. La

liberazione della libertà avviene nel dono dello Spirito Santo. Cristo è morto

e risorto per questo.

Rosmini ha scritto: «L’essenza del cristianesimo è d’essere

una religione soprannaturale, e l’essenza d’una religione soprannaturale

dell’uomo è la reale azione della grazia nell’anima umana» [Antropologica

soprannaturale, CN ed., vol. 39, Roma-Stresa 1983,  pag. 69]. è per

questo che il cristianesimo è vita prima che dottrina; nella visione

cristiana il supremo regno non è quello del potere, né del sapere,

ma quello della carità. In altre parole: chi regna e non serve non è chi

può, non è chi sa, ma chi ama. Ciò a cui la missione cristiana

mira è semplicemente che la persona sia liberata e quindi capace di

realizzarsi nella verità. In linguaggio biblico: sia rigenerato dallo

Spirito Santo in Cristo.

Il dono dello Spirito Santo produce nel credente la capacità di amare,

una capacità che è partecipazione della stessa capacità divina.

E chi ama è libero: è mosso da se stesso, come ci ha detto S.

Tommaso.

Siamo così giunti alla visione cristiana più profonda e completa

delle libertà, perché ora vediamo che la libertà si realizza

nella Chiesa. Infatti «La Chiesa, la Chiesa di Dio in Gesù Cristo, è … la

comunità umana dell’agape divina, dell’amore del Padre comunicato

agli uomini del Figlio suo nello Spirito … Lo Spirito in noi, lo Spirito

Santo del Figlio, lo Spirito di figliolanza, che procede dal Padre, ne è la

fonte permanente, e la Chiesa della Nuova ed eterna Alleanza ne è la

realizzazione, ancora progressiva, ma già pienamente attuale» [L.

Bouyer, La Chiesa di Dio, Cittadella ed., Assisi 1971, pag. 300-301].

La libertà nella visione cristiana è questa capacità che

il credente in Cristo riceve di ricostruire la comunione interpersonale nell’amore:

questa comunione è la Chiesa. La quale ha come statuto la libertà e

la dignità dei figli di Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio,

inabita lo Spirito di Dio [cfr. Cost. sogm. Lumen Gentium 9,2; EV 1/309].

La liberazione dono dello Spirito non mette il credente al riparo dalle contraddizioni

che dilacerano la storia e l’esistenza delle persone. Lo Spirito non

trasporta il credente in un’isola felice. Resta in un campo in cui la «carne»,

le forze dell’oppressione, si battono contro lo «spirito»,

la forza della liberazione. Il credente però è sorretto dalla

certezza e dalla forza del Dono.

4.La libertà come liberazione dalla schiavitù della

storia.

Siamo così giunti all’ultima domanda circa la libertà,

che potrebbe essere formulata nel modo seguente: in vista di quale esito

finale la libertà è liberata? è la domanda sul senso

ultimo dell’esercizio della nostra libertà; senso ultimo come

significato e come traguardo finale.

Cercherò di costruire la risposta a quella domanda attraverso passi

successivi. Cercherò di mostrarvi che la persona umana è fatta

per Dio, e quindi che questa finalizzazione esige che egli sia libero di una

libertà elevata all’infinita potenza: libero di fronte a Dio.

Ed infine cercherò di mostrarvi che la libertà ha bisogno di

essere liberata dalla ipnosi dei beni limitati perché la sua misura

intera non è l’effimero ma l’eterno, e la sua consistenza

non si riduce alla sua consistenza storica, essendo l’uomo ostaggio del

tempo ma cittadino dell’eternità.

Il tema della finalizzazione dell’uomo a Dio, di ogni uomo all’incontro

eterno con Dio stesso, è stato dimostrato e pensato nella tradizione

del pensiero cristiano in innumerevoli variazioni. Non possiamo presentarle

tutte, neppure brevemente. Mi limito a due particolarmente suggestive.

La prima: l’uomo è dotato di un’apertura infinita che solo

Dio stesso può compiere. Dunque, l’uomo è fatto per l’incontro

con Dio stesso. è il grande tema agostiniano: “inquietum est cor

nostrum donec requiescat in te”.

Mi sembra particolarmente suggestiva la modulazione tomistica di questo tema

[cfr. 1,2. q.3,a.8]. Il bisogno, il desiderio di verità presente nell’uomo

lo spinge alla ricerca di una risposta ultima alla sua domanda di vero. Egli

non si accontenta, come l’esperienza dimostra, di risposte penultime,

risposte cioè che a loro volta diventano occasione o stimoli di nuove

domande. Esiste nel cuore umano il bisogno e l’invocazione di una Risposta che

sia intera e quindi definitiva: questa risposta – come dimostra la nostra

esperienza – non può consistere in una risposta che l’uomo

stesso raggiunge. Una risposta umana anche quando vera è necessariamente

frammentaria e provvisoria: il che non significa necessariamente falsa.

Questo inseguimento insonne della verità dimostra che ogni persona è finalizzata

ad un incontro personale con Dio stesso. La nostra domanda di verità ha

un significato: è la domanda della persona creata alla Verità increata.

E non può non avere un significato poiché è costitutiva

della persona stessa.

Esiste anche un’altra modulazione dello stesso tema, non meno suggestiva.

L’essere personale eccelle nei confronti di ogni essere impersonale in

ragione della sua stessa costituzione ontologica. L’essere reale, infatti,

l’autopossesso, l’autonomia e  l’autarchia sono realizzati

nell’essere della persona in modo più elevato che nelle realtà impersonali.

Da questa superiorità deriva la conseguenza che nessuna realtà impersonale

può essere lo scopo ultimo della vita di una persona [cfr. la riflessione

di Tommaso in Contra gentes III, cap. CXII].

La persona

può essere fine a se stessa? Essa dovrebbe fare violenza al desiderio

di vero e di bene che la costituisce e che è illimitato. Porre in qualcosa

di finito la propria ragione d’essere significa rinunciare alla propria

dignità ontologica: l’uomo può essere fedele a se stesso

solo superando, solo trascendendo se stesso. Nella conoscenza, nel riconoscimento

di Dio come Dio, nella sua adorazione e nell’amore di Lui, l’uomo

trova quella pienezza trascendente che lo realizza interamente.

Passiamo ora alla seconda parte della nostra risposta: l’immediata e

diretta finalizzazione di ogni persona umana all’incontro con Dio esige

che la persona umana sia libera davanti a Dio.

Prima di argomentare questa risposta devo premettere una riflessione di decisiva

importanza teoretica per tutto il discorso seguente.

Ho sempre connotato finora la pienezza di essere e di senso cui l’uomo è destinato

con un’espressione metaforica: incontro con Dio.

L’incontro dell’uomo con Dio è l’amicizia fra Dio

e l’uomo nella quale Dio si rivela all’uomo e si dona all’uomo,

e reciprocamente l’uomo conosce ed ama Dio.

Se ora consideriamo attentamente questo fatto, noi comprendiamo che esso è tutto

impastato di libertà.

Vediamo la cosa dal punto di vista del partner divino. Le cose possono essere

conosciute comunque: esse non si nascondono. Ma le persone non possono essere

conosciute comunque: esse devono in un qualche modo “lasciarsi conoscere”,

devono cioè decidere di rivelarsi, di dirsi. Fare della persona un “oggetto” di

conoscenza come fossero “cose”, è precludersi la conoscenza

più profonda della persona medesima.

Tutto questo è ancora più vero per Dio stesso. Noi infatti possiamo

avere di Lui solo una conoscenza mediata ed indiretta: “come in uno specchio” dice

l’Apostolo. Ora nessuno si innamora di una fotografia!

L’amicizia allora fra Dio e l’uomo dipende completamente dalla

decisione di Dio di rivelarsi all’uomo, di dirsi all’uomo in modo

immediato e diretto.

L’essere l’uomo finalizzato  a Dio non esige da parte di

Dio di rivelarsi e donarsi all’uomo. Ogni necessità cogente qui è esclusa

per la natura stessa dell’avvenimento: un incontro fra persone; è esclusa

per la natura assolutamente trascendente del mistero divino.

Ora questa decisione è stata divinamente presa: Dio si è rivelato

ed ha offerto la sua amicizia all’uomo. Molte volte ed in vari modi mediante

i profeti nella storia di Israele; nella pienezza dei tempi assumendo la stessa

nostra natura umana e vivendo quindi nella nostra stessa condizione umana.

Dio è nato da una donna; ha lavorato, gioito e sofferto; ha avuto una

dimora umana dentro la cultura di un popolo, il popolo ebreo. La rivelazione

che Dio ha fatto di Se stesso pienamente in Cristo è la proposta offerta

all’uomo dell’amicizia con Dio stesso.

Ma vediamo ora la cosa dal punto di vista della persona umana.

Perché l’amicizia con Dio accada, l’uomo deve decidere

di accettare la rivelazione–proposta divina. Se Dio ha deciso di offrirsi

all’uomo, l’uomo deve liberamente decidere se accettare o meno

questa proposta poiché non si darebbe vera amicizia fra una persona

ed uno schiavo, fra una persona ed un oggetto. Se l’uomo è finalizzato

ultimamente all’incontro con Dio, la libertà dimora nella sua

più intima costituzione ontologica dal momento che questa finalizzazione

può realizzarsi solo liberamente.

Questa considerazione ci porta al “fondo” della libertà umana.

Essa, considerando la finalizzazione della persona umana alla luce della Rivelazione

cristiana, ci appare come la capacità di rispondere alla proposta che

Dio ci fa in Cristo. Ancora più profondamente: l’uomo è libero

davanti a Dio.

Profondamente, S. Kierkegaard chiama l’io umano considerato nella luce

di ciò che stiamo dicendo, l’«io teologico», in quanto è confrontato

con Dio stesso; in quanto ha preso per sua misura Dio stesso: «E’ l’io

di fronte a Dio. E che realtà infinita non acquista l’io acquistando  coscienza

di esistere davanti a Dio, diventando un io umano la cui misura è Dio» [La

malattia mortale, P.II, cap. 1 in Opere, Sansoni ed., Firenze 1972,

p. 622]. Il nostro io nasce in pienezza quando e perché ha coscienza

di essere davanti a Dio; dovendosi confrontare con Dio stesso che gli si rivela

in Cristo. La nostra libertà è posta dentro al confronto con

la libertà di Dio. è questo il punto centrale della concezione

cristiana della libertà, già preparata e presente in nuce  nella

concezione ebraica.

Questo confronto avviene nei riguardi di Cristo, poiché è in

Lui che Dio si dice e si dona all’uomo.

Il dramma della libertà umana, secondo la concezione cristiana, è rappresentato

nel dialogo fra Gesù e Pietro, dopo la moltiplicazione dei pani [cfr.

GV 6,67-69]. Cristo pone Pietro (l’uomo) di fronte alla sua decisione

suprema: «forse anche voi volete andarvene?», nel senso di  non

riconoscere il Cristo solamente come colui che risolve meglio degli altri il

problema del cibo. E Pietro rispose: «Signore, da chi andremo? Tu solo

hai parole di vita eterna». L’uomo decide per Cristo perché sente

che Lui è la pienezza della vita; è la Vita eterna cui l’uomo

si sente ordinato.

Nella concezione cristiana quindi la libertà umana raggiunge il suo

apice nell’atto di fede. Attraverso l’atto di fede l’io dà alla

sua esistenza un senso radicale e definitivo, dal momento che  la fede è riconoscere

che il rapporto personale con Cristo vivente nella Chiesa è il significato

ultimo della vita. è una decisione irrevocabile perché è risposta

incondizionata alla proposta divina: non si può dire sì a Dio “per

qualche tempo”. è una decisione posta nella prospettiva dell’eternità perché si

entra in una relazione il cui compimento è posto fuori dal tempo. è una

decisione permanente poiché non è posta una volta per sempre

ma esige di essere sempre confermata. è una decisione totale perché coinvolge

l’io nell’intera sua realtà.

La libertà della fede è la “diremption” radicale:

o l’uomo accetta di entrare nell’amicizia con Dio che in Cristo

gli offre il suo amore oppure decide di rifiutarsi e di imprigionarsi dentro

il finito. Questa è la vera separazione che alla fine avverrà fra

gli uomini.

Da quanto ho detto si comprende quale è la vera dialettica  fra

finito ed infinito in quanto costituita e vissuta dalla libertà dell’uomo.

Chiamato a realizzarsi pienamente nell’eternità, l’uomo

decide di sé nel tempo: è il tempo la sua dimora. Chiamato a

confrontarsi colla proposta divina, l’uomo ha però sempre a che

fare con proposte create. Possibilità di Infinito, l’uomo si muove

dentro al finito.

Come valutare questa condizione paradossale? Se non sbaglio, sono state date

tre valutazioni fondamentali.

è una condizione di condanna: l’uomo è stato imprigionato

dentro al finito. La sua libertà consiste nell’uscire da questa

prigione, nel liberarsi dalle catene della finitezza. La libertà “in

cammino” è evasione dal tempo, dalla limitatezza.

è una condizione illusoria: l’uomo si illude di essere fatto

per l’eterno. “Spem longam reseces”, consigliava già Orazio

a Leuconoe. La vita non ha un porto definitivo; non è un pellegrinaggio,

ma un vagabondaggio. è possibile navigare solo a vista. Il nostro destino è l’effimero.

La visione cristiana non sacrifica il finito a spese dell’Infinito né accorcia

la misura del desiderio umano. La libertà umana è un cammino

lungo la scelta di beni finiti in ordine alla scelta dell’Infinito. L’io

costruisce se stesso mediante le sue scelte nel tempo in ordine alla sua eternità.

Si eredita il Regno eterno dando da bere a chi è assetato.

La verità sul bene della persona conosciuta mediante la ragione e mediante

la Rivelazione divina è la guida che dirige la libertà nelle

sue scelte. è facendo la verità sul bene della persona, che la

libertà ordina la persona medesima all’incontro definitivo con

Dio nell’eternità.

La suprema divaricazione fra la scelta moralmente buona e la scelta moralmente

cattiva è il respiro dell’eternità divina dentro il tempo

umano. è costruendo se stesso nella verità e non un se stesso

falso ed illusorio, che l’uomo edifica nel tempo la sua dimora eterna.

Le pietre sono di questo tempo, l’edificio è l’eterno: questa è la

suprema grandezza di ogni scelta libera, nella visione cristiana. Una grandezza

che non può non suscitare un immenso stupore quando ne diventeremo consapevoli: «quando

ti abbiamo visto affamato… e ti abbiamo dato da mangiare?». L’etica è e

resta il compito supremo che è posto per ogni uomo, scrive S. Kierkegaard

[Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, cit. pag. 339]. La verità sul

bene è l’unica verità che non sopporta di essere trasformata

in ipotesi, poiché è l’unica verità che si interpone

fra la libertà umana e Dio: sottraendo se stessi a questa verità si

precipita nell’insignificanza.

La libertà umana che mediante scelte temporali costruisce l’io

eterno, ha bisogno quindi di essere liberata dalla schiavitù del tempo

e dall’evasione nell’eterno.

Come è accaduta questa liberazione? Consentitemi di rispondere con

un apologo.

Due persone  camminavano lungo un fiume in piena, l’una sapeva

nuotare, l’altra no. Questa scivolò e cadde nei gorghi della corrente.

L’altra decise di salvarla. Ha davanti a sé tre possibilità:

insegnare al malcapitato come si fa a nuotare; lanciare una corda e dirgli

di aggrapparsi così che lo avrebbe tirato a riva; buttarsi in acqua

e salvarlo.

L’uomo stava annegando dentro la corrente vorticosa del tempo. La legge

morale gli insegna come non annegare insegnandogli a nuotare, ma gli manca

la forza di nuotare; la prima Alleanza che costituisce già un aiuto

ma non è in grado per la debolezza dell’uomo di salvarlo. Avviene

l’impensabile, l’imprevedibile: Dio stesso si butta nel vortice

del tempo, facendosi uomo. All’uomo non resta che aggrapparsi a Cristo,

che abbracciare la sua persona. Egli, aggrappato a Cristo, è capace

di transitare attraverso la corrente e giungere alla riva della beata eternità.

Nella solennità del Natale la Chiesa proclama: dum visibiliter Deum

cognoscimus per hunc in invisibilium amorem rapiamur. L’Incarnazione

del Verbo è la suprema liberazione della libertà, e la Chiesa è lo

spazio dove questa liberazione accade. «Ma tu, che non puoi camminare

sul mare come ha fatto Lui, lasciati portare da questa nave, lasciati portare

dal legno della Croce, credi nel Crocefisso, e potrai arrivare» [Agostino,

Commento al Vangelo di Giovanni II, 2,4].

Conclusione

è stato un percorso lungo ed anche faticoso quello che abbiamo compiuto.

Provo a sintetizzarlo.

La nostra libertà è alla sua sorgente chiamata del Padre alla

pienezza della  vita in Cristo: nasce l’io ed emerge la persona

sopra tutto l’universo creato. è la nascita della libertà.

Il compimento di questa chiamata è nell’incontro col Padre in

Cristo nell’eternità: la libertà è destinata ad

una pienezza impensabile, la libertà dei beati nella vita eterna. è la

patria, la dimora della libertà.

Dalla sorgente alla patria si snoda il cammino storico della libertà,

che costruisce l’edificio eterno colle pietre storiche delle sue scelte

quotidiane: la nostra libertà rende eterno anche ciò che è perituro.

Costruzione dell’io resa possibile perché Cristo dice l’intera

verità all’uomo circa il bene della sua persona; perché Cristo

dona all’uomo lo Spirito che rende capace la persona di fare la verità.

Alla fine, è Cristo che libera, perché ci mostra il Padre da

cui nasce la nostra libertà; perché è la via alla

pienezza eterna dell’essere; perché è la verità che

ci conduce; perché è la sorgente dello Spirito che trasfigura

nella verità la nostra persona; perché Lui è la vita eterna.

E Cristo è vivente ed operante nella sua Chiesa, scuola della liberazione

della nostra libertà.

 

24/08/2005
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