LA VITA SPIRITUALE DEL SACERDOTE
 [Ritiro sacerdoti: Catanzaro 15-03-07

Il vostro Vescovo mi ha chiesto di riflettere con voi sulla nostra vita sacerdotale, tenendo conto del IV Convegno Ecclesiale di Verona; più precisamente e soprattutto terrò conto del discorso del S. Padre, che mi piace considerare come una lettera enciclica scritta alla Chiesa italiana.

1. Inizio la mia riflessione alla luce della formula paolina che ricorre con una frequenza impressionante nell’epistolario dell’Apostolo: «in Cristo». Più precisamente mi riferisco all’affermazione che troviamo in 1Cor 1,30: «ed è per Lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione».

Essere in Cristo: che cosa significa? Una delle acquisizioni più consistenti della riflessione antropologica è l’affermazione che la persona umana diviene se stessa collocandosi dentro la realtà. La modalità con cui la persona si pone e dimora – diciamo con tutta semplicità è – nell’universo dell’essere, decide la qualità stessa della sua esistenza ed i contenuti della sua coscienza. Sappiamo che la spaccatura fra la propria coscienza e la realtà, che la chiusura nella prigione di se stesso è una delle più gravi malattie psichiche.

Tenendo conto di queste riflessioni antropologiche appena abbozzate, possiamo cominciare a capire il significato profondo dell’affermazione paolina. Dove abita il credente? Come si colloca nella realtà? In Cristo, ci dice l’Apostolo. Cioè: il nostro essere è in Cristo; Cristo è la chiave interpretativa di tutta la realtà; è il “punto di vista” da cui vedo la realtà. Chi si sposa, si sposa in Cristo; chi soffre, soffre in Cristo; chi muore, muore in Cristo. E così via.

Non posso ora approfondire ulteriormente, perché voglio subito parlare di noi sacerdoti.

Parto da una premessa che reputo di importanza fondamentale. La coscienza che noi abbiamo di noi stessi deve coincidere perfettamente – senza alcun residuo – colla nostra missione sacerdotale. Alla domanda: io chi sono? dovremmo poter rispondere in verità: sono un sacerdote. E non sono un … che fa il sacerdote. Cioè: il mio io si identifica con la mia missione sacerdotale.

Quando questa identificazione non accade, gli esiti sono due. O l’esercizio del ministero è vissuto come la fedeltà ad una promessa, e quindi come un dovere; o l’esercizio del ministero è vissuto come una prestazione d’opera su richiesta. Nel primo caso si diventa progressivamente dei burocrati sia pure molto fedeli, rischiando la noia di vivere; nel secondo caso si diventa dei professionisti che, terminata la prestazione richiesta, ritornano alla propria vita privata. Sono sempre più  convinto che l’origine di tante crisi e di tante evasioni di noi sacerdoti in spiritualità monastiche abbiano qui la loro origine.

La questione fondamentale è il porci “in Cristo”; è l’essere “in Cristo”. Lascio a questo punto la parola ad una pagina di R. Guardini: «L’uomo naturale – … – è afferrato da una nuova forma essenziale che lo plasma in una sacra esistenza: il “Cristo in noi” … In ogni credente, attraverso tutte le azioni, i destini, gli sviluppi, si deve attuare qualcosa di profondo: la “mistica” vita del Cristo che crea il cristiano» [Uno sguardo cristiano sul mondo, ed. Messaggero, Padova 1988, pag. 106].

Nel sacerdote, in ognuno di noi il «Cristo in noi» che plasma la nostra vita è il Cristo redentore dell’uomo: è il Cristo che mediante noi diventa «sapienza, giustizia, santificazione, redenzione» dell’uomo.

Come ci poniamo dentro alla realtà? Come coloro che dimorano dentro l’atto redentivo di Cristo. E quindi che coscienza ho di me stesso? Di essere il servo di Cristo per la redenzione dell’uomo. Se mi chiedono: “ma tu chi sei?”, ciascuno di noi deve poter rispondere: sono uno in cui transita l’atto redentivo di Cristo.

La conseguenza immediata è che a livello di intelligenza del reale, tutta la realtà è vista in relazione all’atto redentivo di Cristo [avere la mente di Cristo, dice S. Paolo]; a livello della libertà, tutto l’esistere sgorga da quella che la tradizione della Chiesa chiama la carità pastorale. C’è un solo modo di essere liberi: amare e donarsi per la redenzione dell’uomo. Gesù a Pietro ha chiesto alla fine solo una cosa: mi ami?

2. Qualcuno si chiederà: e che cosa c’entra tutto questo con Verona? Nel discorso del S. Padre viene detto: «… vorrei sottolineare come … debba emergere soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».

A Verona la Chiesa italiana ha fatto una grande scelta: esaminare come la testimonianza cristiana «possa attuarsi e svilupparsi in ciascuno di quei grandi ambiti nei quali si articola l’esperienza umana». è la scelta di  coniugare assieme fede e vita umana. Non nel senso morale: la vita deve essere coerente colla fede. Ma nel senso che la fede diventi l’interpretazione interamente vera del vissuto umano; che l’incontro con Cristo porti l’umanità a realizzarsi secondo la misura alta cui è destinata. La sintesi di fede, ragione e cuore è la realizzazione perfetta della nostra umanità.

Il S. Padre dice tutto questo quando parla del grande “sì” che Dio in Cristo ha detto all’uomo. è l’uomo nella sua concreta umanità ferita e non raramente deturpata nella sua dignità – nella sua capacità di amare, di pensare, di affezionarsi alla realtà, di lavorare – che viene ricostruito.

Per renderci conto di tutto questo non trovo di meglio che citare qualche passaggio del commento al salmo 44 di S. Agostino. «Gaudeamus in nuptiis … gaudeat sponsa amata a Deo. Quando amata? Dum adhuc foeda … Amata est foeda, ne remaneret foeda. Non anima vere foeda amata est, quia non foeditas amata est; nam si hoc amaret, hoc servaret: evertit foeditatem, formavit pulchritudinem».

Ha amato l’uomo ferito e deturpato, ma non la sua ferita e la sua deturpazione. La forza dell’amore ha ricostruito l’uomo. L’uomo che vive questa esperienza gode di essere amato in questo modo.

Non voglio ora prendere in esame le vie di uscita da questa visione, vie che il nostro ministero può percorrere, e che ci portano – nonostante eventuali apparenze – lontano dell’uomo concreto. Dico solo l’essenziale.

Il nostro ministero pastorale, contro le nostre intenzioni,  scioglie l’abbraccio nuziale di Dio colla carne ferita [“foeda”] dell’uomo quando ritenendo non potersi avere salvezza dentro l’umano di fatto educhiamo i fedeli ad un vacuo spiritualismo e non a vivere lunedì quanto abbiamo professato la domenica.

Noi siamo i “paraninfi”di questo abbraccio vivificante di Dio colla carne umana. Siamo gli “amici dello Sposo” che conducono la sposa allo sposo. La nostra dimora abituale è l’atto redentivo di Cristo.

Come è possibile questo? Come è praticabile questa forma di vita?

Fin dal principio non dobbiamo mai dimenticare che noi siamo già collocati in quella dimora. è questo il significato esistenziale profondo del carattere sacerdotale con cui siamo stati segnati per sempre: Christi vices gerens; in persona Christi. Come possiamo “rinnovare il dono” che ci è stato fatto mediante l’imposizione delle mani?

– La celebrazione dell’Eucarestia è la risposta. Questa celebrazione è l’unica chiave interpretativa vera di tutta la nostra esistenza. Ogni esistenza sacerdotale o è eucaristicocentrica o non è veramente sacerdotale. Chiediamo al Signore la grazia di non abituarci mai alla celebrazione dell’Eucarestia. La modalità con cui oggi normalmente si celebra non è di aiuto per una celebrazione profondamente vissuta [musica che non raramente è rumore ritmato; esagerata preoccupazione didascalica; rischio che l’asse celebrativo sia inclinato più verso l’assemblea che verso il Padre]. Siamo vigilanti.

– La carità pastorale sia l’impasto di tutta la nostra vita sacerdotale. Non siamo a “contratto di lavoro”. Ci siamo espropriati di noi stessi. è la carità che ci rende capaci di stare  profondamente vicini all’uomo, di condividere il suo destino, di “parlare al cuore” come dice il profeta. E soprattutto è la carità che produce nel cuore del sacerdote la gioia dello spirito. La tristezza del cuore è l’insidia più grave, a mio giustizio, del sacerdote oggi. L’antidoto è uno solo: l’amore. Chi ama gode. Non ho mai visto degli innamorati tristi.

Conclusione

Mi piace concludere con un pensiero di C.S. Lewis: «Noi non ci accontentiamo di vedere la bellezza, anche se sa il Cielo che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos’altro che è difficile esprimere a parole – vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarne parte» [Il brindisi di Berlicche e altri scritti, Jaca Book, Milano 1980, pag. 149-150].

Siamo presi da tante attività; ci impegniamo in tante programmazioni pastorali. Vigiliamo per non allontanarci mai da ciò che genera il nostro sacerdozio quotidiano: l’avere non solo visto la bellezza di Cristo che dona se stesso sulla Croce per l’uomo, ma l’essere stati feriti da essa, l’esserne diventati parte.

è questa la nostra sublime grandezza. Il resto è polvere e cenere.

15/03/2007
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