Questa casa è stata tanto la casa per don Mario. L’ha servita con il suo tratto disponibile, sorridente, umile. E in questa casa siamo accompagnati davanti al mistero della presenza di Dio. Vi entriamo come i discepoli di Emmaus, spesso agitati e incapaci di riconoscerlo, con un cuore tardo perché dimentico e ferito, sconsolato ma anche indurito. Siamo aiutati a contemplare la presenza di Gesù che è in mezzo a noi, che ci raggiunge con la sua Parola e si dona per nutrirci con il suo corpo, perché sia cibo di vita eterna. Chi lo mangia vivrà per Lui e vivrà in eterno, perché la “mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6, 55). La città del cielo, quella nuova Gerusalemme cui Bologna è chiamata ad assomigliare, ci viene indicata per ricordarci dove siamo diretti, oltre il limite della nostra avventura umana. Per don Mario è una vita lunga, sazia, spesa sempre con totale dedizione per la Chiesa e per il prossimo, da servitore gentile e zelante come tutti lo ricordiamo. La Parola di Dio ci indica “un cielo nuovo e una terra nuova” perché “quelli di prima erano scomparsi”.
Oggi scompare il primo e don Mario viene introdotto nel dopo, finisce il non ancora e capisce il già che sarà per sempre. La nuova Gerusalemme scende, bella come una sposa. La bellezza non è fuori dal mondo e la nuova Gerusalemme, in realtà, la iniziamo a vedere quando si compone la città di Dio ed egli abita con noi. La nuova Gerusalemme inizia quando le lacrime sono asciugate e la morte viene sconfitta dall’amore. Quello che vediamo nella bellezza della vita amata lo ritroveremo pieno in cielo. Quello che sperimentiamo già in mezzo a noi, nella nostra carne, lo ritroveremo in quella stessa carne quando raggiungiamo, con la stessa trasformata, la casa del Padre dove vi sono molte dimore. La memoria della Vergine del Soccorso, del pronto soccorso con la quale Mario scherzosamente parlava della sua parrocchia, ci offre le letture, perché oggi è festa in cielo e lei, Maria, viene incontro a don Mario che ne contempla la pienezza.
Quello delle Nozze di Cana è un brano che normalmente viene letto per altre celebrazioni, ma quanto è opportuno in questa liturgia di commiato, di addio per don Mario, quando tutto sembra finito! Davvero Maria è Vergine del soccorso, che raccoglie, cioè, ogni richiesta di aiuto. Alcune sono presentate con chiarezza ma spesso, come dei bambini, non sappiamo nemmeno spiegarle, non troviamo le parole, stiamo male ma non sappiamo dirlo, abbiamo bisogno e Lei se ne accorge e lo sa capire. Gesù è in mezzo a noi e Maria ci aiuta sempre ad andare da Lui. Ecco la forza della Chiesa, quella che don Mario ha fatto sua con tanta fedeltà e umiltà. Il soccorso arriva quando il vino finisce, quando non sembra esserci altra possibilità, quando le forze si esauriscono o non si trova motivo di gioia, di speranza, di vita stessa. Maria, che ama, se ne accorge subito, come una madre che non ha nemmeno bisogno di aspettare la richiesta. Essa si pensa per i figli e comprende quello che serve a loro. Li ama, non è presa da sé tanto da non rendersi conto e non è rassegnata. Finisce il vino e per prima si rivolge a Gesù.
È curioso. Lei è la prima dei credenti ad accogliere Gesù e a dirgli di sì ma è anche la prima nel chiedere a Gesù di cambiare la vita e di rivelarsi agli uomini. È la prima a affidarsi al Figlio perché quella festa non finisca, perché la bellezza della vita non venga mai meno. Si affida al Figlio e lo coinvolge nella sua preoccupazione perché riconosce che il Figlio ha la risposta! È sempre vero che le stagioni del benessere, peraltro sempre così brevi e caduche, terminano, e così ci ritroviamo a fare i conti con la nostra fragilità. “Non hanno vino”. Maria ci insegna il segreto della vita e ci dona il vero soccorso, che è Gesù. È il suggerimento che don Mario ha fatto suo fin da piccolo, cui ha obbedito con mitezza. “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Ecco cosa ha ripetuto anche lui, insieme a Maria, la nostra madre Chiesa. Maria è la prima dei credenti e la madre di coloro che diventano figli, non per i meriti ma perché “fanno”, non parlano ma ascoltano, “fanno” la parola. C’è sempre anche qualcosa di generativo e creativo nel “fare” la Parola: non è metterla in pratica, ma renderla viva con il nostro stesso amore che è nel nostro cuore e fa generare la presenza di Gesù nel mondo. Ascoltare e fare. È la via umile dei discepoli, degli operai. Una via umile, perché l’orgoglio è il grande inganno dell’uomo, accarezzato dal male che, come il primo peccato, fa credere di essere se stessi non ascoltando e dividendosi dall’Altro che è Dio. L’orgoglio rende la grazia, cioè l’amore gratuito e totale, oggetto del sospetto, inutile.
Don Mario è stato un uomo umile. L’umiltà significa non farsi un’idea alta di sé ed essere consapevoli che siamo pensandoci assieme all’amato. Da soli “non possiamo fare nulla”, non per disprezzo del nostro io ma perché possiamo tutto nell’amore e l’amore è solo aprire il cuore, lasciarsi condurre e rispondere con il nostro amore. Umiltà è donare amore senza interesse, senza ritorno su di sé, che poi è come la grazia che cerca solo la nostra grazia, cioè il nostro amore. L’umiltà non è affatto una cattiva opinione su di sé, rispetto agli altri. L’umile è Gesù che accetta non di fare la sua volontà ma quella del Padre abbandonandosi ad essa nella fiducia che solo così può compiere le cose grandi. Umile è colui che serve, che senza supponenza, interessi, esibizioni, vuole bene e basta, dona senza attendere nulla, accumula tesori in cielo perché è libero da quelli della terra ed è contento di dare il vino più buono perché la festa di tutti non finisca. È umile, come Maria, che soccorre, come una Madre, è disponibile ad aiutare, e alla fine quella festa è anche la sua festa. (GE 50) Per poter essere perfetti, come a Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla Sua presenza. Se viviamo agitati, alla ricerca della nostra considerazione, finiamo arroganti di fronte agli altri, stanchi e spossati. Ma quando vediamo i loro limiti e i loro difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro una mano ed evitiamo di sprecare energie in confronti inutili e semi di divisione.
Per Santa Teresa di Lisieux «la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze». La mitezza affronta i problemi. «Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole». Forse sarà così, lasciamo che gli altri lo pensino. È meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio. Don Mario trasmetteva comunque la gioia di chi nasce dalla «certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto». Mario era uno degli ultimi ordinati dal Cardinale Nasalli Rocca, il 22 settembre 1951, e ha servito la Cattedrale, che rendeva casa per quanti entravano, e gli uffici della Curia, che aiutano il funzionamento di tutta l’Arcidiocesi. Aveva una grande cordialità con me, della quale lo ringrazio con riconoscenza e commozione, premuroso verso l’”Arcivescovo”, come quando mi aiutava a togliermi i paramenti, o quando immancabilmente mi chiamava all’inizio della settimana e non faceva altro che assicurarmi la sua preghiera e la preghiera per la Chiesa di Bologna.
Grazie, servo mite e umile di cuore, operaio della vigna di Dio. Prega per la tua Chiesa di Bologna che continui ad amare nella pienezza della nuova Gerusalemme. Prega perché tanti si mettano generosamente, miti e umili, al servizio di Dio, con tutto se stessi. Ecco, oggi bevi con il tuo Signore del frutto della vite, che è nuovo nel regno del Padre suo e nostro, perché Gesù vuole che la nostra gioia sia piena e la nostra vita non finisca. Il vino del Signore è sempre più buono e lo scopriamo e lo scopriremo nella casa del Padre, fino alla fine, senza fine.
