È il Giubileo della Speranza. Arriva in una stagione che ha tanto bisogno di trovare futuro, visione, senso per cui vale la pena camminare, energia interiore che libera dalle nostre paure, dall’infinite spiegazioni che non danno il motivo, dalle diffidenze che spengono l’entusiasmo, dalla disillusione per cui nulla vale la pena, dal pessimismo scambiato come realismo e avvedutezza. Finiamo come quelli che sanno solo vedere il male, la pagliuzza, e scambiano questa per la verità. Siamo così poco abituati alla speranza che l’abbiamo ridotta a felicità individuale, a benessere a qualsiasi costo, anche a quello di perdere l’anima. La speranza non è vittoria a poco prezzo ma forza che ci fa attraversare le avversità sapendo che ci sono ma che non sono l’ultima parola. Il nemico della speranza è la rassegnazione che porta all’indifferenza: ci accontentiamo dei nostri sentimenti e alla fine diventiamo indifferenti anche al dolore, perché se la compassione non diventa scelta ci si abitua all’uomo mezzo morto.
La speranza non è il debole e pigro fatalismo, quello di chi registra con distacco le situazioni in attesa di contingenze favorevoli indipendenti da noi. La speranza dipende da noi perché Gesù ce la dona. Sta a noi prenderla sul serio e iniziare, non rimandare, o aspettare di avere prima tutte le risposte. L’àncora della speranza nelle tempeste della vita, a volte davvero terribili, è l’amore di Gesù. È amore che entra nella vita, non resta fuori come un’entità senza concretezza, talmente spirito così da diventare quello che vuole l’individualismo. No! Gesù si fa pane e chiede di essere pane, si fa corpo e chiede di essere amato, difeso, perché chi lo difende e lo ama riconosce e ama il suo prossimo, cioè l’altro, chiunque esso sia. Senza speranza finiamo per conservare il presente, il nostro, però ne sentiamo tutto il peso, la fatica e, a volte, l’inutilità.
Non a caso, chi non ha speranza si lamenta sempre, ha tanto ma non ha gioia, si sente sempre di combattere contro qualcosa di troppo grande, o pensa che quello che fa sia inutile, vano. Ma il problema non è quello che fa: è la speranza, dove ha il cuore. Senza speranza si sopravvive, tutto diventa faticoso e perduto. Abramo chiede a Dio un motivo per cui continuare a camminare anche se non aveva tutto chiaro, senza risultati immediati e la sicurezza del figlio. Dio disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle», e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Vide le stelle, e credette nella Parola di Dio. La speranza è quella di San Giuseppe, l’uomo dell’ascolto e della Parola. Il Vangelo non riporta nessuna sua parola, perché la sua parola è la Parola di Dio e la sua vita diventa quella che la Parola indica. La fa sua e genera vita, anzi, via, verità e vita.
Non si lamenta e non discute all’infinito sul perché degli imprevisti o sulle sue convenienze. Diventa forestiero, come avviene a tantissimi fratelli più piccoli del piccolo Gesù. Non dimentichiamolo e non guardiamo con leggerezza come chi sta comodo e giudica partendo dalla sua tranquillità, senza voler capire cosa significa vivere, spesso senza nulla, nei campi profughi o, peggio ancora, senza speranza oltre che senz’acqua, senza medicine, senza scuola. Quando ci prendiamo troppo sul serio non ascoltiamo più Dio ma solo noi stessi, le nostre convinzioni che diventano le uniche, ci fidiamo solo di quello che vediamo e tocchiamo noi.
Mentre la speranza vede e tocca quello che ancora non c’è. Giuseppe aiuta con tutto se stesso e anche si affida alla ben più grande provvidenza di Dio. Giuseppe vede e prepara quello che oggi è nascosto eppure già c’è, come il frutto che è contenuto nel seme. Giuseppe credette e diventò padre di Gesù. Sa che quel figlio non è suo come, in realtà, dovrebbero ricordare tutti i padri che sono davvero padri. Ma lo ama, lo genera alla vita, lo fa crescere in grazia. Ecco cosa significa essere uomini di speranza, cristiani che generano nella loro vita e che prendono con sé Dio che non smette di farsi carne in mezzo a noi. L’altro giorno ero ad un convegno che aveva come titolo “Protagonisti del futuro”. Per esserlo dobbiamo divenire come Giuseppe, umili nel presente e fiduciosi della promessa di Dio.
Mentre la nostra generazione vuole essere protagonista nel presente e si mostra disinteressata del futuro perché, banalmente, non va oltre sé. Non avrai ricompensa se non doni tutto e non ti misuri con ciò che è grande, che riempie il cuore ed «eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà, la bellezza, la giustizia e l’amore». Gesù ci aiuta a vedere oggi la gloria di Dio, quella che riflette e anticipa la gloria del cielo che non è un’altra vita ma la pienezza di questa. San Giuseppe la vede in quel figlio e la fa sua. Non cerca la sua gloria ma cerca la gloria di Dio in quel bambino che gli è affidato e in Maria, sua sposa. Ci insegna a preparare il futuro, ad essere protagonisti del futuro perché lo prepariamo per il Signore, per gli altri. I cristiani, non dimentichiamolo, sono quelli che riverberano la bellezza del Suo amore, un nuovo modo di vivere ogni cosa perché pieno di concreto amore, perché è questo che ne fa comprendere l’autore e avvicina a Lui. Chi ascolta e fa sua la Parola di Dio entra nel cuore di Dio.
Nella Trasfigurazione capiamo nella concretezza della nostra vita mortale quello che non finisce, la luce eterna che essa contiene e che si rivela quando amiamo e diamo gloria al prossimo e non a noi. «Quando raggiungiamo l’intimo di quel Cuore, siamo inondati dalla gloria incommensurabile del suo amore infinito di Figlio eterno, che non possiamo più separare dal suo amore umano. È proprio nel suo amore umano, e non allontanandoci da esso, che troviamo il suo amore divino: troviamo “l’infinito nel finito”» (DN67).
San Giuseppe, uomo obbediente alla Parola, ci renda testimoni di speranza, cercatori di futuro, pieni di luce e capaci di donare ai fratelli l’amore, cioè la gloria di Dio, sua e nostra.
