Lunedì 15 settembre

L’intervento di monsignor Erio Castellucci alla Tre giorni del Clero

La relazione ai sacerdoti e diaconi sul tema: «La vita “affettiva” del prete (il prete, uomo delle relazioni)»

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La nostra intervista e il suo intervento integrale.

È iniziata lunedì mattina in Seminario la Tre giorni del Clero 2025, il tradizionale appuntamento di inizio Anno pastorale dell’Arcidiocesi di Bologna. Tre giornate ricche di appuntanti dedicate e riservate ai sacerdoti e diaconi che ospitano riflessioni, celebrazioni, indicazioni per il nuovo Anno, momenti di condivisione, anche conviviali, e di dialogo. Ad aprire le riflessioni, dopo il saluto dell’Arcivescovo, la relazione di monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi, che ha parlato de «La vita “affettiva” del prete (il prete, uomo delle relazioni)».

Qui il testo integrale dell’intervento di monsignor Erio Castellucci

 

«È un tema che non è così consueto – ha spiegato monsignor Castellucci ai nostri microfoni dopo il suo intervento – perché quando si parla di affetti, sembra che i sacerdoti e i vescovi debbano in qualche modo “volarci sopra”. Gli affetti di Gesù nel Vangelo non sono mai taciuti compresa anche l’ira, la rabbia, soprattutto la compassione, la gioia. Sono affetti, quelli di Gesù, che portano sempre al dono di sé, anche quando si indigna si sta donando. San Paolo dice: “Abbiate in voi i medesimi sentimenti”. E quindi noi che siamo uomini, battezzati, discepoli, e anche nella linea apostolica, non possiamo ignorare gli affetti. Anzi, il nostro ministero deve essere una versione totalmente donata alla comunità della compassione che aveva Gesù. Compassione proprio nel senso etimologico in cui viene usata questa parola, cioè vivere gli stessi problemi, farli propri, portarli dentro di sé.

«E allora ci si rende conto – prosegue monsignor Castellucci – che la vita del ministro ordinato, del prete, del vescovo, è una vita piena, piena di relazioni. Relazioni che non devono essere di sfruttamento, predatorie, ma, come gli affetti di Gesù, relazioni di dono. Si tratta perciò anche di ricevere. Il Signore ha avuto bisogno dell’affetto, anche lui ha chiesto a Pietro se lo amava. C’è quindi un dare e ricevere, come dice Benedetto XVI nella sua prima enciclica. Ma questo lo si può vivere se si sta in un rapporto profondo con il Signore e in un rapporto libero con le persone, con gli altri preti, con il vescovo, con i laici. Se dovessi paradossalmente tenere solo un versetto del vangelo sceglierei Matteo 10,8: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Gli affetti che si possono esprimere liberamente, in maniera pulita, come dono, sono quelli che nascono dalla gratitudine di aver ricevuto tutto dal Signore».

La vita dei preti non è esente dalla tentazione e spesso le frustrazioni sono anche l’indice di un’eredità affettiva e spirituale?

«Sì, a volte non sono legate direttamente alla sfera dei sentimenti – risponde monsignor Castellucci –  ma per esempio, come per ogni essere umano, quando ci sono troppe cose da fare, quando c’è l’ansia di qualche prestazione, quando c’è l’affanno di Marta, potremmo dire, allora diventa difficile anche coltivare le relazioni e quindi ne soffre la vita affettiva. A volte succede che si trattano le persone in modo scorbutico, che non si ha tempo per ascoltarle, si offendono, e ci si lascia ferire magari da osservazioni che servirebbero in realtà a migliorarsi. C’è questa cappa che talvolta pesa sui presbiteri, sui vescovi, molto spesso sui parroci, che è l’amministrazione, la gestione, la burocrazia. In questo dobbiamo sicuramente fare qualcosa, spero anche nel Cammino sinodale, per poterla alleggerire, perché la vita affettiva significa relazione e le relazioni hanno bisogno di tempo».

Nella sua riflessione monsignor Castellucci ha anche ricordato il dialogo tra Gesù e Pietro: «Se ami me, pasci il mio gregge». Il gregge rimane sempre del Signore e il pastore è chiamato ad amare Gesù e a sapere che il gregge, il popolo che gli ha affidato, non lo ha affidato come possesso ma come custodia. «Questa è la libertà – ha precisato – che dà il ministero celibe: “non è il mio gregge, non è la mia parrocchia, il mio ufficio”, lo diciamo per capirci, ma è il suo. E questo rende molto liberi nel caso, per esempio, di avvicendamenti, di cambiamenti di ministero. Amare profondamente senza attaccarsi e senza possedere».

«A volte sento attribuire al ministero o al celibato – ha concluso monsignor Castellucci – delle fatiche come una certa solitudine, un’insoddisfazione, una frustrazione che non sono specifiche del ministero e del celibato. Per esempio, ho un amico magazziniere che a volte dice: “Mi sento solo”, “Mia moglie non mi capisce, i miei figli mi hanno dato una risposta frustrante”. Penso quindi che non sia tutto a carico del celibato e del ministero. Ogni vocazione, a partire poi dalla stessa vocazione ad essere uomini e donne, vive dei momenti di fatica, vive delle croci. Si tratta di farsi aiutare, di trasformarli in un passaggio che non diventino la tomba degli affetti».

(a cura di mons. Andrea Caniato)

Qui il suo intervento integrale alla Tre giorni del Clero

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