Da Ain Arik

«Gettiamo ponti tra le due parti in conflitto»

La testimonianza della Piccola Famiglia dell'Annunziata

Pubblichiamo la testimonianza giunta dalla comunità della Piccola Famiglia dell’Annunziata presente a Ain Arik in Terra Santa.

Il mio piccolo contributo vuole essere una testimonianza a livello più interiore di quello che in queste settimane stiamo vivendo. E a quel livello cercherò di attenermi. Ma permettetemi una parola che sembra contraddirmi subito. Per me è molto chiaro che le due violenze contrapposte che si scontrano a Gaza vanno condannate. E aggiungo in modo altrettanto chiaro – per non essere frainteso da quanti identificano in modo soffocante una minima critica a Israele come un supporto indiretto ad Hamas – che, sul piano del diritto e di ogni legalità, quanto commesso da Hamas non è per nulla giustificabile: nemmeno l’occupazione subita giustifica l’uccisione e il massacro di civili.

Tuttavia questa occupazione è illegale e sanzionata più volte dalla comunità internazionalmente. Se la violenza è perpetrata dalle due parti (anche se bisognerebbe rifiutare l’equazione Hamas = Palestinesi), questo non è il caso per l’occupazione, che non può essere imputata a tutte e due le parti, e di conseguenza, condannare l’occupazione significa condannare una delle due parti, in quanto occupante, non in quanto Stato che ha diritto all’esistenza. Mentre la violenza è imputabile a tutte e due le parti (benché rimanga asimmetrica quanto al numero di vittime e quanto alle conseguenze per l’una e per l’altra parte), l’occupazione è perpetrata da una parte contro l’altra, la quale non può che subirla. Termino questa parte dicendo che tutto ciò è motivo di una lotta spirituale interiore non indifferente per chi, come noi, ha scelto di stare qui. Vivere qui comporta un certo equilibrio e una certa pace necessarie che vanno sempre riconquistate.

Come penso che molti di voi sappiano, la nostra comunità si trova ad Ain Arik, un piccolo villaggio, che con l’arrivo dei profughi palestinesi nel 1948 ha cambiato volto e si è trasformato da un villaggio in maggioranza cristiano, a un villaggio a maggioranza musulmano, con una presenza di qualche centinaio di cristiani latini e ortodossi. Fin da quando siamo arrivati, nel 1989, durante la prima intifada delle pietre, abbiamo sempre potuto godere di una certa pace e collaborazione che già esisteva fra le diverse componenti del villaggio. Siamo a soli 7 km da Ramallah, siamo perciò relativamente lontani da Gaza, teatro della guerra di questi giorni. A portarci qui è stata una richiesta dell’allora patriarca Michel Sabbah, il quale ci chiese una presenza nei territori occupati sul tipo di quella che già avevamo in Giordania, a Main, cioè una piccola comunità di fratelli e sorelle dediti alla preghiera, completamente inseriti nella chiesa araba locale. Il segno di questa inserzione totale era la nostra preghiera nella lingua locale, l’arabo che poteva permettere la partecipazione della gente, o detto meglio, ci dava la possibilità di pregare insieme a loro. La comunità accolse la richiesta. Don Giuseppe aggiunse a questa inserzione nel mondo arabo, anche una nel mondo ebraico, per cui la nostra presenza qui doveva essere a due polmoni, uno ad Ain Arik, il più grosso, e uno a Gerusalemme. Il segno e la garanzia che queste due presenze dovevano essere una comunità unica, era il fatto che tutti i fratelli e le sorelle coinvolti dovevano conoscere le due lingue, arabo ed ebraico, ed essere, in una certa misura, interscambiabili.

Ma prima di dirvi qualche parola su come viviamo questi giorni, è necessario ora ricordare anche un altro episodio. Nel 2014 prendemmo l’iniziativa di fare un anno di studio dell’ebraico moderno per un gruppo di sorelle e fratelli. Senonché poco prima dell’avvio dell’esperienza, ci fu l’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano (Netaniahu era premier e Gantz era capo di stato maggiore delle forze armate). Ci fu una settantina di morti dalla parte israeliana e più di 2000 morti dalla parte palestinese. Di fronte a questo fatto ci assillava il forte dubbio che fosse il caso di andare a studiare ebraico in quel momento. Il Patriarca Michel, da noi consultato per un discernimento, ci rispose così con un biglietto: «Non c’è da esitare o fermare la vostra iniziativa. È bene avere lasolidarietà coi due popoli. È bene imparare l’ebraico, come lingua e come solidarietà col popolo; è in sé una buona cosa. Bisogna che gli israeliani sentano e conoscano che ci sono amici come voi, per renderli più forti ad amare e aver meno paura degli altri. Perché altri amici politici di Israele pensano di essere amici rendendolo più forte per uccidere. La vostra amicizia è per renderli più forti per amare, forti, sicuri, non aver paura degli altri, e per aiutare per quanto è possibile, tutti e due alla riconciliazione; né pro-palestinesi, né pro-israeliani, ma pro-riconciliazione dei due. L’iniziativa vostra dunque di far imparare alle sorelle e ai fratelli la lingua ebraica può continuare senza problema, nello spirito di essere amici dei due popoli. Auguri. Michel Sabbah» (luglio 2014).

Ho ricordato queste cose perché una delle sfide del nostro rimanere qui, è proprio quella di riuscire a mantenere l’intenzione che ci è stata indicata da don Giuseppe e confermata dal patriarca Sabbah, essere cioè qui a nome dei due popoli, portarli nella preghiera e nell’animo, ed essere, nel nostro piccolo, una testimonianza a favore della riconciliazione. Mantenere questo ideale, o meglio questa speranza nella situazione terribile di oggi, è la sfida maggiore alla quale siamo sottoposti costantemente e della quale dobbiamo riappropriarcene, ogni giorno, ogni volta che, giorno e notte, sentiamo il suono insopportabile degli aerei militari che passano sopra le nostre teste e che vanno a bombardare Gaza e poi fanno ritorno alle loro basi in Galilea; ogni volta occorre opporre un pensiero e una preghiera di pace, di speranza, di fede.

Cosa ci aiuta a restare qui? L’intenzione di don Giuseppe, la nostra giornata di preghiera e lavoro, uno scambio che abbiamo quotidianamente fra di noi, un ottimo rapporto col parroco palestinese, persona con una formazione diversa dalla nostra, ma molto fine. E anche una condivisione con i cristiani del villaggio e anche con i musulmani, nel bene e nel male, preziosa per loro e per noi. Condividere la grande apprensione e paura che la nostra gente vive ogni giorno. Già da qualche tempo si sono moltiplicati gli episodi di scontri fra palestinesi da una parte, e esercito israeliano e coloni dall’altra. Si contano, dall’inizio dei fatti di Gaza, una quarantina di palestinesi rimasti uccisi in questi scontri. Dobbiamo accettare che non saremo mai nella loro condizione di un popolo che vive nella privazione quotidiana di tanti diritti e sicurezze, cosa che noi non esperimenteremo mai fino in fondo, e rimarremo sempre con le nostre sicurezze garantiteci dal nostro passaporto italiano, ma questo non ci impedisce di sperimentare una accoglienza fraterna, e una comunione che nasce dal vivere insieme.Quello che noi in più forse possiamo fare è appunto quel gettare i ponti fra le due parti in conflitto, perché siamo in una situazione diversa che ce lo può permettere.

Termino dicendo che personalmente, avverto in questo momento la mancanza di poter continuare i rapporti che col tempo alcuni di noi hanno intessuto col mondo ebraico, rapporti che ci hanno fatto crescere nell’approccio della Scrittura, e su tanti altri piani. Avverto la mancanza di poter semplicemente essere lì, nella parte della Gerusalemme nuova ebraica e passare qualche giorno di preghiera in mezzo a loro, e che qualcuno di loro continui a interrogarmi su cosa pensano i palestinesi, perché sanno che abito nei territori occupati e vivo in mezzo ai palestinesi, e rimangono colpiti quando semplicemente dico loro che mi sento a casa quando vivo lì: basta questo per iniziare a infrangere quel muro innalzato da una propaganda falsa che ha fatto sì che ormai il palestinese è individuato come il terrorista. Non c’è nulla di più deleterio.

Spero di essere riuscito a restare al livello di una testimonianza interiore come mi è stato richiesto e come ho desiderato fare. Rimando ad altri momenti eventualmente la possibilità di poter condividere le nostre riflessioni (vostre e nostre) e crescere nella nostra comunione, presupposto necessario per una preghiera per la pace che davvero oggi speriamo e chiediamo sia accolta da Dio.…

Questo quanto avevo scritto ieri. Ieri sera siamo andati a dormire dopo aver sentito la terribile notizia della distruzione di uno degli Ospedali di Gaza, colpito da un missile, con centinaia di morti, un atto che alza di molto il livello degli scontri e che potenzialmente può scatenare reazioni incontrollate e un allargamento del conflitto, e la domanda ora è: si apre un altro scenario ancora più terribile? Intanto gli aerei continuano a passare sulle nostre teste.

Ho fatto leggere ai fratelli e alle sorelle che condividono il testo.

Sandro
Ain Arik festa di san Luca 2023

PS. Non ho per nulla toccato quello che si deve dire a proposito della conflittualità interiore fra l’essere cristiano e l’essere palestinese.

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La riflessione del parroco di Ain Arik, abuna Firas.

“En tant que Palestinien, chrétien et prêtre, surtout dans la situation actuelle, je me trouve tiraillé entre ces trois identités qui forment mon être. Conjuguer ces trois appartenances ensemble, et trouver une unité intérieure, exige de moi effort considérable. Un effort de nature « spirituel ». En tant que palestinien, je partage non seulement les souffrances de mon people, mais aussi leurs aspirations transgénérationnels ! Je suis née au cœur de ce conflit, et j’ai passé mes derniers 39 ans, à toucher l’impact de cette réalité dans quotidien de ma vie de Palestinien.

En tant que Chrétien, profondément inspiré par l’enseignement de l’Evangile et la vie du Seigneur Jésus Christ, mon approche du problème et de ses éventuelles « solutions », semble parfois inaudible pour les deux autres plus grandes majorités protagonistes de ce conflit : les juifs et les musulmans. Et pourtant, je crois profondément, que cette « signe de contradiction » que nous, chrétiens, représentons, est justement au cœur de notre mission comme témoins de l’autre – et seul- chemin, celui de l’Evangile de Vie, que nous sommes appelé à annoncer en temps et en contre temps, sans avoir peur de rien, puisque la vérité nous rend libres ! En tant que Prêtre, évidement, j’ai une plus grande responsabilité de témoigner en public et de guider, en communion avec les Evêques le peuple chrétien confié à notre soin pastoral, ensemble vers une compréhension plus grande et plus « nuancés » de la situation dans laquelle nous vivons, et qui semble prendre de plus en plus un couleur d’un conflit religieux-politisé ou politique « justifiés par » des arguments religieuses.

En tant que Palestinien, chrétien et prêtre, surtout dans la situation actuelle, je me trouve tiraillé entre ces trois identités qui forment mon être. Conjuguer ces trois appartenances ensemble, et trouver une unité intérieure, exige de moi effort considérable. Un effort de nature « spirituel ». En tant que palestinien, je partage non seulement les souffrances de mon people, mais aussi leurs aspirations transgénérationnels ! Je suis née au cœur de ce conflit, et j’ai passé mes derniers 39 ans, à toucher l’impact de cette réalité dans quotidien de ma vie de Palestinien.En tant que Chrétien, profondément inspiré par l’enseignement de l’Evangile et la vie du Seigneur Jésus Christ, mon approche du problème et de ses éventuelles « solutions », semble parfois inaudible pour les deux autres plus grandes majorités protagonistes de ce conflit : les juifs et les musulmans. Et pourtant, je crois profondément, que cette «signe de contradiction» que nous, chrétiens, représentons, est justement au cœur de notre mission comme témoins de l’autre – et seul- chemin, celui de l’Evangile de Vie, que nous sommes appelé à annoncer en temps et en contre temps, sans avoir peur de rien, puisque la vérité nous rend libres ! En tant que Prêtre, évidement, j’ai une plus grande responsabilité de témoigner en public et de guider, en communion avec les Evêques le peuple chrétien confié à notre soin pastoral, ensemble vers une compréhension plus grande et plus « nuancés » de la situation dans laquelle nous vivons, et qui semble prendre de plus en plus un couleur d’un conflit religieux-politisé ou politique « justifiés par » des arguments religieuses.”

Abuna Firas, Ain Arik 18.10.2023

TRADUZIONE:

Come palestinese, cristiano e sacerdote, soprattutto nella situazione attuale, mi trovo diviso tra queste tre identità che formano il mio essere. Combinare insieme queste tre appartenenze e trovare un’unità interiore richiede da parte mia uno sforzo notevole. Uno sforzo di carattere “spirituale”. Come palestinese, condivido non solo la sofferenza del mio popolo, ma anche le sue aspirazioni transgenerazionali! Sono nato nel cuore di questo conflitto e ho trascorso i 39 anni della mia vita sperimentando l’impatto di questa realtà nella mia vita quotidiana di palestinese.

Come cristiano, profondamente ispirato dall’insegnamento del Vangelo e dalla vita del Signore Gesù Cristo, il mio approccio al problema e alle sue possibili “soluzioni” a volte sembra incomprensibile alle alte due principali maggioranze coinvolte in questo conflitto: ebrei e musulmani. Eppure, credo profondamente che questo “segno di contraddizione” che noi cristiani rappresentiamo sia proprio al centro della nostra missione di testimoni dell’altra – e unica – strada, quella del Vangelo della Vita, che noi siamo chiamati ad annunciare a tempo opportuno e non opportuno (2Tm 4,2), senza aver paura di nulla, perché la verità rende liberi!

Come Sacerdote, ovviamente, ho una maggiore responsabilità di testimoniare pubblicamente e di guidare, in comunione con i Vescovi, il popolo cristiano affidato alla nostra cura pastorale, insieme verso una maggiore e più “sfumata” comprensione della situazione che viviamo, e che sembra assumere sempre più il colore di un conflitto religioso-politicizzato o politico “giustificato” con argomenti religiosi.

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