Crisi in Israele e Striscia di Gaza

La Preghiera in Cattedrale per la Terra Santa

Martedì 17 ottobre la preghiera, il digiuno e la solidarietà per la pace. Il testo di don Dossetti riproposto nella Veglia

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La Chiesa di Bologna ha accolto l’invito del Card. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, e di tutti i Vescovi della Terra Santa, così come indicato anche dalla Cei, a celebrare una Giornata di preghiera e digiuno martedì 17 ottobre per la drammatica situazione in Israele e nella Striscia di Gaza.

I Vicari Generali dell’Arcidiocesi, Mons. Stefano Ottani e Mons. Giovanni Silvagni, secondo l’intenzione dell’Arcivescovo Card. Matteo Zuppi, impegnato come Padre sinodale a Roma al Sinodo dei Vescovi, hanno convocato i fedeli in Cattedrale dove alle ore 17.30 dove è stata celebrata la Messa, presieduta da monsignor Giovanni Silvagni e seguita dall’Adorazione eucaristica e dalla recita del Rosario. Alcuni momenti sono stati animati anche dal Piccolo Coro «Mariele Ventre» dell’Antoniano e dalla Piccola Famiglia dell’Annunziata. Moltissimi i fedeli che hanno riempito al Cattedrale per la lunga preghiera.

Riportiamo il testo dal discorso di don Giuseppe Dossetti all’Archiginnasio del 1986  proposto dalla Piccola Famiglia dell’Annunziata durante l’Adorazione eucaristica.

Mi resta solo da accennare all’aspetto più difficile della vita del monaco — e proprio questo aspetto ne è lo scopo assoluto — cioè la carità, l’amore verso Dio e verso il fratello che ci vive accanto con i suoi gusti, con le sue movenze, persino con le sue preferenze spirituali opposte alle nostre. Nell’ambiente ristretto del cenobio e nel consorzio totale di vita che esso implica in ogni aspetto e modalità (dalla liturgia al lavoro, dallo stare a tavola insieme al riposo ecc.) non è possibile evadere, ignorarsi, distrarsi. Ciò richiede una lotta incessante, una vigilanza estrema, un superamento continuo delle proprie preferenze più elementari e un esercizio di sottomissione all’altro che non si può mai dare per acquisito.

Già il padre del monachesimo cristiano, Antonio, aveva detto: «È dal prossimo che ci vengono la vita e la morte. Perché se guadagniamo il fratello è Dio che guadagniamo, se scandalizziamo il fratello è contro Cristo che pecchiamo ». Perciò nel cenobio la tensione alla carità e alla pace sta a indicare — senza pause e senza sconti — la riuscita o il fallimento senza appello di tutta una vita. I Padri del deserto lo sapevano e lo insegnavano con le parole e con l’esempio. Il padre Agatone disse: « Non mi sono mai addormentato avendo rancore contro qualcuno; e, per quanto mi era possibile, non ho permesso che qualcuno si addormentasse avendo rancore contro di me ». E il padre Poemen disse: « Non è possibile avere amore più grande di questo, che qualcuno ponga la sua anima per il suo prossimo; e se qualcuno sente una parola cattiva che lo affligge e, pur potendo rispondere con una parola simile, lotta per non dirla; oppure, se trattato con arroganza, sopporta e non ricambia, questi pone l’anima sua per il prossimo ».

Come non pensare a tante ovvie applicazioni in sedi diverse, in cerchi sempre più vasti? Il monastero, in questo, è veramente un microcosmo, o se volete un laboratorio in cui si possono fare in scala ridotta esperimenti che io penso trasferibili in scale progressivamente sempre più ampie. E qui soprattutto che si dimostra la solidarietà del monaco con i problemi più universali e più travaglianti ogni età. Il monaco non può mai abdicare alla milizia incessante per l’amore verso il fratello, tanto più se pensa che nel suo cuore possono aggravarsi o attenuarsi le contese e i contrasti che lacerano il mondo intero a seconda della soluzione che egli dà al piccolo conflitto domestico. Questo è un capitolo forse in gran parte ancora da scrivere, di quella educazione alla pace che da tante parti si auspica e si teorizza e si vorrebbe praticata. I grandi conflitti che travagliano l’intero pianeta — dal Centro e Sud America al Sud Africa, dall’Afghanistan all’Eritrea, al Sud-Est Asiatico ecc. — si riflettono a ogni istante nella mia coscienza che può essere divisa dal fratello nella mia stessa piccola comunità: e mi impongono una continua risposta positiva, un continuo superamento del mio egoismo che non vuole morire e che pur sa ormai molto bene che in questa estrema frontiera interiore si gioca la riuscita e il fallimento della mia vita davanti a Cristo e si gioca a un tempo il mio reale contributo positivo o negativo alla salvezza storica del mondo minacciato di distruzione totale nell’era atomica in cui viviamo.

Quando poi per giunta il mio cenobio è anche materialmente collocato su una frontiera contesa e su uno dei punti più caldi del pianeta — come lo è di fatto per me e per noi a Gerusalemme e in Giordania — allora la coscienza di questa solidarietà fra il piccolissimo e l’universale diventa, e dovrebbe diventare, ancora più acuta e tradursi continuamente in un auspicio e in un impegno che, per essere silenzioso e interiore, non dovrebbe essere meno categorico e continuo. Tanto più se non solo intorno a me e a noi c’è sempre qualcuno che ci interpella in un senso o in un altro, ma se dentro di me — nella mia stessa coscienza — si urtano ragioni ideali opposte che mi fanno vivere dal di dentro tutto il conflitto che mi preme addosso dall’esterno. Da un lato è in me la memoria indelebile dell’olocausto ebraico e un’apertura e una sensibilità consonanti con la grande tradizione dell’Israele eterno — l’Israele spirituale — che ritengo ancora necessaria al cristianesimo e alla Chiesa per auto comprendersi e per vivere con totale coerenza e fedeltà la propria missione nel mondo. Dall’altro è la lucida e aperta consapevolezza che il mondo intero, specialmente il nostro mondo occidentale (forse prima e più che lo stesso Stato israeliano) ha commesso — e continua a commettere — nei confronti degli arabi palestinesi un’enorme ingiustizia (qualunque sia il loro errore o la loro colpa) e che la pace — nello stesso interesse dello Stato di Israele — non potrà esservi senza una riparazione effettiva delle ingiustizie consumate e senza la restituzione di una parte dei territori a un popolo conculcato e da tutti i lati spinto alla disperazione. Lascio giudicare a ciascuno di voi se simili trasposizioni, dalla coscienza personale e dall’esperienza di una piccola comunità riportate a scale più vaste della problematica civile o internazionale, siano possibili, legittime e dotate, almeno indirettamente, di una qualche autentica efficacia.

 

 

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