Tra sofferenza e speranza

Tra i bambini della «Crèche» di Betlemme

L'orfanotrofio retto dalle Figlie della carità che nessuno visita a causa delle restrizioni della guerra

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Viaggio nell’orfanotrofio del paese dove è nato Gesù Bambino.

È un tuffo al cuore la visita dei pellegrini bolognesi in Terra Santa a la Crèche, l’orfanotrofio di Betlemme gestito dal 1884 dalle Figlie della carità di San Vincenzo de Paoli. Il canto di suor Laudy Fares racconta la dolcezza di queste religiose che provano a portare tanto amore ai loro 40 piccoli ospiti.

Sono «mamme a tempo», devono dare tutto l’amore possibile fino a quando i bambini possono rimanere con loro, quando compiranno 6 anni. Senza affezionarsi troppo però, sarebbe traumatico per entrambi il distacco.

«Noi speriamo nel futuro – dice suor Fares – grazie ai neonati, che ci portano pace e speranza. I bambini sono come il piccolo Gesù, che serviamo ogni giorno. Non guardiamo né la nazionalità né il colore di questi bambini. Sono esseri umani, e il nostro compito è quello di circondarli di amore, perché la società li ha rifiutati. Qui trovano una mano che li accoglie con calore, perché sono tutti uguali».

Il canto di festa dei bambini è venato di nostalgia, un sottile strato di gioia che nasconde un immenso bisogno di affetto, di famiglia, si una mamma e un papà.

«Sento che il mio posto è qui – continua la religiosa – dare amore a questi bambini fin dalla loro nascita è qualcosa di essenziale. Facciamo tutto il possibile, ma manca una cosa fondamentale: la famiglia.  Possiamo solo cercare di sostituirla, ma non del tutto. Facciamo il possibile per renderli felici, per farli sorridere».

La visita prosegue tra le camerette, il refettorio, le aule gioco, le biciclette del giardino e i tanti giochi e colori che cercano di creare un clima familiare e di bontà, per lenire le difficoltà e il dolore della vita che questi bambini hanno conosciuto purtroppo fin dalla nascita.

Ancora oggi è difficile nascere a Betlemme. Lo testimoniano questi bambini che vengono accolti perché provenienti da famiglie indigenti o abbandonati dalle madri in una cultura che non accetta figli nati fuori dal matrimonio. Il muro e la chiusura dei confini della Cisgiordania hanno portato povertà e a un aumento di questi casi perché le ragazze incinta fuori dal matrimonio non possono abbandonare, come prima, la loro terra. Per la famiglia di origine è un disonore. Alcune volte mettono in difficoltà le future madri che vengono picchiate, allontanate e in alcuni casi messe in pericolo di vita. I figli non riconosciuti dal padre diventano dello stato palestinese che a sua volta non concede l’adozione. Un destino che segna per sempre la vita di questi bambini che raramente riescono ad avere degli affidi temporanei.

Spesso nascono nell’attiguo ospedale della Sacra Famiglia dove ora è presente il reparto di ginecologia e la maternità gestito dall’Ordine di Malta. Dopo i sei anni sono trasferiti nella struttura del «Villaggio SOS» fino alla maggiore età quando devono arrangiarsi a trovare casa e lavoro.

«Ma non basta che siano felici adesso – spiega ancora suor Fares –. Ci poniamo molte domande sul loro futuro. Cosa sarà di loro? Una volta che lasciano la nostra casa a sei anni, la nostra comunicazione con loro diventa limitata, e il loro futuro è incerto. Alcuni si perdono, altri riescono a costruire la propria vita, ma noi non possiamo più seguirli. Alcuni ritornano per raccontarci la loro storia e dicono che questo è stato l’unico posto dove si sono sentiti amati. Questo ci consola, ma ci preoccupiamo per il loro futuro, perché non sappiamo cosa li aspetta».

L’orfanotrofio è affiancato da una casa di accoglienza per accogliere pellegrini, volontari e visitatori. Le entrate garantivano un sostegno economico alla Crèche. La pandemia aveva già bloccato le visite per 3 anni e le drammatiche vicende del 7 ottobre e la successiva guerra che ne è scaturita hanno peggiorato ulteriormente la situazione.

«Siete il primo gruppo che vediamo dal 7 ottobre – conclude suor Fares –  e questo ci rende felici, così come i bambini. Alcuni di loro si ricordano delle visite dei volontari e chiedono come mai non viene più nessuno a trovarci. I bambini erano abituati a vedere gruppi di persone che li coccolavano, giocavano con loro. Ora si sentono come in prigione, rinchiusi, ancora più soli. Buon anno! Speriamo che sia un anno di grazia, pace e benedizione, perché abbiamo davvero bisogno che questa guerra finisca, per tornare a una vita normale, come prima».

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