50° di ordinazione sacerdotale e 25° di ordinazione episcopale

Bologna, Cattedrale

“Ecco è già passato molto tempo dalla mia ordinazione. Dov’è il frutto del denaro divino che ho ricevuto per darlo a profitto?”. Sono parole che il nostro san Petronio ha pronunciato in un’occasione simile a quella che oggi qui ci raduna.

L’interrogativo dell’antico vescovo, nostro sempre amato e onorato patrono, mi preoccupa e mi inquieta, perché anch’io – e certo molto più fondatamente di lui – “temo di incorrere [sono ancora espressioni sue] nell’accusa di servo inoperoso, se al padre di famiglia non restituirò raddoppiati i talenti”.

Ma la risposta che il vescovo Petronio da solo si dà, credo valga anche nel mio caso, e mi ridona fiducia: “Dov’è il frutto? Il frutto del mio lavoro – egli dice – dipende da voi”.

Da voi, fratelli che costituite la santa Chiesa di Bologna: della vostra fedeltà alla religione dei padri, dell’autenticità della vostra vita cristiana, del fervore gioioso e senza riserve della vostra appartenenza ecclesiale, io (per così dire) mi farò scudo davanti al Signore, nel giorno ormai non lontano del rendiconto. Sarete voi la mia difesa e il mio titolo di merito: guardando alla vostra fede, alla vostra speranza, alla vostra carità, il Giudice divino non vorrà indugiare troppo, mi auguro, sulle mie manchevolezze e sulla mia povertà.

Ritrovo approfondito e sviluppato questo medesimo pensiero – un pensiero che in questa circostanza è per me singolarmente consolante – in una frase indirizzata da sant’Ambrogio al suo gregge: “Voi siete tutto per me: siete l’interesse che si ricava dai prestiti, siete il reddito dell’agricoltore, siete l’oro, l’argento e le pietre preziose dell’artefice?Sarete dunque voi a rendermi ricco come un banchiere, pieno di frutti come un buon coltivatore, stimato come un sapiente architetto. E non parlo da presuntuoso, perché è evidente che non sto elencando le mie benemerenze, ma quelle che spero siano le vostre” (De fide V,9).

E’ giusto perciò che oggi voi siate qui a rendere con me grazie al Padre del cielo per questi venticinque anni di incredibile misericordia, che mi sono stati donati.

Anche a limitarci alle fortune umane, è stata per me sorprendente la benevolenza con cui sono stato accolto dappertutto in questi anni e la cordialità dalla quale mi sono sempre sentito circondato. Tanto che mi piacerebbe ripetere – se riuscissi a farlo con il suo stesso candore – quanto scrive il vescovo di Canterbury, sant’Anselmo, ripercorrendo in una lettera gli anni del suo ministero: “Tutti coloro che erano buoni e valenti, ai quali capitò di incontrarmi, mi hanno voluto bene, e non già perché io mi dessi da fare a questo proposito (“non mea industria’), ma in virtù della grazia divina” (Lettera 156).

L’11 gennaio 1976, l’arcivescovo di Milano, il cardinal Giovanni Colombo, procedendo alla mia ordinazione, nell’omelia rituale così mi istruiva e preavvisava sui compiti che mi attendevano:

“Il primo dovere dell’apostolo, e quindi del vescovo suo successore, è di evangelizzare gli uomini, cioè di cristianizzarli, di far loro conoscere ed amare Cristo, unica verità che salva e libera da ogni schiavitù di errore, di menzogna e di male. Gli altri ministeri del vescovo esigono di essere illuminati e animati da questo e vengono dopo?”.

“Questo dovere del vescovo – egli diceva – è reso ancora più urgente dalla drammatica condizione dell’attuale società. Passa sul nostro mondo una nube cupa, che pare faccia una notte senza stelle. Le verità e le certezze sono scomparse. I princìpi morali, ancorati nella struttura stessa della natura umana, sono disconosciuti. I valori trascendenti sono rifiutati. Va affermandosi una cultura radicata in quel secolarismo che pretende di trovare tutta la spiegazione del mondo nel mondo, tutta la spiegazione della storia nella storia, tutta la spiegazione dell’uomo nell’uomo?”.

“Il vescovo – egli ammoniva – non potrà presentare la verità che salva come una opinione fra le altre, ma come una scelta obbligatoria e impegnativa per chiunque vuole salvarsi. Conseguentemente dovrà dichiarare erronee e incomplete le opinioni incomponibili con essa. Questo suo imprescindibile atteggiamento provocherà fatalmente la reazione irosa di quanti preferiscono la provvisorietà delle proprie opinioni e dei propri piaceri al vincolo liberante e salvante della verità e della virtù?”.

“Ma egli, reso forte da Cristo, che fedele alla sua promessa è con lui ogni giorno, non temerà minacce, non cederà a lusinghe, non mendicherà consensi: gli basterà conservare e accrescere l’amicizia con colui che ha proclamato di essere la verità, del quale egli è solo umile alunno e autentico araldo”.

Come si vede, non si può dire che, sul limitare della missione episcopale, non mi si sia parlato con sufficiente chiarezza; una chiarezza, anche allora come oggi, insolita e rara, una chiarezza non schermata, offerta senza addolcimenti mondani e senza tranquillizzanti ambiguità. E non credo si possa sensatamente ritenere che quel discorso a tanta distanza di tempo sia divenuto anacronistico e abbia perduto valore.

Personalmente devo confessare che quel discorso a rileggerlo non finisce di impressionarmi. Ed è sempre vivo e pungente in me il timore che il mio servizio alla verità salvifica sia stato spesso e sia oggi ancora, per pusillanimità o per pigrizia, inadeguato e troppo lontano dall’esempio di coraggio e di franchezza del Signore Gesù; di colui, cioè, che – a detta dei suoi stessi nemici – “non guardava in faccia agli uomini, ma secondo verità insegnava la via di Dio” (cfr. Mc 12,14).

Cinquant’anni dall’ordinazione presbiterale, venticinque anni dall’ordinazione episcopale: una considerazione incontestabile, emerge da queste cifre, ed è che la giornata lavorativa nella vigna del Signore volge al tramonto, e il mio pellegrinaggio terreno ormai ha imboccato la dirittura d’arrivo.

Aiutatemi allora voi – con il vostro affetto, la vostra pazienza, la vostra preghiera – a compiere nella fedeltà a Cristo e nella donazione alla sua Chiesa anche l’ultimo tratto.

Mi viene in mente che nelle Olimpiadi di Londra del 1908, un nostro conterraneo, il podista Dorando Pietri di Carpi, dopo aver percorso in testa più di quarantadue chilometri nella gara della maratona, a pochi metri dal traguardo si accasciava stremato, tra la commozione di tutti; e così non poté fregiarsi della medaglia olimpica. Spero che la mia corsa, in grazia del vostro soccorso spirituale e morale (un soccorso che vi chiedo di rendere da oggi più attento e più intenso) abbia una miglior conclusione.

Questa assemblea orante – alla quale esprimo tutta la mia riconoscenza – mi rende fiducioso e sereno: il Signore, che è stato compassionevole e clemente con me in tutti questi decenni, sollecitato dalla vostra implorazione lo sarà sino alla fine, così che “non succeda – per prendere a prestito le parole di san Paolo – che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato” (cfr. 1 Cor 9,27).

Grazie, grazie a tutti.

14/01/2001
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