congedo dall’arcidiocesi

Bologna, Cattedrale

Rendo grazie al mio Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. Rm 1,8; Col 1,13) per i molti doni che hanno impreziosito e allietato gli anni – i molti anni, ormai – del mio pellegrinaggio terreno.
Lo ringrazio per la fantasia e la sorprendente misericordia con cui egli è venuto a prendermi tra la gente umile e dimessa del quartiere popolare della mia origine e mi ha sollevato fin dove “non era mai salito neppure il più svagato dei miei pensieri” (card. G. Colombo).
Lo ringrazio anche per la consolazione oggi offertami di celebrare la liturgia eucaristica in questa cattedrale, che mi è carissima, circondato e ancora una volta sorretto dall’amore ecclesiale e dalla gratuita benevolenza dei molti che hanno avuto comprensione e pazienza con me in questo quasi ventennio, e oggi sono qui a esprimermi una riconoscenza che li onora e un’attenzione fraterna che mi tocca profondamente.
E’ stata per me una fortuna singolare l’aver potuto conoscere da vicino la bella realtà di questa Chiesa petroniana e la grande ricchezza umana, culturale, spirituale della gente bolognese. Più ancora è stata per me una fortuna l’aver a lungo condiviso con questa Chiesa e con questa gente le speranze e le preoccupazioni, le esperienze gioiose e le pene, il gusto di una memoria storica tra le più illustri e benemerite della vicenda civile e al tempo stesso l’ansia di preparare e favorire un avvenire degno del nostro passato.
La bontà divina per venirmi incontro e soccorrermi si è servita della generosità attiva e delle capacità di molti, a cominciare dai due impareggiabili vescovi ausiliari. A tutti dico la mia gratitudine e tutti con animo amico affido al Signore, che sa compensare adeguatamente tutti.
Esplicitamente però voglio indirizzare il mio “grazie” al papa Giovanni Paolo II, che dopo avermi amabilmente incoraggiato ad accogliere la sua designazione, mi ha ripetutamente manifestato la sua volontà di essermi vicino e di aiutarmi fattivamente.
Ma la natura speciale di questo incontro non deve privarci del nutrimento interiore che ogni domenica ci viene dato dalla parola di Dio e dall’esempio, dall’insegnamento, dal fascino di colui che è il solo vero Maestro e l’unico necessario salvatore di tutti.

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“Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11), ci ha detto la lettura evangelica.
Come si vede, il Figlio di Dio comincia la sua azione di salvezza nell’ambito di un banchetto.
E’ un contesto che gli è caro: egli ha pronunciato a tavola alcune delle sue parole più incisive e più belle. A tavola, durante una cena, istituisce l’eucaristia e ci dona così il mezzo per tenere sempre viva e attuale la sua totale dedizione per noi.
Non gli importa molto di essere chiamato – come di fatto è stato chiamato – “mangione e beone” (cfr. Mt 11,19): non si cura troppo delle apparenze sociali della virtù.
Egli sa anche digiunare, ma non ama presentarsi come un professionista dell’ascetismo. Quando digiuna, non si mette in piazza, non fa comunicati stampa e pubbliche dichiarazioni: quando digiuna si nasconde nella solitudine del deserto. Abitualmente, nella vita comune, preferisce mostrarsi come uno che sa apprezzare il buon vino e la buona cucina; tanto è vero che quei gaudenti di pubblicani lo invitavano spesso. Oseremmo dire che nella cultura bolognese e persino nelle consuetudini tipiche della nostra pastorale Gesù si troverebbe a suo agio.
Accetta la durezza e le privazioni di una vita randagia, ma sa anche condividere la più semplice delle letizie umane: quella di stare serenamente a mensa in compagnia di persone amiche. E proprio perché non sia sciupata questa letizia, a Cana compie il suo primo prodigio.
E’ da notare poi che a Cana egli non prende parte a un pranzo comune, ma a una festa di nozze.
Questa, del matrimonio, è l’altra realtà umana che nell’episodio viene ratificata, esaltata e offerta in una luce più alta.
Nella società attuale l’amore tra l’uomo e la donna appare per troppi aspetti alterato e avvilito, insidiato com’è da una ricerca di libertà e di gratificazione individuale tanto assoluta e astratta che finisce coll’essere quasi disumana, senza significazione e senza valore.
Così, tutto appare finalizzato all’affermazione dei diritti, delle esigenze, delle prepotenze del singolo e al conseguimento di un piacere epidermico, piuttosto che alla gioiosa, piena, definitiva comunione delle persone; una comunione che sbocca poi di sua natura nella meraviglia della fecondità.
Nel clima odierno e nella visione suggerita o addirittura impostaci dalla mentalità imperante, il nativo disegno del Creatore è del tutto stravolto. Gesù invece vede espresso e reso presente nel giusto affetto e nell’integrazione esistenziale tra l’uomo e la donna addirittura la realtà più grande e incantevole dell’universo; e cioè lo stesso misterioso amore di Dio per l’umanità redenta e ringiovanita dalla rinascita battesimale.
Analogo simbolismo era già stato usato nell’Antica Alleanza in riferimento a Israele, e noi ne abbiamo ascoltato un esempio nella prima lettura, presa dalle profezie di Isaia: “Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Creatore; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (cfr. Is 62,5).
San Paolo poi, alla luce della novità del Vangelo, chiarirà e preciserà il senso e la portata che questa affermazione assume nella Nuova Alleanza quando, a commento della celebre frase del libro della Genesi: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola” (Gen 2,24), scriverà: “Questo mistero è grande; ma io lo dico per la sua connessione con Cristo e con la Chiesa” (Ef 5,32).
Negli sposi, che a Cana in sua presenza fondono le loro esistenze per sempre, il Signore Gesù vede dunque raffigurata e avverata l’unione di Dio con il suo popolo: quell’unione fedele, irrevocabile e fertile, che dà origine al mistero trascendente della Chiesa.
E a quei due giovani non fa mancare il vino che dà brio e vivacità al banchetto, appunto come alla sua Chiesa non fa mancare mai (neppure nelle ore più buie e disorientate) lo Spirito Santo, che è il segreto della vitalità inesauribile, della perenne giovinezza, dell’incessante rinnovamento.

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A Cana il miracolo avviene alla presenza della Vergine Maria e in virtù del suo pressante interessamento. E non è un caso.
Mi viene qui alla mente che in questi anni, proprio dai bolognesi e dal loro attaccamento alla Madonna di San Luca ho imparato con una chiarezza nuova quanto sia rilevante e anzi decisivo l’amore verso la Madre di Gesù e Madre nostra per il prosperare della vita cristiana e per l’autentico rifiorire della fede di una comunità.
A Maria sta a cuore l’ineffabile sponsalità divino-umana da cui nasce la Chiesa: questo è dunque l’ultimo messaggio che ci arriva da Cana di Galilea. Ed è un messaggio di speranza. Il che vuol dire: possiamo essere certi che anche nei giorni che appaiono ecclesialmente più aridi e desolati, sarà lei a preoccuparsi che nella comunità cristiana non abbia a mancare mai il vino; il vino inebriante della lieta fedeltà al nostro Dio, della passione per la verità salvifica che ci è stata donata, dell’amore autentico e fattivo per ogni uomo che è sempre l’immagine viva di Cristo.

18/01/2004
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