Festa di San Bartolomeo

Bologna, basilica dei SS.Bartolomeo e Gaetano

Sono particolarmente lieto di presiedere questa liturgia, che fa memoria di san Bartolomeo, cui questa bella chiesa è dedicata, e intende onorare l’apostolo al quale i nostri padri hanno voluto affidare questa parrocchia, come a speciale protettore.

Festeggiare un santo patrono significa ritrovare nella nostra consapevolezza un amico potente presso il trono di Dio, e quasi un “capo-famiglia” attorno al quale ricomporre e ravvivare lo spirito di fraternità che deve animare una comunità cristiana.
Se poi questo patrono è un uomo che ha puntato sul Signore Gesù la sua unica vita; è un apostolo che (dopo averlo incontrato) ha speso tutti i suoi anni a farlo conoscere alle genti più diverse e lontane; è un martire che alla fine ha suggellato col sangue la sua generosa esistenza: allora ricordarlo e onorarlo può offrirci un’importante lezione di fede e può diventare una grazia ardua e provvidenziale: la grazia di mettere salutarmente in crisi il nostro modo ormai un po’ sbiadito di vivere il cristianesimo.

Vogliamo perciò conoscere un po’ più da vicino la figura di questo primario discepolo di Cristo, che ci è particolarmente caro, perché ci aiuti a ridare più sapore alla nostra militanza di battezzati e a ravvivare la nostra adesione all’unico Salvatore degli uomini, che è anche l’unico Signore dell’universo, della storia, dei cuori.
Chi è san Bartolomeo? Gli elenchi degli apostoli registrati dai vangeli sinottici lo pongono costantemente accanto all’apostolo Filippo; ed è verosimile che anche lui, come Filippo, fosse di Betsaida, un paese della Galilea non lontano da Nazaret.

Con la scelta della lettura evangelica di questa messa, la liturgia lo identifica con Natanaele, uno dei primi chiamati dal Signore. Ed è una identificazione fondata e del tutto plausibile. Sicché noi rifletteremo su di lui utilizzando appunto questi versetti del vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato, e segnatamente alcune brevi espressioni significative.

“ Abbiamo trovato il Messia” (cfr. Gv 1,45), gli dice pieno di entusiasmo proprio il suo amico Filippo. Quel gruppo di uomini – Andrea, Giovanni, Simone, Filippo – manifestano la gioia di una lunga ricerca che era arrivata al traguardo. Assetati di verità e di senso, avevano lasciato i loro paesi sul mare di Tiberiade e si erano messi alla scuola di Giovanni Battista; poi, su invito dello stesso Battezzatore, si erano posti alla sequela di Gesù; e qui la loro avventura spirituale era giunta al suo compimento: “Abbiamo trovato”.
In realtà – questo vuol dire l’evangelista nella sua narrazione – erano arrivati a conoscere Gesù solo perché erano già stati da lui conosciuti. “Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto” (cfr. Gv 1,48), si sente dire Natanaele e ne è sbalordito.

Ed è sempre così. Ogni itinerario umano di avvicinamento a Cristo ha la sua possibilità di inizio, la sua motivazione, la sua ragione di fiducia, nel fatto che Cristo è già vicino a ogni uomo. Gesù per primo conosce ciascuno di noi: nessuno è a lui estraneo o ignoto, dal momento che in lui sussiste e palpita l’intero disegno del Padre; quel disegno nel quale siamo stati tutti dall’eternità previsti e prescelti.
Questa – tra noi e il Signore della storia e dei cuori – è una relazione vitale che è in atto da sempre, e chiede solo di essere completata con la reciprocità. Gesù aspetta da sempre che anche noi possiamo dire come Filippo: “Abbiamo trovato”.

Natanaele (lo abbiamo visto) è però diffidente. Anche lui, come farà un giorno Tommaso a proposito della risurrezione di Cristo, vuol vederci chiaro. Non è biasimato per questo: è un segno della serietà della sua ricerca e dell’autenticità del suo sentimento religioso; tanto è vero che il Signore lo loda: “Ecco un vero Israelita in cui non c’è falsità” (Gv 1,47).

Ma è interessante la risposta di Filippo; una risposta ispirata a quanto già egli aveva ascoltato da Gesù, il quale alle domande di Andrea e di Giovanni aveva detto semplicemente: “Venite e vedrete” (Gv 1,39). Anche Filippo – come se avesse già assimilato lo stile del nuovo Maestro – al suo conterraneo che comincia a fare obiezioni propone soltanto un’esperienza diretta: “Vieni e vedi” (Gv 1,46).

E forse questo è l’insegnamento più prezioso di tutta questa pagina del quarto vangelo. Quando si tratta della sequela personale di Cristo, quando si tratta di scelte personali irrevocabili, non serve molto indugiare nella molteplicità dei ragionamenti né attardarci nelle sottigliezze e nell’ascolto dei pregiudizi, degli atteggiamenti di sufficienza, magari delle ironie così ricorrenti nella mentalità mondana (anche Natanaele è ironico e schiavo di pregiudizi: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”).

“ Vieni e vedi”. Ciò che è necessario e decisamente fruttuoso è il confronto leale, aperto, coinvolgente con il Signore Gesù, la sua personalità, il suo fascinoso mistero, il suo cuore d’uomo, la sua parola sconcertante perché divina, la sua sfida agli idoli culturali, il suo modo di vivere e di offrirsi.
Chi si accosta così a Cristo e ne sperimenta la concreta ricchezza umano-divina, a un certo momento ha la percezione irrefragabile di essersi finalmente imbattuto nella chiave dell’enigma esistenziale, nel fatto risolutivo dell’aggrovigliata problematica umana; di quella problematica umana ineludibile che, se affrontata soltanto attraverso le analisi teoretiche, le indagini culturali, l’audizione delle varie e contradditorie sentenze, finisce coll’ingarbugliarsi sempre più.

Un’esperienza globale, intensa, sostanziosa del Signore Gesù, del suo Vangelo, del comportamento ispirato dall’amore che egli propone, della piena e cordiale appartenenza ecclesiale, è ciò che può condurci alla comprensione tanto del mistero luminoso di Dio quanto dell’arcano dolente dell’uomo. Come sta scritto: “Chi fa la verità, viene alla luce” (Gv 3,21).

24/08/2003
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