IL CENTUPLO ADESSO E LA VITA ETERNA DOPO

Il titolo della nostra riflessione è la citazione di un detto di Gesù,

riferito da tutti i tre sinottici in forma sostanzialmente uguale. Lo cito  nella

formulazione di Marco: «In verità vi dico non c’è nessuno,

che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o campi a causa

mia e a causa del Vangelo, che non riceva il centuplo adesso, in questo tempo,

in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, con persecuzioni, [Lc

dice: che non riceva molto di più in questo tempo] e la vita eterna

nel secolo che viene» [Mc 10,29-30; parall. Mt 19,28-29; Lc 18,28-30].

è necessario notare che il detto di Gesù è la risposta

ad una precisa domanda di Pietro: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e

ti abbiamo seguito!» [Mc 10,28; Mt aggiunge: che sarà dunque per

noi?].

Il significato dunque della risposta di Gesù è chiaro. Chi segue

Cristo, anche se questa sequela esige rinunce gravissime, riceve molto di più di

quanto possedeva prima di quella decisione: riceve il centuplo! Ed è sul

contenuto di questa risposta di Gesù che voglio questa sera riflettere

con voi.

Dividerò la mia riflessione nei seguenti punti che formulo con domande:

1) che cosa significa “seguire Cristo”? 2) perché chi segue

Cristo riceve il centuplo subito? Farò poi alcune riflessioni conclusive.

Che cosa significa seguire Cristo.Inizio la mia risposta partendo dalla descrizione di due esperienze umane.

Prima esperienza: l’arrivo del primo figlio a una coppia sposata. Che

cosa succede quando ad una coppia nasce il primo bambino? è sostanzialmente

l’ingresso e l’instaurarsi di una nuova presenza dentro la loro

vita. E’ arrivata una nuova persona! Di conseguenza la vita dei due sposi

non può più essere come prima: ormai devono “fare i conti” con

lui. Abitudini che forse duravano da anni dovranno essere cambiate. Il lavoro

acquista un nuovo senso: lavorano soprattutto per lui, per assicurare il suo

futuro. Potremmo dire che la loro giornata viene vissuta e la loro vita interpretata

in larga misura alla luce della presenza del bambino.

Seconda esperienza: un giovane si innamora di una ragazza o viceversa. Che

cosa succede nella vita del giovane/della giovane? Ancora una volta: una persona

entra con inaspettata potenza nella vita. C’è come un «urto»:

i latini parlavano di «passio», di passione. E’ un avvenimento

che accade e che ti colpisce: ne sei «preso». Ed in modo tale che

tutte le energie – intelligenza e libertà – ne sono coinvolte,

perché la persona intuisce che le si apre davanti una nuova possibilità di

esistenza. E’ una presenza carica di attrattiva che la spinge ad una

risposta.

Queste due esperienze così umane ci possono aiutare a capire cosa significa

seguire Cristo.

Qualcuno potrebbe pensare: seguire Cristo significa vivere come Lui ci ha

insegnato a vivere. Significa cambiare la propria vita in senso morale. E pensiamo

alla vita immorale e sregolata di una persona che decide di … rientrare

nell’ordine della legge morale. Pensare la sequela di Cristo in questi

termini non è sbagliato. Anzi, come vedremo, questo modo di pensarla

ne coglie un aspetto imprescindibile. Ma non è questo il nucleo centrale.

Per convincervene  andate a leggere con attenzione due pagine bibliche;

Lc 19,1-10 [l’incontro di Gesù con Zaccheo] e Fil 3,7-14. Voi

costatate un fatto un po’ singolare. E’ vero che Zaccheo cambia

la sua vita dal punto di vista morale: decide non solo di non rubare più,

ma restituisce il mal tolto con una misura superiore a quella richiesta dalla

legge. Ma se guardiamo alla storia di Paolo, le cose non stanno proprio in

questi termini. Egli, prima dell’avvenimento decisivo [quello appunto

che egli descrive nella pagina citata], non teneva – a differenza di

Zaccheo – condotte moralmente riprovevoli. Anzi, egli dice di se stesso

che era “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza

della legge” (Fil. 3,6b). Dunque: si può essere malfattori e ladri,

come Zaccheo, e non essere ancora alla sequela di Cristo [e questo è abbastanza

facile da capire]; si può essere persone oneste e molto giuste, come

Paolo, e non essere ancora alla sequela di Cristo [e questo è abbastanza

difficile da capire]. E non  è neppure sempre vero che i secondi

siano più vicini al Vangelo dei primi. Gesù una volta disse a

chi era o si riteneva giusto: “i pubblicani e le prostitute vi precederanno

nel Regno di Dio”.

Partire dalla considerazione morale dell’esistenza non è la partenza

migliore per capire la sequela di Cristo. Ed allora che cosa significa seguire

Cristo?

Qualcuno a questa domanda potrebbe essere tentato di rispondere: cambiare

il proprio modo di pensare, di valutare le cose cioè, e di interpretare

la realtà. Ancora una volta, devo dire che sicuramente non esiste vera

sequela senza questo cambiamento. Ma ancora una volta non è questo il

nucleo centrale. Abbiamo anche al riguardo un esempio nella storia della Chiesa.

La conversione di Agostino, come è noto a tutti, fu lunga ed assai faticosa.

Egli dovette superare due enormi difficoltà [assai attuali!]: la difficoltà di

una visione materialista; la difficoltà di una visione fatalista. Egli

pensava che esistessero solo realtà materiali; egli pensava, da manicheo

quale era, che l’uomo quando agiva male non fosse libero. Egli superò questi

due formidabili errori soprattutto attraverso la lettura di libri neo-platonici.

Fu la sua conversione? Non proprio. Essa può accadere quando incontra

Ambrogio che, scrive egli stesso, lo “accolse come un padre e gradì il

mio pellegrinaggio proprio come un vescovo” (Confessioni V, 13,23).

Ed allora che cosa significa seguire Cristo? Che cosa succede a Zaccheo di

così diverso dalla sua vita ordinaria? Incontrò Cristo che chiese

di entrare in casa sua. Che cosa è successo a Paolo di così straordinario

che cominciò da quel momento a considerare una perdita tutto ciò che

fino a quel momento poteva essere per lui un guadagno? Abbiamo due testi che

in maniera molto suggestiva ce lo dicono. Il primo dice: “E Dio che disse:

rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere

la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2

Cor. 4,6). L’altro testo dice: “Ma quando colui che mi scelse fin

dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di

rivelare a me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo ai pagani… “ (Gal.

1,15-16). Ha avuto un incontro con Cristo nel quale egli, Paolo, ha visto la

Presenza: la presenza stessa di Dio, colla gloria del suo amore. Il profeta

(Is. 9,1) aveva preannunciato: “Il popolo che camminava nelle tenebre

vide una grande luce: su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce

rifulse”. Nella vita di Paolo questa parola si è compiuta: una

luce si è accesa nella sua esistenza perché ha incontrato Cristo;

ha visto in Lui la presenza stessa di Dio che si prende cura dell’uomo.

Per capire meglio che cosa significa qui la parola «incontro», è necessario

tener presente che quando esso accade veramente, sono le radici  stesse

della nostra esistenza ad essere coinvolte. E quali sono le radici della nostra

vita? Che cosa nutre il nostro quotidiano esistere? Che cosa ci fa lavorare,

ci fa studiare, ci fa prendere moglie/marito, ci fa desiderare e pensare? Come

ha visto bene Agostino, è il desiderio di beatitudine, di pienezza di

essere. Le nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla

fine ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che

sia tale da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine,

al nostro sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza.

Solo una cultura disumana e superficiale come in larga misura è la nostra

poteva tentare di estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli

che è possibile ben navigare anche se si naviga sempre a vista senza

avere nessun porto a cui dirigersi; che è possibile ben camminare anche

senza sapere dove andare.

L’incontro con Cristo pesca in questa profondità dell’essere:

Cristo è «sentito» come la risposta vera e totale al proprio

desiderio illimitato di beatitudine: «mio Signore e mio tutto» [pregava

S. Francesco]. Zaccheo ha capito che non nel denaro, ottenuto con tutti i mezzi,

era la risposta al suo desiderio, ma la risposta era Lui, lo stare a tavola

con Lui. Paolo ha capito che la glorificazione di Dio non consisteva in primo

luogo nello sforzo morale dell’uomo, ma che tutta la sua felicità ormai

era nel conoscere Lui, di essere con Lui. Pietro ha capito che non sarebbe

più riuscito ad andare da nessun’altra parte, poiché sapeva

che solo Lui aveva parole di vita eterna.

L’incontro con Cristo è un fatto che ha tutti i connotati propri

dei fatti che accadono in questo mondo: in un tempo preciso ed in un luogo

determinato; mentre Zaccheo è su una pianta, mentre Andrea e Pietro

stavano pescando, mentre una donna samaritana va ad attingere acqua al pozzo,

e così via. Ma nello stesso tempo è un fatto che è imprevedibile

[Zaccheo mai si sarebbe aspettato!], incalcolabile [proprio nel momento in

cui Paolo andava ad imprigionare i cristiani!], non programmato [la samaritana

faceva ciò tutti i giorni] ma così corrispondente alle attese

più profonde della persona da farle esclamare: «tardi ti ho amato,

o Bellezza tanto nuova e tanto antica!».

Ed ancora. L’incontro con Cristo è improvviso perché Egli

solo ne ha l’iniziativa: il primato della grazia! Ma nello stesso tempo,

esso mette in movimento tutta la persona incontrata. L’apostolo Paolo

lo esprime in modo stupendo: “mi sforzo di correre per conquistarlo,

perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo”.

E’ una persona protesa verso il futuro, un futuro che è la pienezza

della comunione con Cristo. Ma questo movimento è la risposta ad un’esperienza

che sta all’origine della corsa: è stato afferrato da Cristo.

Ecco: questa è la sequela di Cristo. E’ questo incontro con Cristo.

Il non potere più vivere senza di Lui; il vivere ormai di Lui.

Il centuplo subito.Zaccheo, Paolo, la Samaritana, Agostino hanno ricevuto il centuplo subito.

Né poteva essere diversamente. Ciò che ora cercherò di

mostrarvi è che la presenza di Cristo nella vita di una persona eleva

la sua umanità alla centesima potenza.

La presenza di Cristo, frutto dell’incontro con Lui e della sua sequela,

fa nascere in pienezza nell’uomo l’io. Nessuno può dire

con la forza e la verità con cui lo dice chi segue Cristo: «io».

Tutta la dignità dell’uomo consiste nel suo essere persona. Questa

dignità è propria del suo stesso essere; appartiene ad ogni uomo

dal momento del suo concepimento;  è uguale in tutti e ciascuno.

Da questo punto di vista non ci sono “gradi”.

Tuttavia la consapevolezza del proprio essere persona e quindi della propria

dignità; l’intensità con cui una persona pronuncia la parola «io»,

ammette gradi; ammette «più o meno».

Vorrei prima di procedere farvi notare che non stiamo facendo un discorso

astratto, fuori dalla vicenda propria di ciascuno di noi. La persona dice in

verità la parola «io» nell’atto libero: è nella

scelta e nella decisione libera che si misura la forza con cui una persona

può dire «io». Persona, soggettività, libertà sono

tre dimensioni che costituiscono l’esistenza umana.

Se guardiamo con attenzione alla nostra esperienza quotidiana, noi ci rendiamo

conto che la nostra è una libertà “di fronte a …”.

Sono libero di fronte alla persona che mi chiede di aiutarla, se aiutarla  o

non. Sono libero di fronte alle cose di cui dispongo, se usarle o non o perfino

di disfarmene. Sono libero di fronte al mondo; sono libero di fronte alle persone.

La libertà dimora dentro alla relazione, al rapporto dell’io con

altro/altri da sé. Essa si esercita nel confronto con altro/altri dalla

persona libera.

Tuttavia a guardare le cose più in profondità, noi scopriamo

una dimensione più profonda della nostra libertà. Noi siamo liberi

anche, anzi soprattutto e più profondamente nel confronti di noi stessi. è mediante

le mie scelte libere che io divengo me stesso; che io configuro il volto della

mia esistenza; che io divengo padre-madre di me stesso. Essere liberi significa

decidere di se stessi. è per questo che S. Kierkegaard definisce l’io

dell’uomo nel modo seguente: «un rapporto che si mette in rapporto

con se stesso e mettendosi in rapporto con se stesso si mette in rapporto con

altro» [La malattia mortale. Parte prima, A/A; in Opere, ed. Sansoni,

Firenze 1972, pag. 625].

Ritorniamo ora alla nostra domanda: perché l’incontro con Cristo

eleva alla massima potenza l’io? Perché decidendo di seguire Cristo,

la persona umana decide di se stesso in ordine al suo destino eterno.

Si pone nel tempo come un io destinato all’eternità.

Possiamo comprendere tutto questo riflettendo su un dialogo fra Gesù e

i discepoli avvenuto dopo la moltiplicazione del pani [cfr. Gv 6,67-70].

è un momento altamente drammatico. La folla aveva abbandonato Gesù perché non

volevano un “cibo che dura per la vita eterna”, ma si accontentavano

dei pani che saziano per la vita terrena. Anzi, più precisamente: non

accettavano che il “cibo che dura per la vita eterna” fosse la

persona di Cristo, Lui in carne ed ossa.

«Disse allora Gesù ai Dodici: forse anche voi volete andarvene?». è la

domanda fatta alla loro persona; è la provocazione rivolta alla loro

libertà perché prenda una decisione: andarsene o rimanere. Una

decisione nei confronti di Cristo, se rimanere con lui o “tirarsi indietro”.

Ma questa decisione da prendere nei confronti di Cristo era una decisione riguardante

se stessi: la vita cambiava, il proprio io si sarebbe configurato in modo diverso

a seconda della scelta di andarsene o di rimanere.

«Gli rispose Simon Pietro: Signore, da chi andremo? tu hai parole di

vita eterna». La ragione della decisione di Pietro di non andarsene è motivata

dal suo desiderio di “vita eterna”; dalla sua volontà di

non decurtare la misura di questo desiderio, costringendo il proprio io dentro

al tempo. A Pietro non bastava il pane che era stato moltiplicato così come

alla Samaritana l’acqua del pozzo. L’uno e l’altro desideravano

un “pane che dura per la vita eterna” e un’acqua bevendo

la quale non si ha più sete. E poiché solo Cristo ha parole di

vita eterna, l’io che vuole essere eterno non si tira indietro da Cristo.

Come potete osservare, nel confronto con Cristo  l’io è chiamato

a decidere la misura del proprio essere; è provocato a decidersi se

rendersi completamente un io finito oppure se volere essere un io eterno. Ogni

scelta libera è decisione circa se stessi. Posto di fronte al Cristo,

l’io è chiamato a decidersi in modo supremo: se essere per sempre

o essere per la morte. Ed allora dice [come Pietro]: tu hai parole di vita

eterna. O come la samaritana: «dammi di quest’acqua, perché non

abbia più sete».

L’uomo che non vuole essere un io eterno, finisce per «passare

la sua vita nella temporalità, essere l’uomo che appare, essere

elogiato dagli altri, onorato e stimato, dedito a tutti gli scopi temporali.

Ciò che si chiama mondanità consiste tutta in tali uomini, i

quali per così dire vendono la loro anima al mondo. Essi adoperano le

loro facoltà, ammassano quattrini, esercitano attività mondane,

fanno calcoli prudenti e così via, sono forse nominati dalla storia;

ma non sono se stessi, non hanno, in senso spirituale, nessun io per amor del

quale possano arrischiare tutto, nessun io davanti a Dio» [S. Kierkegaard,

ibid., pag. 637].

L’elevazione dell’io che avviene nella sequela di Cristo coinvolge

i due fondamentali dinamismi dell’io stesso: la ragione e la volontà.

Non posso dilungarmi. Mi limito ad alcuni accenni essenziali.

L’intelligenza e la ragione umana viene “centuplicata” perché resa

capace dalla fede di comprendere in senso ultimo, il «logos» intimo

di tutto ciò che esiste. La ragione senza la fede è uno strumento

conoscitivo incompleto. L’incontro con Cristo genera la cultura cristiana.

La volontà viene resa capace di amare come Cristo ha amato. Acquista

la libertà del dono. L’incontro con Cristo genera la carità cristiana.

Dà origine ad una convivenza nuova fra le persone.

Un Padre della Chiesa ha scritto: «Che cos’è questo nuovo

mistero che mi riguarda? Io sono piccolo e grande, umile ed elevato, mortale

ed immortale, terreste e celeste. … Bisogna che io sia messo nel sepolcro

con Cristo, che con Cristo risusciti, che sia coerede con Cristo, che divenga

figlio di Dio, che io stesso venga chiamato Dio … Ecco che cosa vuol

dire un Dio che si fa uomo per noi e che per noi si fa povero per risuscitare

la carne e salvare l’immagine e ricreare l’uomo perché diventiamo

tutti una cosa sola in Cristo» [S. Gregorio Nazianzeno, Orazione 7,23;

in Tutte le orazioni, Bompiani ed., Milano 2000, pag. 275].

Il grande cappadoce descrive il vero dramma della libertà umana posta

come è sul crinale fra mortalità ed immortalità, effimero

ed eterno, il “poco” ed il “tutto”. As essa è affidata

la decisione se limitare l’io dentro alla prima possibilità o

elevarlo alla pienezza. Gregorio descrive la sequela di Cristo nel modo più concreto: «bisogna

che io sia messo…».

Nell’incontro con Cristo l’uomo riceve subito il centuplo perché,

come scrive Tommaso, vive una certa “inebatio vitale aeternae”;

vive in pienezza il tempo perché in esso già respira l’eterno.

ConclusioneVorrei concludere ricordandovi come ha vissuto il bisogno di incontrare Cristo

uno dei più radicali nichilisti dei nostri tempi, L. Pirandello. Egli

ha scritto una novella di struggente bellezza, struggente per il bisogno dell’incontro

che questa pagina esprime: Ciaula scopre la luna. La vicenda è nota:

Ciaula è più un animale che un uomo, costretto come è a

lavorare sempre, spesso anche di notte, nella miniera. Ma una notte, distrutto

dalla fatica, era appena sbucato dal buio della miniera: “Restò –

appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle… Grande,

placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia

la Luna… Estatico cadde a sedere sul suo carico… E Ciaula si

mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande

dolcezza che sentiva… per lei non aveva più paura, né si

sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore” [Novelle

per un anno, volume secondo – tomo I, Mondatori ed. Milano 1996, pag. 463-464].

La notte piena di stupore di Pirandello ricorda l’esperienza di Paolo: «e

Dio che disse: “rifulga la luce dalle tenebre”…».  L’ateo

Pirandello si incontra con l’apostolo Paolo nell’esperienza dello

stesso Mistero, che Paolo vide in un volto umano, quello di Cristo.

Termino rivolgendomi in particolare a voi giovani: correte il rischio di immergervi

dentro alla Chiesa che vi educherà alla vera libertà, perché dentro

essa voi riconoscerete che Cristo è tutto ciò che voi desiderate.

E la vostra notte sarà piena di stupore, perché sarà piena

di grazia.

23/11/2004
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