Meditazione al Rosario del 3 aprile

Bologna, Basilica di San Francesco

Pregare. Lo sappiamo fare tutti poco. Tutti rivolgiamo sempre, come i discepoli, anche dopo tanti anni, la stessa domanda al Signore: “Insegnaci a pregare”. Non è questione di tecnica, ma soprattutto di fiducia. Come nel Vangelo. Inizia a pregare, in quella bellissima richiesta, l’ultima della sua vita e che tutta la riassume, un povero cristo rivolto ad un altro morente, richiesta disperata e tenerissima: “Ricordati di me nel tuo Regno”. Ricordati. E basta. Ecco cos’è la preghiera.

E tutte le preghiere degli uomini a Gesù non sono di maestri di parole, ma di uomini che si rivolgono come possono. Il fariseo aveva molte parole, il pubblicano no, sapeva solo ripetere: “Abbi pietà di me, peccatore”. Qualcuno prega con la sua stessa condizione che diventa preghiera e che Gesù fa sua: “Vuoi guarire?”, chiede a quell’uomo che da tanti anni era paralizzato. Altri pregano, ma non di vedere subito il risultato, oggi, ma di sapere che Lui ci pensa, che Lui ascolta: “Dì soltanto una parola”.

E questa era la fede più grande. Per altri ancora la preghiera è solo un gesto, come quella donna che gli chiede la guarigione toccando il mantello o quell’altra che pregava senza dire una parola, ma piangendo e asciugando con il suo balsamo per ricevere il balsamo della misericordia e del perdono. L’apostolo parla dei gemiti inesprimibili, quelli che sono nascosti nel profondo della nostra anima. Altri gridano, con tutto il fiato, tanto non sanno pregare e sembra eccessivo anche ai discepoli che non volevano essere disturbati o più attenti ai modi che alla sostanza, come i farisei.

Pietro prega quando è travolto dalle acque, nel bisogno “Signore salvami”. Preghiamo soprattutto perché il Signore sia nel nostro cuore, niente ci possa separare da Lui e sia vicino a chi è abbandonato, perché la sua presenza ci renda forti e la sua forza pieghi la durezza degli uomini e vinca la forza del male. E la preghiera è tutt’altro che rinuncia, anzi. Chi prega sceglie di non arrendersi, segue Gesù che lo manda a lavorare nella messe, e capisce che anche Gesù prega, prega noi, perché anche lui ci invita, al contrario, a fare, a seguirlo, ad amare come Lui e nel suo nome.

Chi prega fa spazio all’amore di Dio e lotta contro il male perché la vita va difesa, amata, sostenuta, portata a pienezza. La preghiera fa sua la realtà, per certi versi ci apre ad essa, ci fa entrare nel cuore di tanti che facciamo entrare nel nostro cuore. Pregare non è solo una riflessione, anche altissima, ma tra sé e sé. E’ molto più povera di una raffinata filosofia, ma è molto più profonda di tante riflessioni, perché si misura con il mistero di amore che è Dio, va oltre il nostro limite.

La preghiera ha un Tu che ascolta, cui si rivolge, che risponde, che diventa una presenza. Un Tu che ha un nome, Cristo, che ci fa conoscere un Padre, che ha uno Spirito che ispira le nostre anime liberandole dalla paura e dall’inedia. Questa preghiera non finirà dopo questi giorni, se entra nel nostro profondo, se ne capiamo il bisogno che abbiamo, perché finisce il problema ma avremo sempre bisogno di pregare, del suo amore: diventerà canto di lode, richiesta insistente per tante altre sofferenze, per le vittime di tanti virus di inimicizia e di morte.

La preghiera, sempre segnata dalla nostra debolezza diventerà una compagnia dolcissima e intima nelle nostre giornate. Un “rito”, appunto, così importante perché ci dona il senso di una presenza. Ma un rito che incontra un Tu, ne segna la relazione e ne celebra la fiducia, da una parte e dall’altra, l’impegno dell’uno e dell’altro, mio e di Dio. “Altissimo glorioso Dio, illumina le tenebre de lo core mio. Et dame fede dricta, speranza certa e carità perfecta, senno e cognoscemento, Signore, che faccia lo tuo santo e verace comandamento. Amen”.

 

03/04/2020
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