Abramo non si rassegna, non vuole accettare la vita senza cambiarla. Il contrario della speranza non è la disperazione che, in fondo è una ricerca drammatica di futuro alla quale non dovremmo mai lasciar arrivare nessuno. Disperati sono quei bambini profughi che nuotano nell’immensità del mare e che chiedono solo salvezza, che qualcuno li salvi, si accorga di loro. Il contrario della speranza è la rassegnazione, stoltamente sicura o pigramente adagiata.
La rassegnazione persuade che stiamo bene se non facciamo nulla e, soprattutto, che non si può far nulla, che è più saggio lasciar perdere. La rassegnazione spegne la speranza, fa arrendere alla prima difficoltà e alla fine nutre il provvidenzialismo, che non ha niente a che fare con la speranza e neppure con la provvidenza.
Quest’ultima c’è, anzi Gesù ci chiede di affidarci al suo amore che non ci lascerà mai, ci riveste sempre, ma che richiede che noi la sappiamo cercare e riconoscere. Il mondo non vuole pagare il prezzo della speranza e, in fondo, cade nella convinzione che il male è più forte e che non si può sconfiggere. Il male è un imbroglione, prima appare innocuo, poi terribile e vittorioso, tanto che pensiamo non possa essere sconfitto. La speranza sa, invece, che i problemi possono essere affrontati e risolti. Abramo intercede e non si rassegna. La preghiera accende sempre la speranza, la nutre e la esprime! Non è l’ultima scelta quando non possiamo più fare nulla, ma è la prima e ci permette di combattere il male e le sue complicità.
Abramo cerca una giustizia che non colpisca tutti e vuole, anzi, salvare tutti, anche i colpevoli. Gesù sarà l’unico giusto che darà la sua vita per tutti, per i peccatori, perché non muoiano ma cambino e la vita la abbiano in abbondanza, cioè piena ed eterna. Oggi purtroppo i figli di Abramo si uccidono l’un l’altro, uccidono chiunque solo perché nemico, e quindi tutti diventano nemici, anche gli innocenti, i giusti. Ed è la tragedia della violenza e della guerra, per cui si uccidono bambini ebrei e arabi solo perché ebrei e arabi. Abramo non vuole che siano puniti in maniera indiscriminata tutti gli abitanti: “Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli”.
Abramo chiede il perdono per tutta la città: “E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?” (Gn, 28 v. 24b). Diceva Papa Benedetto XVI: “Bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia superiore, offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio, e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti”. Ma ci saranno cinquanta giusti? Ci sono oggi persone che si schierano per la pace, che difendono la vita di chiunque e rifiutano la violenza, persone che non pensano secondo l’odio, che non fanno crescere l’inimicizia, che sperano che gli uomini imparino a vivere senza uccidersi? Siamo giusti davanti a Dio? Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito. Non sappiamo perché si fermi a dieci.
Era il numero che indica il nucleo comunitario minimo per la preghiera pubblica ebraica. Essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Liberare il mondo dal male e restituirlo a se stesso è questa la speranza di Gesù e dei cristiani. Liberare dal male e trovare quello che cerchiamo, vita e vita piena. Ma i giusti devono essere dentro la città, dentro la realtà piena di problemi, conseguenza del peccato e delle complicità degli uomini. È lì che i giusti possono essere seme di bene che può risanare e ridare la vita, motivo di salvezza per tutti. Che ognuno di noi sia seme di bene, e facciamo di tutto perché le nostre città vivano, non siano schiacciate dalla solitudine, dalla violenza! Bisogna che Dio diventi quel giusto nel mistero dell’Incarnazione fino ad arrivare a dare la vita per i peccatori e a perdonarli e a intercedere per coloro che «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
È la speranza che Gesù ci affida: il male non vince e l’amore è più forte del male. Dobbiamo sempre imparare a pregare. Ma possiamo farlo anche ripetendo le parole che Dio ci regala, e imparando da Lui a rivolgerci non ad un’entità diffusa e senza volto ma ad un Padre. Per questo Gesù ci chiede di pregare e di credere che la preghiera sarà esaudita, e di vivere sapendo che è già ascoltata. Preghiera e speranza sono unite insieme. “Io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Il Padre è nostro sempre, anche quando siamo soli, e usiamo il plurale perché preghiamo uniti al noi della comunità, lo capiamo e lo amiamo, anche se siamo soli.
La nostra voce s’intreccia con quella della Chiesa, perché chi prega non è mai solo. La speranza è insistenza non colpo di fortuna, richiede sempre di affrontare il male e la lotta contro il nemico. La preghiera è vita vera che cambia. La preghiera ci aiuta a non rassegnarci e diventa vita, nutre la solidarietà, diventa amore fraterno e vita vera. In un mondo disperato che si costruisce tanti inferni di violenza, di guerra, di solitudine, possiamo essere i giusti ed essere noi tutti fratelli di tutti perché tanti oggi possono vedere la speranza del mondo nuovo che Dio vuole, e che inizia a far vivere donandoci il suo amore.
