messa del venerdì santo

Bologna, Cattedrale

L’evangelista Giovanni ancora una volta ha dipinto davanti ai nostri occhi la scena più tragica e decisiva della storia. In essa Gesù – afferrato dalle potenze del male, che dominano la vicenda del mondo, e inesorabilmente condotto fino a morire come un malfattore tra malfattori – si trova circondato da una folla di personaggi che innegabilmente ci offrono una interessante selezione di tipi umani.
Nel dramma compare prima di tutti Giuda, apostolo e traditore; e compare come un enigma. A ben guardare, ci riesce incomprensibile come mai egli sia stato scelto tra i Dodici proprio da colui che conosceva bene ciò che c’è nel cuore dell’uomo (cf Gv 2,35); come però è incomprensibile in fondo anche la nostra gratuita e immeritata chiamata alla vita eterna e al Regno.

Ed è inspiegabile psicologicamente il suo atto di perfidia; ma non è meno inspiegabile ogni nostro peccato e ogni nostra ingratitudine nei confronti dell’amore del Padre.
Nel dramma poi è entrato Simon Pietro, il più audace e il più pavido tra i discepoli: così audace da assalire le guardie del sinedrio con la spada in pugno; e così pavido da celare la sua conoscenza di Cristo di fronte alle insinuazioni di una portinaia e di un servo. Spavaldo e vile, come spesso siamo noi. Spavaldo e vile; meno però di qualche cristiano che è ardimentoso e implacabile quando accusa la Chiesa, l’inerme Sposa del Signore, ma è tumido di fronte al mondo e ben attento a non sfidarne la cultura dominante.

Intervengono quindi i sommi sacerdoti i quali, in nome di una religione ingabbiata in preconcetti ideologici, arrivano con la loro condanna al vertice dell’empietà. Interrogano sì il Signore circa la sua dottrina, ci ha detto il Vangelo (cf Gv 18,19); ma solo per darci un chiaro esempio di indagine teologica sterile e controproducente, perché compiuta senza onestà intellettuale e senza amore.
E c’è Pilato, uomo apprensivo e magistrato irresoluto; che, quando poi si decide, si decide per la parte sbagliata perché lascia prevalere i suoi interessi e la salvaguardia del suo quieto vivere sul suo doveroso servizio alla giustizia. Egli si domanda sì: “Che cosa è la verità?” (Gv 18,38); ma non per cercarla sul serio, bensì per esprimere la sua diffidenza verso ogni sincera ricerca e ogni conclusione certa. E così si manifesta come un tipico rappresentante del “pensiero debole”; quel “pensiero debole” che sotto forme tolleranti e miti, finisce spesso col farsi complice e istigatore del nichilismo e della disperazione.

Ci sono anche nel racconto i “discepoli notturni” del Signore, come Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, che simpatizzano con lui ma “di nascosto, per timore dei Giudei” (Gv 20,38): prendono coraggio ed escono allo scoperto solo adesso che Gesù è morto e la battaglia è finita.
Davvero non abbiamo di che essere fieri del campionario di umanità che si incontra lungo l’itinerario che dal Getsemani conduce Gesù alla collina del Cranio.
Per fortuna, a riscattare l’onore della nostra stirpe ci sono le donne: in esse l’affetto schietto, profondo, disinteressato vince ogni paura, infonde vigore alla loro nativa debolezza e, nell’ora dell’angoscia, rende incrollabile la loro generosa fedeltà.

E c’è – archetipo e modello di ogni creatura femminile – Maria, la madre, la Nuova Eva, la prima del popolo dei redenti, che attraverso la sofferenza del suo cuore immacolato si associa al Nuovo Adamo nell’opera del nostro riscatto e della rinnovazione del mondo. Di più, nella persona del “discepolo che Gesù amava” (cf Gv 19,26) Maria ci riceve tutti in consegna e ci accoglie come figli da custodire contro ogni pericolo.
Alla sera di quel Venerdì santo, dopo che tutto è stato compiuto, dopo che il corpo esanime di Gesù è stato messo in un sepolcro incontaminato (Gv 19,41: “nel quale nessuno era stato ancora deposto”), dopo che tutti i vari personaggi con i loro rimorsi o con i loro rimpianti si sono ritirati nell’intimità delle loro case, sull’altura del Calvario, – nera di contro alla luce agonizzante del tramonto – rimane solo la croce, cosparsa del sangue dell’unico Salvatore del mondo, il sangue “dalla voce più eloquente di quello di Abele” (Eb 12,24).

Sembra la prova della sconfitta estrema e irreparabile, ed è invece l’emblema della vittoria definitiva dell’uomo.
La croce era il mezzo dell’estromissione totale di un colpevole dal consorzio civile; e adesso rappresenta invece la fine di ogni inimicizia del creato con il suo Creatore. Il sigillo della punizione più atroce è diventato il segno di un perdono, capace di annullare ogni nostra possibile malvagità. Dallo strumento di morte la linfa della vita divina ritorna a irrorare la terra.
Perciò questa sera noi l’adoriamo con l’animo colmo di commozione e di riconoscenza.

E nell’adorazione della croce vogliamo riscoprire la gioia per la salvezza che ci ha raggiunto e la fierezza per l’identità cristiana che ci è stata donata.
Con il segno della croce siamo stati segnati nel battesimo e siamo diventati appartenenza di Cristo, messi al riparo dalle insidie di Satana.
Con segno della croce vogliamo marcare ogni nostro risveglio al mattino, ogni nostro stanco coricarci alla sera, ogni nostro lavoro, ogni nostra allegrezza, ogni nostro dolore.
Dal momento che la croce è il sigillo del Re – di colui che è “il Primo e l’Ultimo e il Veniente” (cf Ap 1,17-18) – niente va perduto di ciò che dalla croce è segnato.

28/03/1997
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