messa dell’ Epifania

Bologna, Cattedrale

L’Epifania è la festa del Dio che si rivela e si lascia raggiungere dall’uomo; si capisce, dall’uomo che non abbia rinunciato a cercarlo con totale onestà intellettuale e con la coerenza nel bene della sua vita.

L’Epifania ha dunque in sè un messaggio di consolazione e di gioia: a nessun uomo è negata la vera e definitiva salvezza, di quanti in buona fede e operosamente anelano ad arrivarci. Ma contiene anche un ammonimento: ci si deve guardare dal rischio – implicito nella nostra prerogativa di creature libere – di rendersi spiritualmente impermeabili all’amore divino che ci vuol raggiungere.

I Magi sono una splendida dimostrazione che si può attingere la ricchezza salvifica, anche partendo da posizioni culturalmente e religiosamente molto lontane. Ma Erode e i sacerdoti sono un malinconico esempio di come possa andare fallita la conquista della verità che riscatta e rinnova, da parte di quelli che sembrano i più vicini e i più favoriti.

Erode è pieno di orgoglio, è inquinato da cinismo politico, è facile a decisioni crudeli. Aveva sì ricostruito il tempio degli Ebrei, ma non per giovare al culto di Dio, bensì per propiziare quello della sua personalità e per consolidare la fama della sua grandezza.

Alla notizia che è nato il Messia, atteso da tutto il popolo d’Israele, chiede informazioni precise; ma non, come dice, per andare ad adorarlo, bensì per sopprimerlo perchÈ paventa in lui un pericoloso rivale. Del resto, noi apprendiamo dalla storia che per la stessa furibonda gelosia egli aveva già ucciso addirittura alcuni dei suoi stessi figli.

Da personaggi di questo genere, che sembrano applicare a sÈ derubandolo a Dio, il primo e fondamentale comandamento della Legge, e dicono in cuor loro: “Io sono, e non c’è nessuno fuori di me” (cf Is 47,10), colui che è l’Unico, il Sommo, il Santo non può lasciarsi trovare.

In Erode possiamo essere raffigurati almeno un poco anche noi, quando ci prende l’assurda paura di colui che ci viene a salvare. È la paura che il Signore, essendo il Re dell’universo e il Vindice di ogni giustizia, ci spodesti nelle nostre pretese di decidere noi, secondo il nostro piacere e il nostro interesse, che cosa sia buono e che cosa sia cattivo. È la paura di non essere più i padroni di noi stessi e i giudici insindacabili delle nostre azioni.

Che è poi la paura di imbatterci in una grandezza che ci ridimensioni, in un amore troppo esigente e inquietante per la nostra pusillanimità.

I sommi sacerdoti e gli scribi del popolo – come compaiono nella narrazione di Luca – sono dotati di un’ottima istruzione religiosa. Interrogati, danno la risposta giusta: il Messia regale, come Davide da cui discende, deve nascere a Betlemme di Giudea; a Betlemme, cioè a soli dieci chilometri dalla città dove risiedono. Eppure il Vangelo non ci dice che si siano scomodati per recarsi a verificare lo straordinario annuncio che era atteso dai secoli.

Hanno, come si vede, una religione dotta e illuminata, ma separata dalla vita, senza adeguato influsso sul comportamento. Le loro nozioni sono ineccepibili, ma non diventano principio dell’agire. Conoscono la strada, ma schivano la fatica di percorrerla: sono simili in questo alle pietre miliari che, restando assolutamente immobili, indicano agli altri la direzione e la distanza.

Di solito, per la verità, i nostri contemporanei – anche quelli colti, eloquenti, famosi – si connotano piuttosto per una incredibile sprovvedutezza circa i contenuti della fede cristiana, della quale pur parlano con disinvoltura e magari con sufficienza. Ma c’è anche il caso opposto: può capitare – può capitare anche a noi – che si conoscano tutti i Libri Sacri, i documenti conciliari, le opinioni dei più rinomati teologi, senza che dal cuore nasca mai un palpito di amore caldo e fattivo per il Signore Gesù, per la Chiesa sua Sposa, per i fratelli che sono la sua immagine viva.

Ma le parole – anche le più luminose e sante – da sole non ci conducono alla salvezza: “Non chi mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio” (cf Mt 7,21).
Dio non è una formula matematica. Non si concede a chi si limita a studiarlo, senza fare di questa conoscenza acquisita la premessa di un comportamento concretamente generoso.

Per fortuna la solennità odierna offre anche qualche modello positivo alla nostra ricerca di Dio.

I Magi con indomita speranza e coraggio singolare abbandonano patria, famiglia, amici, senza lasciarsi trattenere nè dalle derisioni degli scettici nè dalle lacrime dei loro cari. Non si perdono nel compiacimento della piccola luce della loro scienza astronomica; ne fanno piuttosto la premessa e l’invito per diventare pellegrini verso la grande Luce che illumina ogni cuore d’uomo.

Non si lasciano neppure deludere e deprimere dall’umiltà di quello che vedono, ben diverso da quello che presumibilmente si attendevano: non trovano una reggia, ma una povera casa, non ci sono guardie in alta uniforme e dignitari, c’è solo un falegname e una semplice donna del popolo, assorta nella gioia della sua prodigiosa maternità; non c’è la maestà di un re, c’è l’esiguità di un bambino avvolto in miseri panni.

Essi non si meravigliano e non si turbano: sanno che le vie del Signore e le sue valutazioni non corrispondono a quelle del mondo; Credono, si prostrano, offrono i loro doni, e si sentono pervasi da una letizia e da una pace senza confronti. È la pace, e la letizia dell’uomo che è finalmente arrivato alla meta sostanziale e appagante dell’incontentabile e penoso cammino dell’esistenza.

Il Signore che ha aspettato con pazienza quegli adoratori ritardatari, che sono i Magi, aspetta con pazienza anche noi. È una pazienza che non viene mai meno, quale che sia la nostra condotta, fino all’ultimo istante della nostra vita. Però prima di quell’istante dobbiamo deciderci a riconoscerlo e a darci a lui, se non vogliamo vanificare il suo affetto misericordioso per noi.

Ci ha amati lui per primo, e per primo si è avvicinato: “Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10).

Adesso tocca a noi avvicinarci a lui. Chiediamo oggi, allora, la grazia di cominciare a muovergli incontro, o almeno di tendere un po’ l’orecchio per cogliere i passi del Salvatore che viene alla nostra ricerca.

Da tutto il Vangelo si capisce che quella della salvezza è una questione seria. Resta una questione tremendamente seria, anche se ai nostri giorni si tende a irridere e a banalizzare tutto.

Lo sapeva anche Davide, che sul letto di morte avverte il figlio con queste parole che ci fanno pensare: “Se lo ricercherai, ti si farà trovare; se l’abbandonerai, ti rigetterà per sempre” (cf 1 Cr 28,9).

06/01/1997
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