Messa per il Pellegrinaggio diocesano giubilare a Roma

Oggi viviamo tanta gioia, in questa celebrazione conclusiva del nostro pellegrinaggio, da cui inizia il cammino di tutti i giorni! Troviamo tanta speranza, della quale possiamo e dobbiamo rendere ragione, perché siamo chiamati ad essere noi segni di speranza per tanti che la cercano. E tanti la cercano, in modi diversi, con grande sofferenza perché ci si fa male senza speranza e non si vive senza speranza. La speranza è umile, non ha bisogno di grandi dichiarazioni o sentimenti altisonanti, quelli che ammiriamo o cerchiamo e che ci ingannano. La speranza si riconosce in scelte piccole, concrete, possibili.

La speranza richiede un prezzo, che si paga volentieri se si ha speranza. Non è gratis come il fatalismo o lo scetticismo, che ti fanno credere, anzi, di non avere problemi e ti rendono prigioniero del presente. La speranza possiamo viverla proprio con le opere della penitenza quaresimale, speranza di Pasqua, di giardino nel deserto, di lupo e agnello che vivono insieme. Sono tutte e tre speranze: quella di rientrare in noi stessi, di diventare padroni della nostra vita perché non siamo consumatori, perché amare è donare e smetterla di piegare tutto al proprio con il possesso che ci rovina, digiunando dalla tirannia del vivere per sé che ci domina e ci riempie di paure. La speranza viene quando alziamo le nostre mani a Dio, da soli e in comunità, e l’una aiuta l’altra, perché sappiamo che quello che chiediamo al Signore nella preghiera, il Padre lo fa suo. La speranza diventa fiducia, benevolenza, saluti, opportunità, visite, tempo, dando in elemosina il tanto che abbiamo nel cuore – e farlo ci fa scoprire la nostra vera ricchezza – regalando amore al nostro fratello e ad uno sconosciuto che diventerà il nostro prossimo!

Abbiamo camminato insieme, confusi nella città, per ritrovarci. La Chiesa è questo, è legame di comunione che ci accompagna anche quando siamo lontani, e che si ritrova attorno a Gesù. Ringraziamo di questo luogo che ci riporta alle origini dell’avventura cristiana, ci aiuta  a capire con Pietro chi è il più grande, e a seguire Gesù che ci dà l’esempio perché anche noi saremo beati se laveremo i piedi gli uni gli altri; ci ammonisce con severità quando ragioniamo secondo Satana, ma ci permette di piangere sui nostri tradimenti perché non saranno più l’ultima parola sulla nostra vita, perché saranno consolati dalla Sua Parola che ci conosce e ci ama anche nella nostra debolezza; ci invita a non avere paura e ad avere fede, a tendere le braccia per farci condurre dove non vogliamo, sapendo che il Signore compie la nostra volontà sepolta dalla rassegnazione perché vuole la pienezza della nostra povera vita.

Qui capiamo anche l’orizzonte universale, cattolico, il popolo al quale apparteniamo anche quando siamo pochi e ci sentiamo, a volte, perduti. È, diceva Paolo VI, “il centro canonico, visibile, spirituale e mistico della prodigiosa e commovente unità, qui dove è bello incontrarsi con gente d’ogni Paese e sapersi tutti fratelli, tutti uniti dalla medesima fede e carità, cioè tutti cattolici”. Amiamo e difendiamo ad ogni costo l’unità, “dall’Oriente all’Occidente” che, poi, è sempre la premessa per la pace.

Ci uniamo nell’amore a Papa Francesco. La comunione è pensarsi insieme, quel cuor solo e un’anima sola che non annullano le differenze ma annullano la divisione, che non umiliano l’io ma l’orgoglio che lo deforma, che ci rendono felici perché in questa casa di amore tutto ciò che è suo è nostro e viceversa.

Il Papa è il servo dei servi e il suo servizio ricorda a tutti noi di essere servi, di scegliere di esserlo oggi. Sono con noi tutti i fratelli e le sorelle delle nostre comunità, anche quelli che abitano le nostre città e paesi, i nostri compagni di strada, che non sono estranei da cui difendersi, persone da giudicare, ma sono il nostro prossimo da riconoscere e da cui farci riconoscere amandoli. E se il nostro sarà davvero un amore cristiano – perché la nostra giustizia deve superare quella degli scribi e dei farisei – tanti vedranno riflesso in esso l’amore di Dio e ne scopriranno il nome, ne contempleranno la presenza, ne conosceranno la fedeltà. Vorrei che tutti potessero contare su ognuno di noi! E noi avremo la gioia di essere il riflesso dell’amore di Dio.

Ed esserlo in un mondo che si divide e si chiude, che cerca identità e sicurezza nei confini che diventano trincee e non cerniere; in un mondo che esclude il povero e non si commuove quando nostri fratelli muoiono in mezzo al mare, come fosse normale; che non sa accettare lo straniero; che rende il prossimo un’isola dove fare quello che si vuole ma che non deve disturbare e non deve chiedere nulla a me; in un mondo attraversato dalle conseguenze dei semi dell’odio, dell’ingiustizia, dell’ignoranza; in un mondo che sperimenta la conseguenza di queste che sono scelte, perché la guerra nasce da quei piccoli semi, frutto ultimo di tanta ignavia e di violenza accettata o subita; in un mondo che si appassiona per quello che non vale, che scarta la vita e la rende insignificante perché non amata; in un mondo che  si stanca subito mentre può seguire per amore l’amore; in un mondo che non ripudia la guerra e che pensa di preparare la pace armandosi invece di investire nelle realtà capaci di risolvere pacificamente e con il diritto i conflitti; in un mondo che ha paura della vita perché non la regala. In un mondo così sentiamo la grazia di essere suoi e si accende la speranza di cambiarlo. Sentiamo la forza di essere qui, di essere suoi, di questo amore che sarà parziale e limitato ma che ci fa vedere quello che non vediamo. In un mondo dove tutto finisce presto ci troviamo davanti a questo roveto ardente perché infiammato dell’amore di Dio che non finisce, che si rinnova sempre, che non si consuma e non consuma, perché amore. Togliamoci i sandali per essere attenti anche così come siamo, pieni di rispetto ma anche senza difese.

Liberiamoci dalla scontatezza, dalla presunzione, dalle abitudini, e anche dall’estraneità per cui restiamo sempre quelli che siamo e lo offendiamo vivendo con abitudine e senso di padronanza. È amore che rende tutto luminoso e senza fine, luce che illumina la nostra miseria perché accesa dopo avere conosciuto le sofferenze del suo popolo. La speranza, a differenza del fatalismo, affronta il male! Mosè resta sconcertato dalla proposta di Dio. “Ma chi sono io per andare dal Faraone? Come farò? Come è possibile, contraddittorio e limitato come sono?”. “Io sarò con te”, io sarò con voi, che significa anche di non avere timore, di cercare di amare prima di avere tutte le risposte, perché hai la risposta, la Sua presenza. Io ti darò le parole. Anche noi oggi riferiamo a Gesù tanti segni dei tempi dolorosi, terribili. Ci imbattiamo in due storie tragiche, una di violenza, evidentemente umana, l’uccisione violenta, da parte della polizia romana all’interno del tempio (cfr. Lc 13,1), l’altra è la tragedia di un crollo, la torre di Siloe. La gente ne parla come se non avesse niente a che fare con loro, tutti si sentono diversi, protetti, come se ciò non li riguardasse! Non si pensano sulla stessa barca! “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Siamo uguali. Il loro dolore è il nostro dolore!

Ecco il senso del pellegrinaggio e di questo Giubileo: conversione è prendere sul serio la misericordia, non stancarsi di dare frutto, prendere sul serio quest’occasione e anche avere la stessa pazienza verso il nostro prossimo, lasciando a ciascuno il tempo per cambiare. Non sappiamo cosa il domani porterà con sé ma sappiamo che ci sarà il Signore con il Suo amore. Conversione per essere pieni di speranza. Smettiamo di parlare male per sentirci migliori e di giudicare come se fossimo spettatori. Incontriamo spesso persone sfiduciate che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Il Giubileo è per tutti occasione di rianimare la speranza.

Convertiamoci all’amore, perché il male non vince e il suo inganno, che ci fa credere sia più forte, è sconfitto dall’umile speranza, possibile a tutti, perché donata da Cristo nostra speranza. Diventiamo noi segni di speranza. Abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore della Gloria. Viviamo, dunque, nell’attesa del Suo ritorno e nella speranza di vivere per sempre in Lui: è con questo spirito che facciamo nostra la commossa invocazione dei primi cristiani, con la quale termina la Sacra Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!» ( Ap 22,20). Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri.

Come cantava di Cristo nostra speranza, con tanta profonda passione, Padre David Maria Turoldo: “Voi che credete/voi che sperate/correte su tutte le strade, le piazze a svelare il grande segreto…/Andate a dire ai quattro venti/che la notte passa/che tutto ha un senso/che le guerre finiscono/che la storia ha uno sbocco/che l’amore alla fine vincerà l’oblio/e la vita sconfiggerà la morte./Voi che l’avete intuito per grazia/continuate il cammino/spargete la vostra gioia/continuate a dire che la speranza non ha confini”. Che sia così.

Roma, Basilica di San Pietro in Vaticano
22/03/2025
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