Messa per la festa di San Domenico

I santi ci aiutano ad essere santi. Sono il riflesso di Dio, rendono visibile l’amore del Santo che ci vuole santi, di Gesù che ci santifica e ci rende santi perché ci chiama (Ef 1,4) e ci “ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. I santi non impartiscono lezioni, regalano vita, la loro. I santi non si nascondono dietro pulpiti, distanti dall’umanità come se la santità sia possibile cancellando la vita e senza le inevitabili contraddizioni e miserie.

Al contrario, i santi sono pieni del suo amore, perché è abbandonandosi a Lui che siamo santi, non per i nostri meriti ma per la forza del suo amore. Senza Dio si diventa solo dei farisei. La santità è quello che resta della nostra vita, il filo d’oro che unisce a Gesù ma anche ai fratelli, che ci rende suoi e va oltre noi.

La perfezione è tutt’altra cosa che non sbagliare, tanto che Gesù ci invita ad essere perfetti (Mt 5,48) come solo l’amore può permettere. La santità è la comunione più profonda che unisce i cristiani tra di loro, perché è il legame, umano e fisico, di fraternità, nel quale capiamo e gustiamo l’amore di Dio e la comunione tra noi. Non si è mai santi da soli, perché l’amore è sempre ricevuto e ci unisce a Dio e ai fratelli. In un mondo che impone di “essere se stessi”, che ha paura di amare perché possiede e non vuole regalare nulla, che finisce per avere paura della vita, i santi sono sentinelle che svegliano dal sonno e indicano la speranza, perché, come annuncia il profeta, “vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion”.

I santi non immaginano una vita che non esiste, ma scorgono e mostrano i tanti segni della presenza di Dio nella storia. I santi combattono il male, ne sentono la sfida, non si arrendono, non scendono a compromessi e amano sempre i peccatori.

Quanto c’è bisogno di santi e non di ossessionati difensori dei loro giudizi, instancabili come i farisei a colpire quelli che giudicano invece di amare, zelanti nel rigore e incapaci della misericordia! Gesù non ha paura del contagio, dell’incontro con chiunque non perché è incosciente o non si rende conto di “di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!” (Lc 7,39), ma perché santo! Non si è santi senza amare e i santi non temono l’umanità, anzi la cercano perché in essa scorgono e suscitano il riflesso di Dio. È la liberta per cui possiamo essere non opportuni, sempre con ogni “magnanimità e insegnamento”. Annunciare il Vangelo da “non opportuni” non significa affatto scontro, distanza, giudizio, ma essere liberi di toccare il cuore, di parlare per amore non per legge, di combattere il male.

È venuto – lo è in ogni generazione, con le varianti proprie – il giorno in cui “non si sopporterà più la sana dottrina ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole”.  Pur di udire qualcosa, commenta l’apostolo Paolo, per riempire il silenzio ed avere qualche risposta facile e non impegnativa. Quanti maestri assecondano l’egocentrismo, il desiderio di avere risposte che benedicano l’individualismo, vero idolo per il quale sacrifichiamo la fraternità e l’amore!

Quante banalità che esaltano l’io e non lo aiutano a trovarsi uscendo da sé! Tanti maestri, che poi lasciano soli, severi, insinuanti, esigenti e costosi, accarezzano l’orgoglio di sé, la forza dell’io ridotto a prestazione, esibizione di sé, forza. Come il sale perde il sapore? Conservandosi. Non serve a nulla, come la nostra vita, come la giustizia se non supera quella degli scribi e dei farisei, come parlare le lingue degli uomini e anche quelle degli angeli senza la carità.

Nulla: bronzi che rimbombano. Perché tenere nascosta la luce, mettere la lampada sotto il moggio? Forse perché ci siamo abituati all’oscurità, pieni di paura tanto da averla anche della vita! Forse siamo diventati mediocri, nascondiamo le nostre opere malvage senza credere al perdono. Forse ci siamo impadroniti della luce, pensando sia per noi e dimenticando che la nostra vita è una candela che serve se si consuma dando luce al prossimo. Se non serve diventa inutile. La lampada può avere un grande significato – quello che controlliamo, curiamo, misuriamo con tanti confronti, valutiamo continuamente con infinite interpretazioni – ma non serve se non si perde per il prossimo.

Ci aiuta San Domenico. E ringrazio di cuore anche i suoi figli, perché il loro carisma, che hanno custodito e dal quale sono stati custoditi, ha aiutato da sempre la città e la Chiesa di Bologna. In questi anni, grazie anche all’ottavo centenario con la bellissima Tavola della Mascarella, mi sembra sia cresciuta la comunione ecclesiale, servizio del quale desidero ringraziarvi di cuore, attestando l’utilità e l’importanza.

Contempliamo ancora la Tavola della Mascarella, così significativa per la storia e il messaggio che trasmette. La Tavola riunisce e allo stesso tempo invia, tanto che i frati sono raffigurati in due, perché così siamo mandati. È l’immagine più antica del Padre, non a caso non da solo, ma insieme ai suoi fratelli che, nella raffigurazione dei volti, sembrano provenire da varie parti d’Europa. La famiglia di Dio è sempre universale. È vero quello che Ignazio di Antiochia dice dei membri della Chiesa: sono synodoi, “compagni di strada” raccolti e inviati. San Domenico dichiarava di non voler essere altro che uno fra i fratelli e la tavola della fraternità era già in sé predicazione del Vangelo.

Cosa ci chiede questa fraternità? Non è facoltativa: è così legata all’essenza della vita cristiana, sacramento di quell’amore vicendevole che ci è richiesto ed è eucaristico. Contemplando questa immagine, che trova la sua pienezza nella mensa eucaristica, ho pensato alle polemiche sulla raffigurazione del banchetto offerto con imbattibile cattivo gusto in uno dei momenti più universali del nostro malconcio pianeta (ma serve proprio il brutto? Non c’è bellezza attraente da offrire?), scena che comunque offende tanti cristiani e, come ha aggiunto Papa Francesco, credenti di altre religioni. La dichiarazione per cui l’ispirazione erano i culti pagani non toglie nulla al sentirsi feriti per allusioni che ridicolizzano convinzioni intime che meritano sempre rispetto, che desideriamo ci sia sempre e sempre per tutti. Aggiungerei, per quello che so, l’occultamento della croce degli Invalides nel manifesto dei Giochi Olimpici, l’assenza di figure cristiane così condivise nella storia della Francia, censura al contrario, e anche l’offesa di spreco e consumismo sfacciato offerto quando tanti sono in drammatiche condizioni di fame e di difficoltà.

La Chiesa è casa – siamo la sua famiglia non un’organizzazione umanitaria, un consultorio, un ente filantropico, ma proprio perché casa non è nemmeno un club di puri, un’assise di giudici che guardano e non amano, cioè non si fanno carico, un’accademia di perfetti che non attraggono nessuno, ossessionati difensori di una verità che non conoscono più perché senza storia e senza amore.

Umiltà, preghiera e studio. Lo studio è la capacità di conoscere, di andare oltre l’apparenza e i giudizi comuni. “Lo sviluppo della cultura impone a coloro che svolgono il ministero della Parola, ai vari livelli, di essere ben preparati affinché la bellezza della verità cristiana possa essere meglio compresa e la fede possa essere veramente nutrita, rafforzata e anche difesa”, ha scritto proprio oggi Papa Francesco. Studio e umiltà e “Fortiter viri fortes!”. Umile è chi fa il primo passo verso il prossimo, chi non può fare a meno del prossimo, non perché non possa ma perché sa che farebbe male a lui e al prossimo.

Umile è chi si pensa in relazione al prossimo, relativizza l’io al noi non per sciuparlo ma per trovarlo. Umile è chi è tutt’altro che incerto o mediocre, ma chi rifiuta la forza della condanna che finisce per essere ossessionata dalla pagliuzza, tanto da dare a questa un valore enorme perdendo le proporzioni. La forza dell’umile è l’amabilità e per questo anche la fermezza perché gli scontri per dimostrare il suo zelo finiscono per diventare funzionali al nemico.

San Domenico ci aiuta nella preghiera  – dobbiamo insegnare a pregare, a trovare le forme per farlo, individuali e comunitarie, e a rivolgersi ad un Tu e non ad un’entità indistinta –  e nello studio, per approfondire la Verità che è Cristo e per questo anche l’umanità che incontriamo. Predicatori non perché migliori di altri, ma perché “innamorati e pieni della compassione per chi è stanco e sfinito perché senza pastore”.

Di San Domenico dicevano: “Egli accoglieva ogni uomo nel grande seno della carità e, poiché amava tutti, tutti lo amavano. Si era fatto una legge personale: di rallegrarsi con le persone felici e di piangere con coloro che piangevano”. Sia così anche per noi.

Bologna, basilica di San Domenico
04/08/2024
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