Abbiamo contemplato la Chiesa in questi giorni, nei quali tutti ci siamo ritrovati a comprendere il suo centro di comunione, il successore di Pietro, il Vescovo di Roma che Gesù indica per confermare i fratelli con un amore più grande. La Chiesa vive nel mondo, nella storia, e nella nostra piccola storia, con le sue tempeste ordinarie e straordinarie. La Chiesa è un grande popolo, universale, davvero cattolico, ed è come questa nostra comunità di Riolo, piccola ma dove vediamo e capiamo la presenza di Gesù, la forza della sua parola e dei suoi sacramenti, i segni della sua presenza. Non siamo piccoli per il numero o per l’umiltà, ma solo quando ci facciamo grandi di noi stessi! Anche Nazareth era proprio piccola! La Chiesa universale è fatta di pietre vive di questo edificio spirituale, cioè di una comunità concreta, in un punto concreto che diventa, allo stesso tempo, senza confini, proprio perché pieno dell’amore senza confini di Gesù. Gesù ci chiede di amare. Non si può amare riducendo l’amore a possesso, a darlo se ci conviene, a donarlo solo a quelli che ci amano. Ricordo, anzitutto a me stesso, che il giudizio sarà proprio sull’amore e che la vera condotta di vita importante è se amiamo o non amiamo. Ed è un giudizio severo, perché ci mette davanti a noi stessi, senza inganni, senza giustificazioni e rimandi! Non servono le nostre giustificazioni e, per certi versi, i nostri sentimenti, perché il giudizio è sui fatti, su come l’amore si manifesta in scelte concrete e con le quali prende forma, si rivela, si mostra. Noi, spesso, pensiamo di essere a posto con i nostri sentimenti, che pensiamo sufficienti anche se sono sterili e solo individuali, del tipo “non so, era troppo difficile”, “avevo da fare”, “mi è dispiaciuto, ero distratto, avevo anch’io tanti problemi”. No! Il giudizio è semplice: “Sei venuto, mi hai dato, mi hai accolto”, oppure “sei rimasto lontano, non sei andato a prendere un po’ di pane”, “pensavo fosse troppo difficile, sono rimasto a meditare sulla scelta”.
Si tratta semplicemente di amore, cioè di avere cuore e trattare con il cuore il nostro prossimo. Il testamento di Gesù è molto chiaro ed esigente: “Amatevi gli uni gli altri come Lui ci ha amato”. “Come me”, questa è la differenza! Abbiamo un modello che, proprio quando capiamo quanto ci ama, siamo felici di amare come Lui, e non abbiamo paura di amare come fa Lui. E poi cosa c’è di più bello? Cosa ci costa? Lui non calcola, noi non calcoliamo! Lui fa il primo passo, noi facciamo il primo passo! Lui non umilia il prossimo e così facciamo anche noi! Amare fa bene a noi oltre che agli altri. Come possiamo pensare di vivere senz’amore? Che vita sarebbe con un amore mediocre, che prende e non dona? E a cosa serve anche conservare la nostra vita se non la perdiamo? Gesù ci tratta da amici non da servi. Dona tutto se stesso, ci vuole davvero bene, prende sul serio l’amicizia e, per certi versi, coincide in Lui trattarsi da amici e amare! Non siamo servi, passivi, chiusi, inerti, ma amici, responsabili delle proprie scelte. E ci chiama amici quando ancora non sappiamo proprio cosa significa amicizia, anzi quando portiamo nel cuore la presunzione di saperlo, ciò che porterà poi a scappare e a lasciarlo solo. È amico perché la viviamo, non perché ci dà una formula, una teoria, ma amore, vita, esperienza. Non vuole servi, perché ci rende come Lui! I servi amministrano qualcosa che non è loro, tanto che magari poi accusano il padrone. Siamo responsabili perché siamo come Lui. “Tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Non lasciamoci imprigionare nella stolta ricerca del nostro individualismo e nel prendere senza donare. “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Siamo nel mondo per amare. Possiamo dare frutto, regalare vita, trasmetterla.
Oggi ricordiamo un prete che ha dato tutto se stesso, che è un seme sparso in questa terra, come ha detto giustamente don Emanuele, poiché non è stato mai trovato il suo corpo. Seme che dà frutto di amore e di perdono. Attraverso la sua memoria capiamo la tragedia della guerra e della violenza, dell’ideologia e della vendetta, della rabbia e del calcolo. Lo facciamo ripensando al passato ma anche scegliendo oggi il nostro futuro, liberi perché non siamo servi ma amici di ogni persona, contro ogni violenza, scegliendo di amare e di difendere la vita unica e irripetibile di ognuno.
Don Giuseppe Tarozzi fu il secondo prete della nostra diocesi ucciso in quello che fu definito il “triangolo rosso”. Era di Castelfranco. Era stato anche cappellano militare durante la Prima Guerra mondiale e, poi, anche nelle carceri di Castelfranco. Dal 1938 fu parroco qui a Riolo. Era un uomo colto che amava studiare. Aveva una certa disponibilità economica perché gestiva un’opera, quella Savioli. Raccontano che avesse dato cibo e denaro ai partigiani. Non fraternizzò con i tedeschi quando occuparono Riolo e si impadronirono della canonica, e lo rimproverava la figlia della perpetua se si fermava a parlare con loro. Nella zona di Castelfranco, nelle settimane successive alla liberazione, ci furono 14 delitti. Quando i suoi assassini vennero a prenderlo cercò solo di salvare la perpetua e la figlia di lei, intimando loro di scappare da un’altra porta. Il ricordo di lui, vittima innocente dell’odio ideologico comunista, dopo i tanti preti uccisi, al contrario, da quello nazista e fascista, ci deve chiedere di disarmare il cuore e le mani, per avere una pace disarmata e disarmante. E costruire la pace significa anche lavorare per la riconciliazione, che non annulla le differenze ma supera gli odi contrapposti e quello che hanno generato. Si tratta di perdonare e di chiedere perdono, e non lasciare l’odio inerte, muto, come le tante mine disseminate nei campi o come le bombe che possono scoppiare se non vengono rese innocue. È in nome di tutti i morti, tutti, intoccabili e insostituibili, perché unici, che dobbiamo deporre i nostri rancori, perché “se li avessimo tutti ugualmente in venerazione essi sarebbero contenti” come scriveva don Primo Mazzolari che domandava, in quegli anni, la festa del perdono per diventare tutti ribelli per amore.
Aveva ragione Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza perdono”. Il perdono non è mettere da parte, rimuovere l’odio, come bastasse questo per renderlo inerte. Quando smette di esserci il perdono facilmente e sempre l’odio inquina l’anima. Per questo c’è sempre bisogno di riconciliazione. Si può e si deve parlarne, nonostante le difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono come se fossero escludenti, alternativi. “Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia. La vera pace, in realtà, è opera della giustizia”. La guerra produce sempre tanto odio e tanta vendetta, l’idea terribile della vendetta che, come abbiamo ricordato ieri per Santa Rita, rinnova la morte, lega al male, addirittura fa credere giusto farlo e ingiusto perdonare, come se il perdono fosse dei deboli o significasse non cercare la giustizia per la vittima. Sono convinto che solo il perdono può permettere di essere fermi nella ricerca della giustizia, perché ci libera da qualunque inquinamento di vendetta, con la distorsione che questo comporta, con una giustizia che allora sarebbe solo arma per vendicarsi. Ed è la guerra che continua nell’odio e nella vendetta. La riconciliazione è, dunque, necessaria e non è un’opzione fra molte possibili, ma una necessità ineludibile.
E noi, che abbiamo la possibilità di mettere da parte ogni pregiudizio e ideologia, mettendo al centro solo la difesa della persona, abbiamo il dovere di farlo. Paolo VI sessant’anni fa portò all’ONU la voce “dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che cercassero di rinnovarle […] dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, al benessere e al progresso”. Solo la riconciliazione permette l’unità, di smettere di raccattare da terra le pietre o le pallottole per rilanciarle ai nemici. Don Primo Mazzolari scrisse delle pagine proprio per tutti i preti (e non dimentichiamo anche tanti laici come il nostro Fanin) uccisi dall’odio comunista: “Nessuna voce di vendetta sale da questo calvario su cui la croce disegna un perdono senza fine. Non gridano i nostri morti: attendono in pace l’ora della Pace, quando spezzata la spirale degli odi e delle vendette, qui riposeranno insieme i Morti che non hanno odiato quei Morti che, non conoscendone l’infelicità, hanno creduto di potere salvare la patria e il popolo uccidendo chi non poteva odiare. Congiunti in te, per merito della loro magnifica fraternità, che volentieri fa posto a tutti i morti delle lotte e delle guerre fratricide, agli ignoti e agli insepolti, ai persecutori e ai perseguitati, Ti chiediamo che il loro cimitero sparso di tombe vuote, fatto santuario del perdono e della pace, divenga la Pasqua degl’italiani. Così sia”. Sì, così sia.
