Natale, messa della notte

Bologna, Cattedrale

Questa messa natalizia, celebrata nella notte, suscita nei cuori una gioia contenuta e mite; ci ridà come un’atmosfera di familiare tenerezza; è quasi il risveglio di una poesia antica e nota, ma sempre eloquente e suggestiva. Perfino il mondo moderno, smaliziato e tendenzialmente scettico, distratto e stordito dall’affollarsi eterogeneo di troppi messaggi sempre più chiassosi e sempre più sgargianti, oggi per qualche momento sembra farsi attento e sottomesso al fascino insolito della semplicità: la semplicità di una nascita senza splendore, che però riesce a rischiarare di luce nuova e sorprendente addirittura la scena sordida di una stalla.

Noi però, che abbiamo ritrovato ancora una volta la strada della chiesa e siamo venuti a questo appuntamento annuale, percepiamo che il Natale ci offre qualcosa di ben più grande di un’emozione estetica e sentimentale, che pure ci è cara e preziosa: ci offre l’irrevocabilità di un evento e, in esso, la certezza di una “buona notizia”.

Oggi ricordiamo e riviviamo non un mito o un’idea, ma la consistenza di un fatto: il fatto certo e cronologicamente situato del Signore altissimo ed eterno che diventa l’Emmanuele, cioè il “Dio con noi”. E’ dunque la festa della riconciliazione tra l’umanità sviata, persa, ribelle, e il suo Creatore che nonostante tutto rimane fedele al suo originario disegno d’amore.

Per questo oggi gli animi, i riti, le stesse consuetudini della gente sono pervasi da una grande gioia; una gioia che trabocca dal mondo intimo di Dio (oceano ineffabile di letizia) e raggiunge in ogni terra, sotto ogni cielo, l’umanità intera: “Vi annuncio una grande gioia – ha detto l’angelo ai pastori sbigottiti, e lo ripete anche a noi – che sarà di tutto il popolo: vi è nato un salvatore” (cfr. Lc 2,10-11).

Dio è con noi: questa è dunque la “buona notizia. L’umanità dei nostri giorni – alle prese con terrori nuovi e inimmaginabili, oltre che con gli smarrimenti e le angosce di sempre – non deve sentirsi abbandonata e sola. Oggi, con il Figlio di Dio, nasce e si accende in noi anche un’immensa speranza; una speranza più forte di ogni paura. E un invincibile allegrezza torna a rifiorire sulle nostre tristezze.

Più di quindici secoli fa, a una cristianità sconvolta dalle minacce e dalle atrocità dei barbari, il papa san Leone Magno (contemporaneo del nostro san Petronio) – parlava così del Natale: “Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita: una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa di questa gioia è comune a tutti perché il Signore nostro, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano (cioè l’infedele e il miscredente), perché anche lui è chiamato alla vita” (Discorso I per il Natale).

Nell’incantevole pagina che l’evangelista Luca dedica all’avvenimento di Betlemme, colpisce l’insistenza sul particolare della mangiatoia, il solo indizio che la nascita di Gesù è avvenuta in una stalla. In poche righe viene ricordata tre volte: “Lo depose in una mangiatoia” (Lc 2,7). “Troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc 2,12). “Trovarono il bambino”che giaceva in una mangiatoia” (Lc 2,16).

La mangiatoia è il segno e l’avvertimento che i più grandi prodigi divini preferiscono avvalersi dei mezzi più miseri, e quasi rivestirsi di povertà e di squallore. Così siamo ammoniti che il Dio salvatore ama rivolgersi a coloro che sono “piccoli” – economicamente, socialmente, culturalmente – o almeno a coloro che non esitano a farsi piccoli e deboli nel loro spirito e nella loro vita, perché la grandezza e la potenza di Dio possa lavorare in loro liberamente e portarli alle ricchezze autentiche e imperiture.

Soprattutto la mangiatoia (e quindi la stalla) ci ricorda che per il Figlio di Dio venuto per la nostra salvezza “non c’era stato posto nell’albergo” (cfr. Lc 2,7) e in nessun’altra casa di Betlemme. E dunque ci dice che, prima del grande regalo natalizio del Padre celeste, c’era stato il rifiuto da parte degli uomini.

Come si vede, quel Dio che si offre a tutti, che per quel che sta in lui non esclude nessuno, accetta il rischio di essere rifiutato: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11), osserva malinconicamente l’evangelista Giovanni; un rifiuto che proseguirà e condurrà colui che è nato a Betlemme fino alla condanna, da parte dei capi e dei dotti del suo popolo, e alla morte di croce.

Ma questo, per la verità, non è un rischio suo: è un rischio nostro. E’ il rischio che, dicendogli di no e non lasciandoci salvare da lui, noi arriviamo a vanificare l’incredibile amore del nostro Creatore e per ciò stesso a vanificare e a isterilire la nostra unica vita.

Allora la grazia più “vera” e più bella – che in questa santissima notte possiamo e vogliamo chiedere per noi, per quanti ci sono cari, per tutti – è di saperci arrendere alla misericordia che è venuta a investirci dall’alto e di accogliere, senza riserve e senza i calcoli insipienti delle nostre prospettive puramente terrene, colui che nel suo Natale si è fatto a noi così amabile e così vicino. E sarà per noi una stupefacente fortuna: “A quanti l’hanno accolto – ci rivela esultando san Giovanni – ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12).

24/12/2001
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