ordinazione episcopale di mons. Tommaso Ghirelli

Bologna, Cattedrale

Siamo convenuti in questa cattedrale per un’azione sacra, che è forse la più alta e solenne che ci venga proposta dalla liturgia cattolica: l’ordinazione di un vescovo.
Ne siamo tutti commossi, emozionati e, credo, anche un po’ intimiditi. E non facciamo fatica a pensare che il più commosso, il più emozionato, il più intimidito sia proprio il nostro carissimo don Tommaso, che si trova al centro di questo rito; e forse si sente come ghermito dall’impreveduta e irresistibile volontà del Signore: ghermito e quasi trasportato ad altezze alle quali – saggio e avveduto com’è – egli certo non si è mai sognato di aspirare.

Ma che cos’è un vescovo? Non chiediamolo agli opinionisti mondani. Non chiediamolo neppure agli immancabili e innocui pettegolezzi clericali. Tanto meno chiediamolo ai progetti e agli auspici di chi si ritiene chiamato e arruolato in permanenza a vagheggiare forme diverse – a lui più congeniali e gradite – di vita e di organizzazione ecclesiastica.
Chiediamolo alla prospettiva di una fede umile e schietta, la fede che si sforza di comprendere e di contemplare – e poi non finisce mai di ammirare – le prerogative del disegno di Dio: questa è, per esempio, la prospettiva che i grandi Padri antichi sapevano abitualmente ricavare dalle parole del Signore Gesù.

Che cosa è un vescovo? Mi limiterò alla risposta semplice e breve, che si può avere estendendo a tutti gli apostoli e ai loro successori una bella espressione che sant’Ambrogio riferisce a Pietro. Gesù – egli dice a proposito del Principe degli apostoli – “sul punto di salire al cielo, ce lo ha lasciato come vicario del suo amore” (In Lucam X,175: “elevandus in coelum, amoris sui nobis velut vicarium relinquebat”).
Poiché la presenza del Redentore è oggi invisibile, i vescovi sono istituiti per rispondere in qualche modo e in qualche misura all’esigenza naturale e spontanea del cuore dei credenti di vedere e sentire vicino il Signore che li ha amati e li ama: vicari, dunque, dell’amore di Cristo.
Essi nella propria voce fanno risonare la voce dell’unico Maestro, il quale perciò di loro ha potuto dire: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16).

Essi, amministratori dei divini misteri, dispensano la grazia santificatrice dell’unico Salvatore, e con la loro animosa prudenza sono le guide del popolo di Dio verso il conseguimento pieno e aperto del Regno: “Insegnate loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (cfr. Mt 28,20), è l’estrema consegna del Risorto.

Vicari, quindi, ma vicari dell’amore. E qui si vede quanto sia difficile la missione dei vescovi: si tratta di rendere un poco percepibile agli uomini quel fuoco di carità che arde perennemente nel cuore di Cristo; vale a dire, quell’impeto unico, indivisibile, immenso con cui il Verbo eterno, fatto uomo e immolato per noi, si dona totalmente al Padre celeste e ai suoi fratelli terreni.
L’amore di Cristo – del quale quello del vescovo è segno e prolungamento nella contingente vicenda umana – non è un amore che si risolva tutto nelle parole e nei sentimenti: è concreto, operoso, attuativo.

Amare così comporta, per esempio, pregare incessantemente per il popolo che ci è stato affidato, sul modello di colui che accanto al Padre e in comunione inscindibile con lui è “sempre vivo per intercedere per noi” (cfr. Eb 7,25).
Amare vuol dire poi donare agli uomini la luce delle certezze, senza le quali essi non possono vivere da creature ragionevoli. In un mondo che si compiace di essere malato di scetticismo; in un mondo che tutto relativizza, e di tutto diffida; in un mondo che brancola e si perde nella selva delle opinioni provvisorie e infondate, il vescovo è il maestro dell’adesione liberatrice alla verità unica e inalienabile, che ci ha raggiunto, ci ha redento e quotidianamente ci redime dall’errore, dal dubbio paralizzante, dai multiformi raggiri delle varie ideologie.

Amare è anche operare fattivamente per la pace: prima di tutto per la pace dei cuori (quella che vince ogni timore, che disperde ogni affanno, che nasce dalla fiducia riposta solamente in Dio); e poi per la pace tra gli uomini, sempre tentati di cedere alle sollecitazioni della discordia, dell’odio, della prepotenza, della violenza ingiusta e omicida. Non per niente il saluto proprio e caratteristico del vescovo è un augurio di pace: “La pace sia con voi!”.

Amare significa infine impersonare nella propria condotta la misericordia del Signore, segnatamente verso i più sofferenti, i più deboli, i più umiliati; e anche la misericordia chiarificatrice verso gli ingannati dalla falsa pietà di chi crede di essere buono, comprensivo e filantropo perché insegna a non distinguere più tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che si può e ciò che non si può fare.
“Vicario dell’amore di Cristo”: così, ti attende la gente di Imola, a noi tanto vicina e carissima; così, arricchito dalla grazia sacramentale che stasera ti viene conferita, ti presenterai alla Chiesa che sarà tua, cioè sarà la destinataria unica del tuo affetto, della tua dedizione, della tua fedeltà.

Questa ordinazione episcopale avviene nel giorno destinato al ricordo dell’apostolo Andrea, il primo (con Giovanni) a essere chiamato dal Signore: “Protòcletos”, è il titolo che gli riservano i nostri fratelli dell’Oriente cristiano.
Nell’episodio della moltiplicazione dei pani, raccontato dal quarto vangelo, davanti al problema di dar da mangiare a molte migliaia di persone, è il solo che dà un contributo operativo preciso: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci” (Gv 6,9).

E’ facile immaginare i sorrisi di compatimento degli altri apostoli nell’ascoltare questa ingenua proposta. Ma lo sapeva di sicuro anche Andrea che l’aiuto da lui offerto era ridicolmente insufficiente; eppure, pur di far qualcosa, non esita ad affrontare le facili ironie e i sarcasmi.
Egli presenta quel poco che ha trovato nella fiducia che Gesù saprà farlo bastare. La sua sembra un’iniziativa sprovveduta; in realtà, rivela in lui un atteggiamento spirituale prezioso: egli ritiene che dare poco (soprattutto se quel poco è tutto) è sempre meglio che non dare niente.

C’è in lui evidentemente l’ottimismo soprannaturale di chi conosce quanto è grande la potenza di Dio; e dunque c’è in quella sua disprezzata proposta non solo un piccolo segno di buona volontà, ma anche un grande atto di fede.
Caro don Tommaso, sant’Andrea ti prenda oggi sotto la sua particolare protezione e ti ricordi sempre – soprattutto quando i gravi compiti che un vescovo deve necessariamente affrontare ti sembreranno troppo al di sopra delle forze e delle possibilità di cui da te puoi disporre – che, come dice san Paolo, “la nostra capacità viene da Dio” (2 Cor 3,5).

30/11/2002
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