S. Messa esequiale in suffragio di Giacomo Bulgarelli

Bologna, Cattedrale

Giovedì, 12 febbraio, nell’ora in cui la Chiesa eleva al Padre la sua preghiera vespertina, a 68 anni, si è spenta la vita terrena di Giacomo Bulgarelli. Così, anche per questo campione fuori classe, è giunta l’ora di giocare la “grande partita” dell’eternità.
Nato e battezzato a Portonovo di Medicina nel 1940 ebbe i primi contatti col pallone nell’oratorio della parrocchia, sotto lo sguardo benevolo di Don Dante Barbanti. Dopo il trasferimento a Bologna coi genitori e la sorella Luigia, ha conseguito la maturità classica nel Liceo S. Luigi dei Padri Barnabiti e, a 14 anni, fu accolto nella prestigiosa famiglia sportiva del “Bologna Football Club”. Nel 1966 si sposò nella Cappella del S. Luigi. Le nozze con la Signora Carla furono benedette da don Libero Nanni, cappellano del Bologna e in grande confidenza con i giocatori e i loro familiari. Nacquero tre figli; Annalisa, Andrea e Stefano. Giacomo era credente e ha sempre seguito con interesse le iniziative di don Libero e i traguardi scolastici e sacramentali dei figli. Ebbe un bellissimo rapporto collaborativo nell’opera educativa dei Salesiani di Bologna, dove si è prestato anche per qualche partita amichevole coi ragazzi e gli educatori.
Noi siamo convocati in questa Cattedrale per condividere il dolore dei familiari e per celebrare l’Eucaristia in suffragio di questo nostro fratello, perché, purificato da ogni colpa, possa entrare per sempre nell’area della gioia senza fine.
Con questa Messa, infatti, a noi, per volontà di Gesù, è offerta la possibilità di entrare in comunione profonda con il mistero di Cristo Redentore, che “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita”. Questo rito – già prefigurato dal Profeta Isaia – è il “banchetto preparato per tutti i popoli”, attraverso il quale il Signore Dio “eliminerà la morte per sempre … e asciugherà le lacrime su ogni volto” (Cf. Is 25,6-8).
Ma celebrare l’Eucaristia vuol dire anche rendere grazie al Signore per tutti i benefici che ci ha dato in questa vita, come segno della sua bontà e come stimolo, perché i talenti ricevuti non vadano dispersi (Cf. Mt 25,14-30). Pertanto noi ringraziamo il Signore per aver regalato a Bologna Giacomo Bulgarelli, uno dei suoi figli migliori, divenuto icona di un popolo, capace di raggiungere i traguardi più alti, impegnando al meglio le proprie risorse umane e spirituali.
È indubbio che la nostra città, con Giacomo Bulgarelli, ha ricevuto in dono un tratto genuino della sua “bolognesità”: cioè la bonomia e la gioia di vivere; l’attitudine ad assaporare, nel segno della qualità totale, il dono dell’esistenza; la voglia di lavorare, di intraprendere e di giocare; l’amore per la libertà  e il gusto intelligente del sapere; la grande spinta solidale verso il prossimo e l’equità sociale; il forte senso di appartenenza ad una città a misura d’uomo, ricca di fermenti e di potenzialità.
Tutto questo ha avuto il suo primo impulso dall’anima “petroniana”, che ha saputo fare sintesi tra fede e sapienza umana, dando consistenza all’intuizione che l’adesione a Cristo, non deprime, ma sorregge la nobiltà dell’uomo, il suo progresso integrale, la sua giusta autonomia.
È in questo contesto che è sorta, nella nostra Bologna, l’attitudine a convivere pacificamente, pur nella diversità delle opinioni o degli interessi e a praticare quella cortesia nei rapporti tra le persone che non esclude, anzi apprezza, la grandezza di chiamare le cose col loro nome.

Grazie alla “petronianità”, lungo i secoli, la città di Bologna è fiorita in modo armonico a tutto campo: nei monumenti, nell’arte, nelle opere di misericordia e di promozione umana, nelle strutture educative e ricreative, dove lo sport – specialmente nel calcio – ha raggiunto traguardi sublimi.
Tutti ricordano quel pomeriggio del 7 giugno 1964, quando il silenzio surreale della città, alle 18.40, fu interrotto da un boato impressionante e liberatorio: Bologna all’unisono aveva espresso la propria gioia per una vittoria che aveva dato compimento ad una forte aspirazione sportiva, ma che aveva un retroterra culturale e valoriale ben radicato nella società e che la febbre del ’68 avrebbe sconvolto.
Giacomo Bulgarelli era parte integrante della “bolognesità”. Lo conferma il coro unanime dei giudizi, che, in questi giorni, ha esaltato la sua figura di uomo e di campione: “architetto del pallone, poeta del calcio, talento cristallino, uomo esemplare, bandiera del grande Bologna, col suo gioco ha incantato una città: la sua città”.
La “bolognesità”, in lui, ha sempre avuto il sopravvento. Ha incontrato mezzo mondo, ma è rimasto qui a darsi da fare, per mantenere alto il nome di Bologna e del Bologna, per fare squadra non solo in campo, ma in famiglia, con gli amici, i tifosi e le realtà vive della città petroniana.
Quella voce amplificata, che a ogni partita saliva dagli spalti della Torre di Maratona, portava in sé un grande spessore simbolico: era la consacrazione popolare non di un mito, ma di un uomo divenuto “cifra” delle grandi aspirazioni trascendentali della gente semplice, un uomo capace di rinunciare al fascino del denaro e della visibilità mondana dei grandi Club nazionali e internazionali, per rimanere vicino alla sua famiglia, alla sua squadra, alla sua città, ancora capace di rapporti umani veri.
Oggi le cose sono cambiate, anche Bologna soffre di quelle rapide trasformazioni ritenute troppo in fretta autentico progresso, in alternativa ai traguardi umani e culturali raggiunti nel passato. La rincorsa al “nuovo”, fine a se stesso, ha innestato un circolo perverso che, in nome del progresso accelerato, ha smesso di assimilare la linfa vitale delle nostre radici culturali, per lasciare spazio al peggio delle culture planetarie emergenti.
Giacomo questo lo sapeva e ne era dispiaciuto, specialmente per i riflessi negativi che tutto questo aveva sul calcio, diventato l’industria del pallone, svincolata da ogni progetto promozionale. Egli, però, amava il calcio e non ha mai smesso di credere nella sua ripresa. Si adoperava per salvaguardarlo dalle insidie delle regie occulte, che sempre mettono in campo la strategia dell’antica Babilonia, la “città del caos” (Cf. Is 20,10-12), a cui allude il Profeta Isaia quando dice: “Il Signore strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli” (Cf. Is 25,7).

Per questo Bulgarelli, che nelle vicende liete e tristi della vita ha sempre abbattuto le barriere dell’incredulità, sapeva che l’orgoglio, l’egoismo, la violenza sistematica di Babilonia non possono prevalere sulla nuova Gerusalemme, la Chiesa, Corpo di Cristo e Popolo di Dio, vera città della pace, dove il “diritto e la giustizia” (Is 9,6) vengono stabiliti per sempre.
A un giornalista di “Avvenire” disse: “Chi ama lo sport deve adoperarsi per salvarlo”. Perciò ha sempre sostenuto ogni vero progetto educativo, convinto che il valore pedagogico dello sport conserva tutte le sue potenzialità.
L’attività agonistica non solo contribuisce all’equilibrio fisico, ma anche a quello spirituale e porta in sé la capacità di coniugare insieme competizione e solidarietà, affermazione personale e gioco di squadra, nel superamento delle spinte egocentriche.
Per raggiungere questi traguardi, però, è necessario un progetto educativo globale, che faccia leva anche sulle risorse della fede, connesse ai frutti dello Spirito di cui parla S. Paolo: «amore, gioia, pace, pazienza, bontà, fedeltà, dominio di sé» (Cf. Gal 5, 22).
Poi, anche per Giacomo Bulgarelli, è giunta l’ora della malattia e della sofferenza. Sostenuto dai suoi cari, ha portato con cristiana rassegnazione il peso della croce, senza mai perdere la sua vocazione al sorriso.
Alla luce del Vangelo di Giovanni, il numero 8, usato in prevalenza da Giacomo, diventa per noi un ulteriore motivo di serenità e di speranza. Nella tradizione cristiana antica, il battistero aveva la forma ottagonale, perché richiamava le otto persone scampate al diluvio universale, dentro la barca di Noè.
Esse sono diventate il simbolo del tempo che sfocia nell’eternità, grazie alla Risurrezione di Cristo, celebrata sacramentalmente nella Messa domenicale. I Padri chiamavano la Domenica “giorno ottavo”, perché prepara l’ingresso nella vita eterna, il Paradiso, dove effettivamente a tutti è stato assegnato un ruolo gratificante nella grande partita dell’eternità, giocata al cospetto di Dio, nella gioia senza fine della domenica senza tramonto.
Lo ha detto Gesù stesso: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… e io vado a prepararvi un posto… perché siate anche voi dove sono io” (Cf. Gv 14, 1-3).

Il messaggio è chiaro e consolante, ma anche urgente: se vogliamo salvare la nostra vita e reintrodurre la speranza in questo mondo globalizzato dobbiamo riavvalorare la sequela di Cristo “via, verità e vita” in un itinerario che veramente ci abilita a giocare nel grande stadio del Paradiso (Cf. Gv 14, 6).

 

16/02/2009
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