S. Messa in suffragio delle vittime del disastro ferroviario di Crevalcore
Crevalcore: 14-01-05

1.«Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi

ristorerò». Col peso della nostra fatica e della nostra oppressione

abbiamo ascoltato l’invito del Signore  di venire a Lui per essere

sollevati. Sollevati dal peso della nostra incapacità di trovare un

senso a tragedie come queste.

Il Signore rivolge il suo invito in primo luogo a famigliari, coniugi e/o

figli, genitori e/o fratelli-sorelle, che piangono e soffrono la morte dei

loro cari. Ma lo stesso invito è rivolto anche a noi tutti, drammaticamente

feriti come siamo da eventi come questi: «venite a me, voi tutti che

siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò».

Il fatto che abbiamo accolto l’invito del Signore, indica che abbiamo

bisogno, un bisogno struggente, di incontrarci con qualcuno che sappia rispondere

alla domanda di senso che dimora nel cuore di tutti noi.

Certamente abbiamo anche il diritto di sapere se l’evento tragico trova

ragioni in precise responsabilità prossime e/o remote degli uomini.

Ma altri sono i luoghi in cui si va a cercare risposta a questa legittima domanda;

in cui si opera la rigorosa e doverosa verifica di queste eventuali responsabilità.

Siamo venuti in questo luogo a cercare risposta al bisogno di decifrare un

mistero infinito che ci domina: quello della morte.

Tuttavia, il Signore ci avverte subito che queste cose sono nascoste ai sapienti

ed agli intelligenti, e sono rivelate ai piccoli. L’uomo è ristorato

dalla sua fatica e dalla sua oppressione non dai suoi ragionamenti, che mai

come in queste situazioni si dimostrano vani, ma dal porsi semplicemente – come

fanno i piccoli – nel calore di un rapporto con una Presenza su cui fondarci

e a cui stringerci, quando catastrofi come queste si abbattono su di noi. Più che

della chiarezza di una spiegazione razionale abbiamo bisogno del calore di

un rapporto interpersonale. Solo questo calore ci dà l’intima

sicurezza che possiamo vivere avendo la certezza che ci sono sempre buone ragioni

per continuare a farlo.

Esiste una risposta a questa domanda del calore di un rapporto? Riascoltiamo

la parola evangelica: «nessuno conosce il Figlio se non il Padre. E nessuno

conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».

Il Cristo questa mattina ci ha invitati a Lui perché vuole rivelarci

che il nome di Dio è il nome di Padre. è in questa rivelazione

la risposta al bisogno che mai come in questi momenti sentiamo urgere nel cuore,

che cioè il nostro dolore sia redimibile; che abbia un senso anche se

da noi non percepibile. Cristo ci rivela, rivelandoci il Padre, che l’uomo

non è stato gettato nella vita e nella morte da una fatalità senza

nome. Egli esiste e muore sempre amato da Dio che è Padre. Sono le parole

dell’Apostolo appena ascoltate che ci aiutano in modo particolare.

2.«Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun

altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo

Gesù».

Di fronte ad avvenimenti tragici come questo l’uomo prova il senso di

essere come consegnato ad un destino indecifrabile. La paternità di

Dio rivelataci da Cristo in questa liturgia ci assicura che niente e nessuno

ci potrà distaccare dall’amore che Dio ha per noi; che niente

e nessuno è più forte dell’amore che Dio ha per noi. Alla

fine noi non siamo mai abbandonati, né in vita né in morte, perché niente

e nessuno potrà mai separarci dall’amore che Dio ha per noi.

L’apostolo ci dice che questo amore ci è stato mostrato «in

Cristo Gesù». Dio ha risposto alla domanda di senso che portiamo

nel cuore in momenti come questi non attraverso la spiegazione razionale, ma

attraverso la condivisione compassionevole. Cristo, Dio fattosi uomo, è morto

per vincere la nostra morte: la sua condivisione alla nostra condizione è ciò che

ci ristora definitivamente dalla nostra fatica di vivere e dalla oppressione

della morte. Fatica ed oppressione che non solo non ci allontanano dal calore

della sua presenza, ma sono il vero motivo per cui siamo invitati ad usufruirne.

Usciremo da questo luogo – se avremo accolto questo invito – non

necessariamente con maggiore chiarezza, ma sicuramente con più profonda

consolazione.

L’uomo resta capace di credere anche quando dice: «sono troppo

infelice», perché – come Giobbe – egli sa che il suo

Redentore è vivo, e che si ergerà a salvarlo dal nulla eterno: «buono

e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso».

La fede in Cristo non estingue il pianto, ma impedisce il pianto disperato.

14/01/2005
condividi su