S. Messa in suffragio di Giacomo Venturi vicepresidente della provincia nel trigesimo della morte

Zola Predosa, Chiesa di San Tommaso di Gesso

Il 4 ottobre scorso, mentre Bologna celebrava la festa del patrono San Petronio, si concludeva l’esistenza terrena del Vicepresidente della Provincia Giacomo Venturi, deceduto a 45 anni, per i postumi di un grave incidente stradale. Ora, a trenta giorni dalla morte, siamo qui, nella chiesa di San Tommaso, per celebrare la Santa Messa in suffragio di questo nostro fratello, perché il Signore gli apra le braccia della sua misericordia e – purificato da ogni colpa – possa entrare nella gioia eterna del Paradiso.

Sono grato ai familiari, al Parroco, al Sindaco di Zola e alla Presidente della Provincia, per avermi offerto l’opportunità di presiedere questo rito e di unirmi alla comunità nel ricordo orante di una persona a me tanto cara. L’ultima volta che ci siamo incontrati risale all’8 settembre scorso, durante l’Assemblea Pubblica di Unindustria, dove Giacomo stava seduto dietro di me: mi ha toccato la spalla per salutarmi con il volto sorridente, contento di vedermi, dopo la lunga pausa della mia missione apostolica nella diocesi di Terni-Narni-Amelia.
Con quel suo sorriso, esprimeva il desiderio di riprendere un contatto, nato spontaneamente, oltre vent’anni fa, fin dai tempi degli incontri ufficiali nel territorio del Comune di Zola, poi a Bologna e Provincia e talvolta anche in Curia. Ho sempre visto in Giacomo un uomo solare, concreto, responsabile e affidabile, sempre pronto ad ascoltare le ragioni degli altri, dopo aver esposto le sue, con spontaneità, semplicità e onestà intellettuale.

É proprio vero che ha “fatto la gavetta”, perché filtrava in lui la testimonianza di una persona che metteva in campo, anzitutto, l’impegno personale, come metodo di lavoro nel servire la «cosa pubblica». Con lui – come con Maurizio Cevennini – mi sentivo a mio agio, perché era aperto – senza pregiudizi – all’ascolto e al confronto con le ragioni della speranza cristiana. Per questo, ora, in comunione spirituale con lui, che si trova al cospetto dell’amore misericordioso di Dio, meditiamo per qualche minuto sulla Parola di Dio che abbiamo ascoltato: una Parola che illumina, purifica e consola.

Nella prima lettura il Profeta Isaia annuncia, in prospettiva storica,  la distruzione della «città del caos»(Cf. Is 24,10), l’antica Babilonia. È il tema del giudizio di Dio sui “poteri forti” del mondo che, nel trattare le “cose della terra”, si comportano come se Dio non esistesse e puntano tutto sull’autosufficienza umana, che – da sola – rischia di condurre la città degli uomini alla rovina (Cf. Is 24, 10-12). Ma Isaia – che significa «Dio salva» – esprime anche l’aspetto redentivo del giudizio divino connesso con la nuova Gerusalemme (Cf. Ap 21, 2), la Chiesa, che è  il regno di Cristo presente nel «mistero». Ogni volta che noi siamo convocati per celebrare sull’altare il sacrificio della Croce, si attua l’opera della nostra redenzione e la Chiesa si manifesta come sacramento universale di salvezza e principio di unità per tutti i popoli (Cf. Lumen Gentium, nn. 3;9;48).

Ne consegue che, con questa Messa, noi entriamo in profonda e misteriosa comunione con la realtà totale di Cristo Redentore, che ha detto «Fate questo in memoria di me» (1 Cor 11, 24). Pertanto, attraverso il rito, noi diamo concretezza all’annuncio proclamato dal Profeta Isaia: «Il Signore preparerà su questo monte un banchetto per tutti i popoli». È un convito che – grazie al suo essere “memoriale” della morte e risurrezione del Signore – porta in sé il principio di un cambiamento radicale, una specie di «fissione nucleare», che suscita un processo di trasformazione delle realtà, il cui termine ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero (Cf. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 11).

Con l’Eucaristia, dunque, la Chiesa offre all’umanità la chiave interpretativa del proprio stato di sofferenza, causato dal peccato delle origini e indica la via per superarlo, attraverso la prospettiva della gioia senza fine. Infatti, grazie alla Pasqua di Cristo, sorge «sul monte» la nuova Gerusalemme, la Chiesa, che – come dice Isaia – strapperà  il «velo» dell’ambiguità, del dubbio e della paura «che copre la faccia di tutti i popoli» (Cf. Is 25,7), da quando Eva e Adamo – creati a immagine di Dio (Cf. Gen 1, 27) – hanno peccato, tentando di impossessarsi delle prerogative di Dio stesso (Cf. Gen 3). Da quel momento, ai nostri progenitori è stato impedito l’accesso all’«albero della vita», e l’umanità è stata privata del dono dell’immortalità (Cf. Gen 3,22).

Ma, duemila anni fa – circa – «quando venne la pienezza del tempo» (Gal 4,4), Dio, che è «amore» (Cf. 1 Gv 4, 16), «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Cf. Gv 3, 16), per «eliminare la morte per sempre, asciugare le lacrime su ogni volto e togliere l’ignominia dal suo popolo» (Cf. Is 25, 8). Dio, infatti, mediante la morte e risurrezione di Gesù, ha riaperto le porte del Paradiso e – come scrive San Paolo – «ci ha  confermato in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito», perché tutti possiamo pronunciare il nostro «Amen» (Cf. 2 Cor 1, 20-22), cioè dire «» al compimento del nostro dovere, moltiplicando i talenti che la Provvidenza ci ha dato (Cf. Mt 25, 14-30) «per rinnovare la faccia della terra» (Sal 104, 30). Questo è l’itinerario che bisogna percorrere per occupare quel «posto» che Gesù ci ha preparato nella Casa del Padre, indicando anche in se stesso la strada per raggiungerlo: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14, 6).

Giacomo Venturi non ha fatto l’esperienza di una fede esplicita e diretta, ma ne sentiva il fascino. Quando, per ragioni istituzionali, partecipava a cerimonie religiose, la sua non era una presenza puramente formale e imbalsamata, ma – a suo modo – condivideva la preghiera dell’assemblea liturgica. Questa sua intima «apertura alla trascendenza» fa di lui un esempio di autentica laicità, che non mette in conflitto Dio e l’uomo, la fede e la ragione, il ruolo pubblico e la vita privata, ma si sforza di testimoniare una misura “alta” del fare politica.

Nell’ottica cristiana, la politica – specialmente oggi che è tanto denigrata – è considerata una vocazione altissima, una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune e non il tornaconto personale. Lo conferma anche Papa Francesco, nell’Esortazione Apostolica «Evangelii gaudium», dove affronta questo tema e scrive: «Chiedo a Dio che cresca il numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo!». Poi aggiunge: «Sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica, che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale» (Cf. n. 205).

L’alto profilo della politica di Giacomo ci dice che egli si muoveva su questa lunghezza d’onda e – senza voler interferire nel giudizio sul suo operato, che compete solo a Dio misericordioso – possiamo affermare di essere di fronte a un segno dei tempi. La sua immatura scomparsa, proprio il giorno di San Petronio, ci orienta a collocare la sua figura tra le icone della «bolognesità», che non si esaurisce nel folclore, ma assume proprio dalla «petronianità» le sue vere caratteristiche: la libertà, la passione civile, la solidarietà, l’intraprendenza, la voglia di vivere e di lavorare, la promozione umana e culturale a tutto campo, in un contesto di vera laicità.

Bologna e il territorio metropolitano hanno bisogno di un colpo d’ala. La figura e l’opera di uomini come Giacomo Venturi sono un forte stimolo all’avvento di tempi migliori, ma i casi isolati non bastano: è tutta la cultura bolognese che deve rivedere i suoi parametri. Il laicismo preconcetto purtroppo continua a primeggiare e a fare danni. Pertanto è necessario un recupero laico della fede in Cristo Salvatore, quella fede che animava i nostri padri, quando scelsero San Petronio come “Protector et Pater“: difensore della città e padre dei poveri.

 

05/10/2014
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