S. Messa nel 5° anniversario della morte di Marco Biagi

Bologna, Basilica di San Martino

Nel quinto anniversario della morte di Marco Biagi siamo stati convocati per celebrare l’Eucaristia di suffragio. Ci sentiamo tutti in comunione fraterna con i suoi cari e con loro vogliamo esprimere la nostra partecipazione orante e solidale al memoriale della Pasqua cristiana, nella quale il sacrificio cruento di Marco è entrato nell’area del mistero redentivo di Cristo crocifisso e glorificato.

Oggi la Chiesa celebra la Solennità di S. Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, discendente della casa di Davide, e per questo, padre putativo di Gesù. A lui Dio ha affidato la custodia dell’evento che segna la “pienezza del tempo” (Gal 4, 4): l’Incarnazione del Figlio di Dio, “nato da donna” (Gal 4, 4), per opera dello Spirito Santo, con la missione di “salvare il popolo dai suoi peccati” (Mt 1, 21).

Ecco il servo saggio e fedele, che il Signore ha posto a capo della sua famiglia” (Lc 12,42). Sono le parole introduttive della liturgia di San Giuseppe, un’icona biblica che, in senso analogico, illumina sotto tanti aspetti  la figura e la missione di Marco Biagi, dentro gli scenari inquieti della nostra democrazia.

Le fonti bibliche, indicano in Giuseppe l’ultimo dei Patriarchi. Come l’antico Giuseppe, approdato in Egitto, è l’uomo “giusto e fedele” (Cf. Mt 1, 19) che, in nome di Dio e nel silenzio obbediente, ha guidato le fasi preliminari dell’annuncio del Vangelo.

Ha svolto questo compito vigilando e custodendo con Maria il mistero di Gesù, che “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52), facendo del lavoro quotidiano l’espressione dell’amore verso le persone a lui affidate e rivelandone la dignità propria nel suo rapporto col mistero di Dio Creatore e Salvatore.

S. Giuseppe è, dunque, una figura emblematica nel contesto della storia della salvezza e fortemente rappresentativa dell’uomo che oggi, messo di fronte agli eventi che lo sovrastano, accetta di fare la propria parte, anche a costo di enormi sacrifici. Egli è sostenuto dalle risorse della fede e per questo è in grado di aprire l’orizzonte della sua vita, verso una sintesi più alta, dove le contraddizioni e le ombre si diradano di fronte allo “splendore della Verità” e all’ “Amore appassionato di Dio per l’uomo” (Deus caritas est, 10).

Dal racconto dei Vangeli conosciamo l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Maria che, “prima di andare a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo” (Mt 1). Quest’ “uomo giusto”, non seguì la via più drastica consigliata dalla prassi usuale, che prevedeva due alternative: o scrivere la lettera di ripudio, imprimendo su Maria il marchio indelebile del disonore o la denuncia all’autorità costituita, con la certezza della pena di morte per lapidazione.

Giuseppe, conoscendo bene Maria, “non voleva ripudiarla”, perché non poteva pensare a Lei come adultera. Allora “decise di licenziarla in segreto” (Mt 1, 18). Ma la sua saggia conclusione non bastava agli occhi di Dio, che voleva coinvolgerlo in un progetto più alto, preparato fin dalle origini del mondo, “secondo un disegno prestabilito” (At 2, 23), già annunciato dal Profeta Isaia: “Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che si chiamerà Emanuele, che significa Dio con noi” (Is 7, 14).

Così l’Angelo del Signore, durante il sonno, gli svela il mistero: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1, 20). Da quel momento “la prese con sé” (Mt 1, 24) e con lei condivise lo stupore di fronte al mistero di Gesù, ma anche le conseguenze del suo essere “segno di contraddizione” (Cf. Lc 2,33-35), di fronte al quale non è possibile il compromesso “Chi non è con me, è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30).

Dopo la nascita di Gesù. La Sacra Famiglia dovette fuggire in Egitto, ripercorrendo il cammino dell’Esodo, per sfuggire alle ire di Erode, il re uxoricida e parricida, autore di una delle più esecrande stragi di Stato che la storia conosca: l’assassinio generalizzato dei bimbi innocenti di Betlemme, “dai due anni in giù” (Cf. Mt 2, 13-23).
La barbara uccisione di Marco, purtroppo, conferma che lo spirito di Erode continua anche oggi a insidiare le vie del bene, perché “la storia umana è pervarsa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre e l’uomo può restare unito al bene solo a prezzo di grande fatiche e con l’aiuto della grazia di Dio” (Cf. Gaudium et spes, 37).

Per questo ci siamo riuniti in preghiera. Con l’Eucaristia, sacramento d’ogni salvezza, noi riportiamo tra gli uomini quel Dio che a molti sembra latitante, mentre in realtà ha scelto di restare con noi in tutte le ore dell’esistenza, anche le più tragiche, per offrirci la sola chiave interpretativa possibile delle tragiche vicende umane e delle enormi sofferenze che esse producono.

Dopo cinque anni, il dramma di Marco Biagi continua a pesare sulla coscienza civile del nostro Paese e si pone anch’esso come “segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Cf. Lc 2,34-35). Non si può rimanere indifferenti di fronte a delitti abominevoli come questo. Continuare a tergiversare significa favorire progetti eversivi e coltivare nei giovani la propensione alla violenza, già presente nel nostro Paese con indici preoccupanti.

Lo stesso Presidente della Repubblica ricevendo la sposa di Marco, Marina Orlandi, ha dato consistenza alle parole da lui pronunciate il 21 febbraio scorso a Palazzo Re Enzo, dove riconosceva l’appassionata dedizione e l’alto contributo di questo docente alla causa del lavoro, per una regolamentazione obiettiva da parte dello Stato, capace di superare la perdurante conflittualità generazionale.

É un segnale questo che spinge a guardare la realtà sociale col metodo della riconciliazione e del dialogo, per continuare la riflessione sulle dinamiche economiche e sociali su basi oggettive. Oggi deve prevalere il metodo del confronto e non dello scontro di piazza, terreno fertile per chi “va in giro come un leone ruggente cercando chi divorare” (Cf. 1Pt 5,8).

É necessario e urgente, proseguire, senza pregiudizi, sulla strada tracciata da Marco e bagnata con il suo sangue. É la via del “cum-promittere”, cioè dell’instancabile confronto tra le parti sociali della migliore soluzione possibile nella salvaguardia del diritto al lavoro, che è condizione indispensabile per la libertà, lo sviluppo integrale della persona e l’incremento qualitativo della nostra democrazia.

L’emergere nella società di questi germogli di speranza, purtroppo, è reso difficile dal permanere, sullo sfondo della nostra dialettica sociale, di spinte aggressive che ripresentano in chiave attuale l’arroganza di Erode, spinte spesso ignorate o sottovalutate.

In questi giorni, in occasione del 30° anniversario dei fatti del ’77, molte sono state le analisi e le interpretazioni di quel fenomeno sociale. Ma oggi, come allora, permangono miopie che rischiano di codificare valori che tali non sono.

Quando si ripropongono ai giovani quei “maestri del sospetto”, che hanno fatto della violenza contro gli innocenti lo scopo della loro battaglia politica, si riaprono smagliature nel tessuto sociale, che umiliano la ragione e compromettono lo sviluppo dei tanti germi di speranza che lo Spirito di Cristo risorto continua a spargere abbondantemente nel cuore di ogni uomo di buona volontà.

Ora, il ricorso alla violenza è in contrasto non solo con la natura di Dio che è amore (Cf. 1 Gv 4,16), ma anche con quella dell’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza e introduce nella pedagogia educativa elementi di ambiguità.

L’esemplarità di Marco ci ricorda che un’autentica pedagogia formativa agisce su tre fronti: il buon uso dell’intelligenza, contro l’irrazionalità dilagante; la conoscenza della verità, per l’esercizio maturo della libertà; la gestione della propria capacità di amare, fino alla riscoperta del fascino delle scelte definitive, per una piena donazione di sé.

I giovani non hanno bisogno di eroi ideologicamente costruiti, ma di uomini veri come Marco Biagi che, sulla scia di Giuseppe di Nazareth, ha fatto il suo dovere, in tutti gli ambiti della sua esistenza, non lasciandosi catturare da progetti parziali. Sostenuto dalla sua fede in Cristo, ha accettato i rischi di chi non si ferma ai traguardi raggiunti e persegue una misura alta del proprio impegno civile in una prospettiva che va oltre i confini della terra. Per questo possiamo cantare riconoscenti il canto di comunione: «Bene, servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo Signore» ( Mt 25,21)

19/03/2007
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