S. Messa Solenne nel 10° anniversario della consacrazione episcopale

Bologna, Cattedrale

(Nm 21, 4b-9; Sal 77; Fil 2, 6-11; Gv 3,13-17)

Ringrazio S.Em. il Cardinale Carlo Caffarra, nostro Arcivescovo, per questa convocazione eucaristica, che egli ha voluto e promosso in occasione del 10° anniversario della mia consacrazione episcopale. Il 13 settembre 1998 era presente anche Lui tra i 18 Vescovi che, con S.Em. il Cardinale Giacomo Biffi, mi hanno conferito il dono dello Spirito Santo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione.

Inoltre, ringrazio il Cardinale anche per le confortanti parole pronunciate nei miei confronti, che vanno oltre i miei meriti, ma che accolgo come stimolo per incrementare ulteriormente la mia comunione con Cristo, e con la Chiesa, in particolare con Lui, con i Sacerdoti e i Diaconi, i Religiosi e le Religiose e tantissimi bravi Laici, che animano le nostre parrocchie e le tante aggregazioni, che danno consistenza alla Santa Chiesa pellegrina in Bologna.

Ma c’è un altro motivo che stimola, da parte mia, una sempre maggiore comunione con il nostro Arcivescovo, perché entrambi facciamo parte, tramite il Cardinale Biffi, della stessa genealogia episcopale, che, in certo modo, rende percepibile la successione apostolica che ci ha coinvolti. In essa appaiono ben cinque Papi: Benedetto XIV, S. Pio X, Benedetto XV, Pio XII, Paolo VI.

* * *
Una felice coincidenza, quest’anno, ha inserito la Festa dell’Esaltazione della Croce nel contesto della XXIV domenica del Tempo Ordinario. Tale circostanza offre l’opportunità di celebrare con più evidente espressività liturgica il “sacramento della Pasqua”, dove Croce e Risurrezione si compenetrano inseparabilmente nell’unico mistero.
In questo contesto, il nostro rendimento di grazie, secondo l’ecclesiologia paolina, assume consistenza sacramentale dal Corpo di Cristo, l’Eucaristia, che “sboccia” in noi, membri della Chiesa, della quale Cristo è il Capo e nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).

La ricorrenza che ci ha qui convocati non permette di dare adeguato sviluppo al tema biblico oggi proposto, che, però, trova un’esplicita allusione nella simbologia del pastorale del Vescovo, dove serpente e agnello sintetizzano il senso del mistero della Croce. Per neutralizzare le insidie mortali dei serpenti velenosi, il Signore disse a Mosè, nel deserto: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta… chiunque lo guarderà resterà in vita” (Nm 21,9). Gesù, invece, nel colloquio con Nicodemo, identifica se stesso col serpente: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-17).

Gesù Cristo, dunque, immolato sulla Croce, ha sostituito l’antico serpente di bronzo e si è fatto agnello sacrificale della nuova Pasqua. Lo stesso Giovanni Battista, vedendo Gesù a Betania, al di là del Giordano, disse: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Contemplando il Crocifisso glorificato, allora, ogni uomo ha la possibilità di risalire all’origine della sua “vocazione” e di riscoprire che tutti siamo “predestinati” ad essere conformi all’immagine di Cristo (cf. Rm 8,29; Ef 1, 3-7), “che ha pacificato, con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (cf. Col 1,20).

Cristo diventa così l’icona dell’amore di Dio per noi, come ha ribadito il Vangelo di Giovanni: “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). * * *

È su questo orizzonte che ho ripercorso i tratti essenziali e decisivi della mia vita, alla luce del Salmo 90, che ci mette sull’avviso: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti… passano presto e noi ci dileguiamo” (v. 10). Perciò ho imparato a contare i miei giorni nella speranza di raggiungere “la sapienza del cuore” (v. 12), cioè il “timore di Dio” come dono dello Spirito.

Questo timore non è la paura, ma è la condizione che introduce nello stupore, nella venerazione, nella bellezza della maestà onnipotente di Dio, attraverso “la parola della Croce, che non è stoltezza… ma potenza di Dio” (cf. 1 Cor 1,19).

Perciò ogni giorno, quando indosso la croce episcopale, è per me uno stimolo a ricordare le parole di Paolo: “Ora sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Debbo riconoscere che il Signore, lungo le fasi della mia esistenza, mi è sempre stato vicino, mi ha protetto, mi ha chiamato a lavorare nella sua vigna, con facilità di parola e voce tonante, caratteristica, questa, che aveva persuaso mio padre ad escludermi dall’elenco dei candidati all’episcopato. Comunque, il Signore mi ha fatto crescere nella Chiesa, regalandomi un forte senso di appartenenza ad essa e alla Nazione italiana, per questo, voglio tanto bene alla Chiesa e voglio tanto bene all’Italia.

La mia breve storia episcopale attinge le sue caratteristiche dalla quotidianità ecclesiale e si dipana su un dono del tutto gratuito, pertanto non ascrivibile ai miei meriti particolari: quanti sacerdoti ci sono nella Chiesa di Bologna più degni e più bravi di me, eppure sono stato chiamato io “con la mia storia e la mia concreta umanità”.

Ho sentito su di me il peso di questa responsabilità e, nonostante i miei limiti, ho cercato di rispondere alla volontà del Signore, con tutte le mie energie, sapendo che la grazia della consacrazione alimenta, nel collegio episcopale, carismi molto diversi tra loro.

Come ci ricordava il Cardinale Biffi nell’omelia della mia ordinazione, “nel collegio apostolico hanno trovato posto tanto Filippo e Andrea, aperti alla mediazione e al dialogo (cf. Gv 12,21-22), quanto Giacomo e Giovanni, gli impetuosi e un po’ intolleranti «figli del tuono» (cf. Lc 9,54-55)”.

Lo Spirito della Pentecoste, però, senza azzerare la loro personalità, li ha portati verso una consapevolezza comune, espressa per tutti dall’Apostolo Pietro: “Gesù di Nazaret che voi avete crocifisso… è risuscitato… noi tutti ne siamo testimoni” (cf. At 2,21-36). Ne consegue che, i chiamati all’episcopato debbono adeguare la loro vita e il loro magistero all’esigenza primaria di essere testimoni di Cristo inchiodato sulla Croce e ora vivente nella sua Chiesa.

Non per nulla, dieci anni fa, due diaconi, durante la preghiera consacratoria, reggevano il libro aperto dei Vangeli sul mio capo, per significare che l’annuncio integrale del Vangelo è il compito principale del Vescovo. Ma al centro del Vangelo ci sta la “buona notizia” che Gesù, è “veramente risorto” (Lc 24,34) e che il Vescovo è chiamato ad annunciare, a tutti e in ogni ambiente, con “carisma certo di verità” (Cf. Dei Verbum, 8).

La fede realistica nella risurrezione, infatti, è la “chiave interpretativa” per comprendere l’essenza del cristianesimo. I tentativi, oggi, di imprigionare l’avvenimento oggettivo della risurrezione dentro una visione soggettiva di tipo esistenzialista, idealistica o personalista, si perde nel grande labirinto delle pre-comprensioni umane, oscurando l’opera di Dio (Cf. Leo Card. Scheffczyk, Il mondo della fede cattolica, V e P, 202-224). “Se Cristo non è risuscitato – scrive Paolo – allora è vana la nostra predicazione e vana è anche la nostra fede” (1 Cor 15,14).

Se il Signore mi lascia ancora la salute e il Cardinale Arcivescovo non esaurisce la sua benevolenza e pazienza nei miei confronti, continuerò a servire questa Santa Chiesa di Bologna, rimanendo ben solido, per grazia di Dio, nella fede di sempre.

Ciò non significa chiudersi nella zona franca delle proprie certezze, ma non stancarsi mai di accompagnare l’umanità del XXI secolo con la “luce” della verità di Gesù e il “sale” del suo amore. A tale scopo, oggi, è necessario seguire il cammino tracciato da Benedetto XVI, che ci sta aiutando a superare indenni le maglie di un relativismo culturale, teologico e morale inconcludente e distruttivo.

Senza Dio e senza certezze l’umanesimo non ha futuro e la cultura europea rischia di rimanere senza fondamento. È indispensabile, dunque, ricostruire il legame tra fede, ragione e storia che,in passato, in Europa, ha dato buona prova di sé.

Oggi, pertanto, bisogna rompere ogni indugio e avere il coraggio di superare alcune pre comprensioni che, nel tempo si sono rivelate sterili. Una società moderna, intraprendente, democratica, autenticamente laica, capace di sviluppo e di concreta solidarietà sociale, non si può costruire relegando Dio nei meandri della coscienza individuale.

Il cristianesimo ha una prospettiva “globale”, perché ha tra le sue caratteristiche la “cattolicità”, cioè la capacità di vedere le cose “secondo il tutto”. Ciò dà al cattolicesimo – dice il Papa – la dimensione dell’universalità, un tratto che appartiene sia a Dio sia alla ragione umana aperta al mistero e al trascendente. Perciò il vero cattolico è chiamato, mediante la Parola, i Sacramenti e la testimonianza della carità, a trasfigurare tutto l’uomo, in tutti gli ambiti della sua vita, facendo leva sulle risorse della ragione come ci ha ricordato il Convegno Ecclesiale di Verona.

Il nostro Cardinale Arcivescovo, con le sue Note pastorali, ci ha già dato le coordinate e il metodo giusto per continuare, oggi, il compito di una nuova evangelizzazione: dal primo annuncio, al compito educativo, all’animazione cristiana della società, partendo dalla famiglia e dalle nuove generazioni, che hanno bisogno di essere educate al buon uso dell’intelligenza, alla gestione della loro libertà, a orientare secondo verità, la loro capacità di amare. Solo così potranno riscoprire il fascino della chiamata alla “speciale consacrazione”, nel sacerdozio, nella vita religiosa maschile e femminile, nella stabilità della famiglia fondata sul sacramento del Matrimonio.

Ma tutto questo esige che ci mettiamo in cammino con Maria sul Calvario, per riscoprire il fascino della Croce, che scaccia il male dal mondo e stringe in un unico abbraccio l’universo intero. Lo ha detto Gesù: “Io, quando sarò elevato da terra, attirrerò tutti a me” (f. Gv 12,31-32), per questo Giovanni aggiunge: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Infatti “dal Cristo dormiente sulla Croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa. (Sacrosanctum Concilium, 5).

14/09/2008
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