solennità del corpus domini

Bologna, Piazza Maggiore

La vita dell’uomo sulla terra, dal primo all’ultimo giorno, è un “fatale andare” che non si arresta mai e corre verso un’immancabile destinazione, la si conosca o non la si conosca.
Quale destinazione? Coloro che, come li qualifica san Paolo, “non hanno speranza” (cfr. 1 Ts 4,12) ritengono che una vera e propria destinazione non ci sia; che il nostro procedere sia perciò senza scopo; che il passare veloce delle stagioni sia un correre verso il niente; che dunque l’intera esistenza sia sostanzialmente un inspiegabile assurdo. E magari, per arrivare a questa bella conclusione, infilano ragionamenti su ragionamenti, scrivono libri su libri, fanno indagini scientifiche e complicate ricerche.
Non è il nostro caso. Noi che siano sfilati in processione per le vie di Bologna abbiamo sì evocato il più semplice e fondamentale mistero umano, che è il mistero del nostro esistere come di un viaggio che a nessuno è dato di disertare; ma l’abbiamo vissuto e proposto come un mistero di luce, di gioia, di razionale tensione verso una mèta. Per questo abbiamo rischiarato le nostre strade, le abbiamo fatte risonare dei nostri canti, le abbiamo animate con le nostre invocazioni appassionate e serene.
Il nostro camminare di credenti, ordinato e sicuro, è stata un’azione appagata e ricca di senso, perché avevamo con noi colui che è “la via, la verita e la vita” (cfr. Gv 14,6): noi non possiamo mai sentirci come gente dispersa che vaga a caso nel mondo tra mille illusioni e mille tristezze, tra mille euforie effimere e mille ritornanti paure.
Il Signore Gesù, giunto al termine, ha riassunto e delineato la sua avventura terrena come un viaggio dal Dio, che è principio di tutto, allo stesso Dio che di tutto è l’approdo: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre” (Gv 26,28).
Ma questa sintesi è una splendida certezza anche per noi, suoi discepoli, che siamo divenuti partecipi del suo destino.
Chi crede alla sua parola, sa che il nascere è partire dalle mani del Creatore, che ci chiama e ci trae dal nulla; e il nostro vivere è un tornare a colui che ci attende per introdurci nel suo giorno senza tramonto e nella sua pace senza turbamento.
Come si vede, la processione che stasera abbiamo compiuto non è una vecchia e superata consuetudine, ereditata da epoche irrimediabilmente diverse e remote dalla sensibilità odierna. Al contrario, è la raffigurazione, sempre eloquente e attuale, di quello che siamo; è la “icona” della Chiesa in marcia verso la città futura (cfr. Eb 13,14) che Dio le sta preparando (cfr. Eb 11,16); è la parabola sceneggiata della Sposa di Cristo che avanza nella storia senza lasciarsi impigliare o condizionare, ma anzi illuminando e arricchendo successivamente ogni epoca con la verità eterna che le è stata rivelata e con la saggezza sempre giovane del Vangelo.

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Noi siamo l’Israele pienamente realizzato, che sta attraversando il deserto insidiato del tempo ed è avviato alla “terra della promessa”, cioè al Regno aperto e svelato dei cieli.
In questo arduo e penoso percorso, non abbiamo con noi soltanto i simboli dell’alleanza con Dio: abbiamo con noi colui che è la stessa Alleanza nuova ed eterna, resa persona nell’Unigenito del Padre, nato da Maria e divenuto uno di noi. Nell’esperienza ecclesiale il mistero del peregrinare umano fortunatamente si congiunge dunque – e si illumina – col mistero della presenza reale tra noi di colui che ha detto: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
Questa è appunto la gratificante persuasione che ci è riproposta nel sacramento del “Corpo dato” e del “Sangue versato” dell’unico necessario Redentore di tutti.
Siamo sì, come tutti i figli di Adamo, anche noi viandanti in mezzo ad accadimenti spesso ostili e alle difficili prove della vita. Ma lo stesso Figlio di Dio crocifisso e risorto, veramente, realmente, corporalmente immanente nel rito che celebriamo, è viandante con noi e ci sorregge: pellegrino coi suoi fratelli pellegrini, è divenuto il nostro conforto, la ragione della nostra letizia, il fondamento della nostra speranza.
Nell’ora inquieta dello smarrimento e dell’incertezza, è ancora la sua mano che afferra chi sta per sommergere, è ancora la sua voce che dice a ciascuno (come già ha detto a Pietro): “Uomo di poca fede, perché vuoi dubitare?” (cfr. Mt 14,31).
Nell’ora della sofferenza, della sventura, della separazione dai nostri cari, ripete anche a noi (come alle sorelle di Lazzaro) le parole che aprono il cuore all’attesa dei prodigi divini.
Nell’ora dell’avvilimento e del rimorso, ci ridona la certezza che la sua misericordia è sempre più grande di ogni nostra miseria, e propizia anche a noi, come al figlio prodigo, il ritorno alla casa del Padre.
Nell’ora del male che sembra soverchiante e invincibile, nell’ora della cristianità arresa e avvilita, nell’ora della confusione delle menti e delle coscienze, il Signore nell’Eucaristia è sempre con noi con la realtà del suo essere, del suo sacrificio, del suo trionfo pasquale, e (come già agli apostoli nell’imminenza della sua passione) ci ridà sicurezza e ci garantisce: “Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo!) (cfr. Gv 16,33).

30/05/2002
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