solenntità del corpus domini

Bologna, Cattedrale

“Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me” (1 Cor 11,24). Così – con le parole che ci sono state trascritte e testimoniate da san Paolo – il Signore Gesù identifica sorprendentemente il pane misterioso che era nelle sue mani all’ultima cena; il pane che ancora sta al centro della liturgia di questa sera; una liturgia compiuta, secondo il comando, “in sua memoria”, una liturgia così colma di entusiasmo e di amore che dall’altare è traboccata fino ad animare e, per così dire, a consacrare l’intera nostra città.

“Il mio corpo che è per voi”; vale a dire, secondo la forma riferitaci dal vangelo di Giovanni: “È la mia carne per la vita del mondo” (cf Gv 6,51). La festa del “Corpus Domini” e la sua tradizionale processione – come anche in maniera eccezionale il Congresso Eucaristico, al quale ancora ripensiamo con commozione e con gioia – sono quasi la trascrizione scenica, una specie di “gigantografia”, che manifesta a forti tinte e a grandi dimensioni la breve, semplice, inaudita, sconvolgente parola: “È la mia carne per la vita del mondo”.

Noi qui ci troviamo di fronte all’evento centrale della storia, nella sua dimensione essenzialmente sacrificale.
Dopo i presagi e le anticipazioni in figura della candida offerta di Abele, della drammatica obbedienza di Abramo, dell’oblazione misteriosa di Melchisedek re di Salem e sacerdote dell’Altissimo, questo sacrificio è stato finalmente avverato sul Calvario, una volta per sempre, con la passione e la morte di Gesù, il vero Agnello che prende su di sè e cancella le colpe di tutti. Come proclama nel tempo di Pasqua la Chiesa: “Diede compimento ai sacrifici antichi, e donandosi per la nostra redenzione divenne altare, vittima e sacerdote”.

Nessuno però immagini che questo fatto, che è il cuore dell’universo e dell’intera vicenda umana, sia un accadimento esaurito, tutto racchiuso nell’ora cruenta del Golgota.
Quel medesimo e unico sacrificio è sempre con noi. Accompagna ogni generazione nel suo difficile e arduo cammino; e dunque arricchisce e rianima anche l’umanità che vive “oggi” e “qui”: l’umanità che è sempre oggettivamente bisognosa di perdono, di risurrezione interiore, della verità che vince ogni scetticismo, della speranza che non delude.
“Questo – ci ricorda Gesù – è il mio corpo che è per voi”. In questa realtà, semplice come il più comune alimento e trascendente come l’amore creativo di Dio, possiamo trovare ogni ragione per non esistere invano e ogni energia per costruire liberamente il nostro destino di risposta al Padre e alla sua eterna chiamata.

Eucaristia e vita formano dunque un binomio inscindibile. Se è avulsa dalla vita ed estranea alla storia dell’uomo, l’azione eucaristica rischia di apparire un ritualismo vuoto. E reciprocamente, quando il correre, l’agitarsi, il soffrire dei figli di Adamo ignora l’Eucaristia può diventare spesso opaco fino all’assurdità, e non ha più difesa contro i morsi della disperazione in agguato.
Se vogliamo che tanto la nostra messa quanto la nostra esistenza siano quello che devono essere secondo il disegno del Creatore, dobbiamo far sì che l’intero nostro vivere si ricollochi entro il contesto sacramentale che può illuminarlo e trasformarlo integralmente, così come transustanzia il
Portare la vita nella messa significa anzitutto sottoporla al giudizio della parola di Dio, che nella celebrazione infallibilmente risuona.

Nella luce di questa parola le illusioni del nostro orgoglio, le adulazioni interessate, le opinioni superficiali che di noi si fa la gente che valuta solo l’esterno e non il cuore, si squagliano come neve al sole. Ogni maschera cede; e appare anche a noi stessi la nostra nuda realtà.
Resi allora consapevoli dei nostri compromessi e dei nostri cedimenti, delle nostre resistenze alla grazia e delle nostre incoerenze, non potremo più presenziare con indifferenza e passività al sacrificio di colui che si immola per i nostri peccati.
Portare la vita nella messa vuol dire inserire sempre più intimamente il nostro esistere, il nostro pensare, il nostro operare nella concretezza salvifica della Chiesa, che è continuamente costruita e avvivata dal sacramento del “Corpo dato” del “Sangue sparso”.

La partecipazione eucaristica non è mai qualcosa di puramente individuale, da utilizzare a proprio piacimento e secondo i propri criteri: è sempre comunione con colui che è il “capo” del corpo ecclesiale e con tutta l’autentica famiglia di Dio.
Sicchè una duplice attenzione è postulata: a Cristo che si immola e agli altri per cui Cristo si immola. Due sollecitudini che non sono mai separabili.
Non uno sguardo puramente sociale o filantropico deve essere quello che riserviamo ai fratelli, noi che seriamente celebriamo l’eucaristia. Bensì si deve sempre più affermare in noi l’abitudine a cercare e a scorgere negli altri l’arcana immanenza del Figlio di Dio crocifisso e risorto, il solo che sa davvero ridurre e abolire ogni distanza e ogni separazione, il solo che di ogni “lontano” sa fare un “vicino”, di ogni essere che ci è o ci pare indifferente e ostile un “prossimo” da amare con lo stesso amore con cui lo ama lui.

Come membro consapevole della “città terrena”, il cristiano porta nella messa anche la sua generosa e fattiva partecipazione ai problemi del mondo. Vi reca le ansie dei giovani che cercano, spesso senza rendersene conto, ideali veri e duraturi; i tormenti per una più giusta organizzazione del lavoro; le ansie per la sopravvivenza e lo sviluppo della compagine familiare. Vi reca le umiliazioni degli anziani emarginati, dei deboli oppressi, dei semplici ingannati dai falsi maestri. Vi reca le contraddizioni di una società che condanna il male nelle conseguenze e apertamente lo favorisce nelle cause che lo preparano.

Perchè il credente sa che dal “pane di vita”, dal “corpo che è dato per noi”, proviene agli uomini ogni necessario rimedio e ogni non illusoria salvezza.

11/06/1998
condividi su