“ Te Deum” di fine anno

Bologna, Basilica di San Petronio

La parola che principalmente ispira e motiva questo tradizionale appuntamento dell’ultimo dell’anno – questo nostro convenire in orazione davanti al Signore della storia – è la parola “grazie”. Siamo qui per esprimere la nostra gratitudine a colui che è la fonte di ogni valore e il fondamento di ogni nostra sicurezza.
Il nostro è un atto di adorazione e di affetto verso il Datore di ogni bene che, pur nel succedersi di accadimenti dolenti e preoccupati (come sono stati spesso quelli del 2003), ci ha manifestato la sua benevolenza e non ci ha fatto mancare il suo aiuto. Ma è anche un atto santamente interessato, perché il saper ringraziare significa assicurarsi la protezione divina anche per le incognite dell’avvenire.

Un illuminato testo liturgico così ci fa dire al Dio onnipotente ed eterno:
“ E’ giusto glorificarti per gli aiuti del passato
e supplicarti per le grazie future;
è bello manifestare riconoscenza dei benefici ricevuti
per attendere con animo meno indegno
i doni che da te ancora speriamo” (Messale ambrosiano,
per il ringraziamento).

“ I doni che da te ancora speriamo”: non solo il ringraziamento, ma anche la speranza è il tema della nostra preghiera di stasera.
Mai come di questi tempi l’uomo ha avuto bisogno di speranza; cioè ha avuto bisogno di vincere le sue angosce e di superare le molte ragioni della sua paura.
E’ un bisogno estremo e una necessità inderogabile, perché per vivere umanamente si deve essere certi di avere un futuro; un futuro che ci consenta di esistere secondo la nostra dignità di figli di Dio, creati a immagine del Signore Gesù.

Che cos’è la speranza cristiana? E’ un aspirare desideroso e insieme rasserenato dalla fiducia: è un aspirare prima ad avere giorni passabilmente quieti sulla terra e poi a entrare nella gioia senza fine che ci è stata promessa. E’ un “attender certo”, come dice Dante (Paradiso XXV,67), giustificato dalla nostra persuasione di avere in cielo un Padre che è fedele e non si stanca di volerci bene.
Non è dunque una sicurezza che sia sorretta dalle bravure umane (che pur sono ammirevoli): i progressi scientifici e tecnici sono anzi la premessa di qualche nostro sgomento.

Non è un affidarsi ai discorsi e ai progetti di quanti si dedicano, sia pur con impegno meritorio, a preparare e a forgiare le sorti dei popoli: proprio da questi discorsi e da questi progetti provengono alcune delle nostre apprensioni.
Neppure è alimentata dalla capacità dialettica dei pensatori professionisti: le loro argomentazioni, anche quando sono acute e originali, di solito ci lasciano col cuore inquieto e una sete inappagata di verità sostanziale.

L’uomo, se conta unicamente su questi tentativi autonomi di speranza, di solito arriva soltanto a proiettare sul telone dell’avvenire i fantasmi dei suoi sogni, dei suoi impulsi, delle sue ambizioni. Ed è una visione illusoria, priva di consistenza vitale, come quella di un film.
La speranza salvifica ci viene dall’alto; perciò siamo qui a implorarla nella casa di Dio. La speranza vera è la speranza cristiana, che è solida e pacificante appunto perché non dipende da noi: non si appoggia su ciò che è nostro ed è sottratta ai nostri condizionamenti e alle nostre arbitrarie pretese.

Per questo noi possiamo “sperare contro ogni speranza” (cfr. Rm 4,18), come è detto di Abramo nostro padre nella fede: vale a dire, speriamo con la forza dello Spirito del Risorto al di fuori di tutte le infatuazioni e di tutti i calcoli mondani, che cercano ci incoraggiarci “laicamente” e ci riescono così poco.
Il credente sa di avere un avvenire indubitabile: prima nel tempo presente, provato e pieno di insidie sì, ma sempre solido e rianimato per l’indefettibile presenza della comunione ecclesiale; e poi nel Regno de cieli, un Regno di luce che non patirà alcun black-out.

Il credente sa di avere in ogni caso un futuro, perché non dimentica che c’è stato per lui un passato di riscatto e di rinnovamento, un passato di redenzione acquisito una volta per tutte: l’incarnazione irreversibile dell’Unigenito di Dio, che siamo tornati a contemplare da vicino in questi giorni natalizi, e la vittoria pasquale di Cristo (che celebriamo ogni domenica).
Perciò tra qualche istante potremo cantare al Signore Gesù con animo libero da ogni timore: “Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno”.

In questo 2003 che sta morendo, la nostra arcidiocesi ha ricevuto un concreto e decisivo messaggio di speranza: la designazione del suo 119° pastore. E’ il segno lieto e gratificante – chi lo sa leggere con l’intelligenza della fede – che la nostra Chiesa continua il suo difficile ed entusiasmante cammino nella storia verso l’incontro col suo Sposo e Maestro, che verrà “a giudicare il mondo alla fine dei tempi”.

E’ un filo d’oro che ci lega a san Zama, primo vescovo di questa città e a tutti i vescovi bolognesi. Ed è, come si vede, un filo che non si spezza.
Resta a garantirci non solo la nostra connessione con Cristo, unico Signore e Salvatore di tutti (di tutti i figli di Adamo, di tutte le genti, di tutte le culture), ma anche il permanere della nostra bella e irrinunciabile identità petroniana.

31/12/2003
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