funerali di don Giuseppe Gambari

Bologna

Quando ci imbattiamo nella morte – soprattutto se è la morte di una persona amica e cara al nostro cuore – e siamo quasi costretti a guardare in faccia al suo mistero, le cose e gli accadimenti ci appaiono in una prospettiva nuova e più vera. E ci è più facile capire quali siano i valori autentici della vita.

In questa luce comprendiamo che gli uomini fortunati – gli uomini “beati”, come li chiama il Signore – non sono quelli che possiedono molto (e perciò devono lasciare molto), ma quelli che hanno l’animo più distaccato dai beni della terra e dunque più libero; non sono quelli che inseguono freneticamente tutti i possibili godimenti, ma quelli che le pene fisiche o spirituali, ben sopportate, preparano meglio alle consolazioni del cielo; non sono quelli che sanno infliggere agli altri la loro prepotenza, ma quelli che affascinano il cuore di Dio e degli uomini con la loro mansuetudine, la loro disponibilità, la loro dolcezza.

In una parola, alla luce della morte – luce che sembra impietosa ed è soltanto rivelatrice – noi arriviamo a cogliere in profondità la verità delle “beatitudini”, che il Signore ha proclamato dal monte, come premessa e ispirazione di tutta la legge evangelica, e che in questa celebrazione ci è stata riproposta ancora una volta.

Il che diventa singolarmente chiaro per noi in quest’ora di mestizia, che ci invita a ripensare nella fede e nella commozione alla personalità, al lavoro apostolico, alla lunga prova della malattia, al passaggio da questo mondo alla casa del Padre, di un sacerdote che è vissuto tra noi facendo a tutti del bene e adesso è andato a ricevere, fidando nell’infallibile assicurazione del Signore, l’eredità del Regno dei cieli, del luogo di ogni consolazione, della terra promessa ricca di tutti i beni.

Dalla sua prima giovinezza don Giuseppe è stato attratto dall’ideale sacerdotale, e più specificamente si è sentito chiamato a spendere l’intera sua esistenza per l’evangelizzazione e la santificazione di coloro che nei vari ambienti di lavoro devono guadagnarsi ogni giorno da vivere. Di qui la sua scelta di entrare nella fraternità presbiterale dell’ONARMO, cui è rimasto fedele sino alla fine.

Così vari stabilimenti l’hanno potuto avere e apprezzare come cappellano di fabbrica.

Ma molte comunità cristiane della nostra diocesi gli devono riconoscenza: non solo Villa Pallavicini, ma anche le parrocchie di Santa Caterina di via Saragozza, Santa Lucia di Casalecchio, Santi Savino e Silvestro di Corticella, Santa Maria Annunziata di Fossolo, si sono avvantaggiati del suo ministero generoso. E per più di vent’anni egli ha atteso anche all’insegnamento della religione negli Istituti statali.

Soprattutto ha amato la minuscola famiglia parrocchiale dello Spirito Santo, da lui guidata per trentadue anni. In quella piccola chiesa convenivano ad ascoltarlo e a intrattenersi con lui non solo i parrocchiani, ma anche una folla di amici provenienti un po’ da tutte le parti.

Perché don Giuseppe aveva il dono di saper essere amico di tutti e una straordinaria capacità di capire, rasserenare, incoraggiare quanto si incontravano con lui.

La sua anima di apostolo non limitava il raggio della sua azione. Così si spiega l’impegno, di grande responsabilità e rilevanza, dell’assistenza alla Polizia di Stato, che ha connotato e ulteriormente impreziosito gli ultimi anni della sua esistenza, prima come cappellano del 7° Reparto Mobile di Bologna e poi come Cappellano territoriale per l’intera regione emiliano-romagnola; impegno, quest’ultimo che è praticamente coinciso con gli anni della sua malattia e che egli ha coraggiosamente fatto convivere con la dura prova della debolezza e della sofferenza.

Oggi noi compiamo questo rito di suffragio con cuore dolente ma sorretti dalla speranza cristiana, convinti come siamo che “colui che ha risuscitato il Signore Gesù. risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui” (2 Cor 4,14). Don Giuseppe ci ha solo preceduti a quell’appuntamento di gioia e di gloria.

E in questa liturgia lui stesso ci ricorda, con la fede che ha illuminato tutta la sua vita, che – come abbiamo ascoltato da san Paolo – “quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli” (2 Cor 5,1).

Allora noi, che oggi siamo nella pena e nel rimpianto, saremo consolati perché ritroveremo questo nostro amico carissimo, e ritroveremo quanti abbiamo amato e ci hanno amati: quanti i nostri occhi adesso non vedono più e sembrano persi per noi, e invece sono guadagnati per il destino comune di pace e di felicità che ci attende.

12/02/2000
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