Giornata Vittime della strada

Bologna, cattedrale

“Avverrà come a un uomo che chiama i suoi servi e consegna loro i suoi beni”. Il futuro inizia oggi: non è un domani indefinito, talmente lontano da apparire improbabile o non interessante per un mondo che pensa di calcolare tutto e legato all’immediato come il nostro.

Il domani è la rivelazione piena di quello che viviamo oggi, il compimento della nostra vita, il frutto delle nostre scelte. Pensare al domani ci aiuta a capire l’oggi, a scegliere e non rimandare più. Riceviamo tutti i suoi beni. Tutti. Si fida di noi.

Questa è la grazia. Non è un possesso: è un dono. Non è un possesso di qualcuno, ma di tanti. Siamo complementari, non competitivi. Ciascuno secondo le sue capacità. Lui si fida di noi senza porre condizioni: questa è la nostra forza e questo ci libera dalla paura.

Noi spesso pensiamo che il Signore chieda qualcosa di superiore alle nostre forze, troppo esigente tanto da arrivare a pensare che sia impossibile vivere il suo amore. Il talento è l’amore, vera immagine di Dio nascosta nel nostro cuore. Possiamo farci quello che crediamo.

Nessuno ci obbliga, siamo liberi, perché l’amore non può essere imposto e il nostro Dio è un padre che ci aiuta ad essere pienamente noi stessi. Per questo Gesù aggiunge che “a chi ha verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha”.

Ed è l’esperienza che già viviamo: se “impieghiamo” l’amore questo si moltiplica, diventa incontro, visita, disponibilità, legami, amicizie, solidarietà e questo riempie il cuore, porta gioia vera. Quando non lo impieghiamo perdiamo anche quello che abbiamo. L’amore non donato è perduto. 

I primi due servi impiegano i talenti e ne guadagnano, non a caso, un numero uguale: ogni parte spesa è trovata! L’ultimo servo ha paura. Quante paure condizionano le nostre scelte! Quella di non avere risposte desiderate o sufficienti, di restare delusi, di essere traditi.

Abbiamo paura di legarci agli altri, di sbagliare, di essere giudicati, di fare brutta figura. Abbiamo paura della debolezza, della malattia, della sofferenza, di qualcosa più forte di noi che ci possa trascinare dove noi non vogliamo. In fondo il ragionamento del servo (“restituisco il talento come l’ho avuto”) appare convincente, come il non prendersi responsabilità, conservare l’amore inerte, non sciuparsi mai per nessuno, non correre rischi per gli altri.

Questo servo pensa tutto sembra troppo complicato e il padrone troppo esigente. Non è il più poveretto. Anche gli altri avranno avuto paura e difficoltà nel rischiare ed impiegare il talento. L’ultimo preferisce non avere problemi. Il senso della parabola dei talenti è proprio quello di renderci consapevoli di quello che abbiamo e di vincere la paura.

Questa non giustifica ogni nostro atteggiamento. Non possiamo tenere l’amore inerte! E la paura non si vince con il coraggio ma con l’amore! La paura si vince forti della fiducia che ha avuto in noi, dell’amore che abbiamo per lui e dell’amore per il prossimo, per aiutarlo perché il mondo ha bisogno di persone che mettano a frutto la loro vita. Oggi è la giornata dei poveri.

Quanta povertà, quante domande esplicite e da sapere ascoltare, disperate perché tutto sembra crollare! Quanti poveri e quanti precipitano nella povertà a causa delle conseguenze della pandemia! Liberi dalla logica della convenienza personale, che rende avidi, impietosi e incapaci di lavorare con gli altri, spendiamo il talento per difendere dal male. Iniziamo ad aiutare chi non ce la fa, chi non ha niente e a farlo gratuitamente solo per amore.

Amando il povero ameremo anche la nostra vita e dando futuro lo troveremo anche noi. Siamo davvero sulla stessa barca! Non dobbiamo cercare risposte complessive e definitive, che poi alla fine ci portano a non fare niente perché non la troveremo mai, non saremo mai sicuri e perfetti. Rispondiamo con la nostra piccola, concreta fraternità con chi ha bisogno, perché sono piccoli i gesti dell’amore. Impieghiamo con intelligenza i nostri talenti, facciamolo per gli altri, perché questo vuole il nostro padre. Questo ha fatto Lui con noi: tutto quello che aveva ce lo ha regalato, perché diventasse nostro. 

Oggi ricordiamo le vittime della strada. E’ una memoria dolorosa, che a volte annichilisce. Ogni vittima è un nome, una storia irripetibile, unica. L’ultima che io conosca è la giovanissima Irene, di Castenaso.  Ricordiamo istanti che diventano eterni, metri che si disperdono nello spazio infinito.

Le vittime sono quel fiore bellissimo e delicatissimo descritto dal Salmo, fiore di campo che viene travolto dal vento tanto che questi “non è più” e non riconosce più il luogo dov’era (Ps. 103, 14). Gli incidenti ci lasciano increduli, attoniti perché non possiamo fare niente, sono irreparabili. Come nella pandemia le vittime ci rivelano la fragilità della nostra vita, la necessità di proteggersi e proteggere gli uni gli altri, ma a volte anche le complicità con il male che vuole disperdere il fragilissimo dono della vita.

Complicità sono le cose non fatte, i ritardi, le convenienze personali e non quelle di tutti, gli stili di guida inutilmente competitivi senza responsabilità per sé e per gli altri, il pensare a sé che mette in pericolo il prossimo, i rischi ignorati, le dipendenze. Facciamo nostra la sofferenza di chi ci ha lasciato e anche di chi è rimasto (per i quali spesso la vita è finita quel giorno), per diventare saggi, uniti e perseveranti nel combattere il male e per rendere la strada più sicura, luogo di incontro e di vita.

Nella sua ultima enciclica Papa Francesco ha chiesto a tutti la gentilezza, cioè uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce.

Applichiamolo alla strada (FT 222), perché con l’individualismo “gli altri diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità” e si “finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta”. “La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici”. E’ troppo chiederla nella vita e per la strada? A questa aggiungerei la pazienza: meglio aspettare un attimo in più, fare passare qualcuno piuttosto che perdere i giorni. 

Gesù lungo la strada cadde per tre volte sotto il peso della croce e ha detto di se stesso che è la via. La strada per i nostri cari e per noi non è terminata in quel punto dove sono stati travolti dalla tempesta, perché Dio ha affrontato Lui la tempesta per aprire la strada del cielo. Con il suo amore ha riparato quello che era irreparabile, la morte.

La croce unisce la terra e il cielo e non è più parola di fine ma di inizio, di vita. E il posto quel fiore lo trova, nel profondo del nostro cuore e nel più alto dei cieli, accanto a Dio che è venuto tra gli uomini a preparare un posto perché nessuno sia disperso dal male. 

15/11/2020
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