L’omelia del giorno di Natale 2019

Bologna, Cattedrale

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Natale può essere, a ben vedere, una grande delusione. Nella bulimia di immagini e di emozioni, ritenute sempre possibili e a disposizione, che finiscono per diventare tutte uguali perché nutrono la superficie e non l’anima, Natale lascia la vita così com’era. Se aspettavamo una vittoria risolutiva, qualcosa e non qualcuno, un capo che risolva tutto e ci eviti la fatica e la ricerca, ci sembra che tutto resta uguale a prima.

Tutta “l’irradiazione della sua gloria e l’impronta della sua sostanza” è un bambino? Sì, ed è lo scandalo del Natale. Gesù continua a venire tra la sua gente uomo, figlio di Maria e Giuseppe, forestieri. I suoi non lo hanno accolto. Certo, viene, non aspetta; non manda un altro; non mette condizioni previe. Natale è tutta la misericordia di Dio che invece di una legge manda il Figlio, che invece di un provvedimento manda se stesso, che invece di condannare salva, che invece di aspettare si mostra. 

Come è possibile non accoglierlo e perché sono proprio i suoi che non gli fanno spazio? E’ la stessa amara constatazione di quando diremo, sorpresi, “quando mai avevi fame e non ti ho dato da mangiare?”. L’indifferenza, l’orgoglio, il vittimismo, la paura, la rassegnazione non ci fanno accogliere Gesù che viene.

Non accoglie quel fariseo che c’è in ognuno di noi, che giudica ma non ama; che vuole sia fatto come pensa lui; che esige misericordia per sé ma non ne ha per gli altri; che cerca i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze ma non fa mai il primo passo verso il prossimo; che non considera o guarda con disprezzo o  paternalismo gli ultimi; che esibisce la sua preghiera e suona la tromba all’elemosina, invece di chiudersi nel segreto della stanza del cuore e ricordarsi del debito che ha; che condanna e non sa perdonare, si sente senza colpa e vede la pagliuzza; impone sacrifici, pensa la misericordia come una debolezza.

I suoi che non lo accolgono siamo noi che consumiamo tutto per nutrire il nostro io; noi troppo importanti per abbassarci ad accogliere due forestieri e pensiamo subito che non ci sia posto; quando pensiamo come il fratello maggior della parabola, giudichiamo persino il Padre perché ne proviamo fastidio per la misericordia; quando pensiamo male di un maestro che entra nelle case dei pubblicani e dei peccatori, tanto da dubitare che sia un profeta perché si lascia avvicinare da una peccatrice e con i nostri giudizi pensiamo di saperla più lunga di Lui.

Siamo i suoi che non lo accolgono quando siamo preoccupati delle pulizia delle nostre mani o di rispettare le nostre agende piuttosto che fermarci ad aiutare un uomo mezzo morto. Siamo i suoi che non lo hanno accolto quando l’amore di Gesù non è una gioia ma una legge, un compito eroico piuttosto che una grazia.

Siamo i suoi che non lo hanno accolto “nella preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità” o quando “la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione”. Siamo i suoi che non lo hanno accolto quando maturiamo “la sfiducia nei confronti del Vangelo considerato troppo ingenuo”, relativizziamo o occultiamo la nostra identità cristiana, vivendo come se Dio non esistesse, decidendo come se i poveri non esistessero e non ci riguardano.

Siamo i suoi che non lo accolgono quando ci sentiamo superiori agli altri perché osserviamo determinate norme, con una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. 

Ma allora chi lo accoglie? Chi si apre come un bambino alla legge dell’amore, chi ha bisogno di perdono e sente la prigionia delle proprie regole senza prossimo, chi non accetta l’ombra della morte per sé e per chi è in pericolo o nella sofferenza. Lo accolgono non i puri o i perfetti ma i peccatori che gridano e danno fastidio; chi sa piangere su di sé, chi chiede perdono e può cominciare di nuovo; chi si fida del suo amore e forte di questo non scappa più; si commuove per la sofferenza degli altri, chi non si arrende come la povera vedova, chi cerca guarigione per il suo servo e si fida della Parola, chi disperato chiede solo “ricordati di me nel tuo Regno”; chi si lascia guardare com’è, non si difende, non ha paura dell’amore, si lascia raggiungere da Dio e non scappa più e dice: Sì, Signore, ti voglio bene”. A questi ha dato potere di diventare figli di Dio, perché diventano nuovi anche se vecchi, sbagliati, perduti. 

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”. Ecco la gioia del Natale. Non scandalizziamoci per un Dio bambino e diventiamo anche noi bambini lasciandoci amare come siamo: solo un amore così può vincere l’uomo e renderlo figlio amato. Gesù cerca qualcuno che si innamori di Lui. La semplicità del Natale ci libera dalle infinite complicazioni egocentriche dell’amore per sé, sterili e mai sazie. La povertà del Natale ci aiuta a perdere tante ricchezze, perché troviamo quello che ci serve, il suo amore che non si compra e che proprio come l’amore vero si gusta perché è un regalo. La debolezza del Natale ci rende sensibili e spegne la forza violenta, aggressiva delle mani e della lingua. La domanda di amore del Natale ci aiuta a volere bene, ci libera dall’ossessione del prendere, dalle immagini pornografiche di una vita che non esiste e ci fa capire che solo chinarci sull’altro, regalare quello che abbiamo, donare, difendere quel bambino e i suoi fratelli più piccoli, vale più di qualsiasi sacrificio.

Sentendo quanto siamo amati troviamo risposta alla nostra sete di amore. Inginocchiamoci, con la preghiera e il servizio, davanti alla sua debolezza ed a quella dei suoi fratelli più piccoli. Farlo ci aiuta a non prostrarci davanti gli idoli della convenienza e del denaro. Con Sant’Alfonso Maria de Liguori, cantautore della misericordia, anche noi esclamiamo con cuore commosso: “Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo. O Dio beato, quanto ti costò l’avermi amato”. A tutti e a me. “Questa povertà più m’innamora giacché ti fece amor povero ancora!”. “Mio bello e puro agnello a che pensi dimmi Tu? O amore immenso, a morire per te, rispondi, io penso”. Sì, hai per me un amore immenso e questo amore per Te, per il prossimo e per me stesso voglio vivere. Grazie Signore. Il tuo amore è proprio un Buon Natale, il nostro Natale.

25/12/2019
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