solennità della Beata Vergine di San Luca

Bologna, Cattedrale

Beata colei che ha creduto” (Lc 1,45).
E’ la prima beatitudine dell’epoca evangelica; dell’epoca iniziata con l’ingresso personale nella vicenda umana dell’Unigenito del Padre. A voler essere un po’ ameni e paradossali potremmo dire che è la prima “beatificazione” ufficialmente proclamata. Con l’autorità che le viene dallo Spirito Santo (“piena di Spirito Santo”: Lc 1,41), Elisabetta dichiara “beata” Maria; e la dichiara beata in grazia della sua fede.

Con molta competenza teologica la moglie di Zaccaria indica dunque quale sia la causa prima e la fonte necessaria di ogni reale valore della creatura al cospetto di Dio. La causa prima e la fonte necessaria è la fede, “fundamentum et radix omnis iustificationis” (come insegna il concilio di Trento): fondamento e radice di ogni giustizia, cioè di ogni vita redenta e di ogni santità.

“ Beata colei che ha creduto”: la Madonna di San Luca, che secondo la sua amabile consuetudine anche stavolta è venuta a visitarci, quest’anno ci si offre dunque soprattutto come modello e maestra di fede.
Nella Vergine la fede è la risposta alla pienezza di grazia, da cui è stata gratificata, come ci ha rivelato il saluto dell’angelo; è l’accoglimento, consapevole e attivo, del grande dono ricevuto; è il riscontro logico e pertinente all’amore gratuito che l’ha investita e l’ha resa feconda.

Sappiamo che ogni atto di fede – e perciò anche quello di Maria – coinvolge e sollecita interamente il nostro essere, con tutte le sue potenze: l’intelligenza, la libertà, il sentimento, la naturale propensione alla rettitudine e al bene, il gusto del bello, la capacità d’amare, l’aspirazione a trovare un ideale cui conformare la vita. Così era la fede della madre di Gesù, così deve essere auspicabilmente la nostra.
Professare la fede vuol dire essere pronti a testimoniarla di fronte a tutti; vuol dire saper lottare con chi la combatte o la irride; vuol dire non temere di opporsi con quieta e sorridente franchezza a chi l’àltera o la travisa.

E’ quindi qualcosa di impegnativo, che richiede sforzo e tensione da parte nostra. Sicché è possibile che questa molteplice e laboriosa attività ci induca a ritenere che la fede sia atto del tutto autonomo del soggetto umano. Ma non è così: la fede è suscitata in noi da una luce dall’alto e da una forza che trascende ogni nostra esiguità e debolezza. “Nessuno può dire: Gesù è Signore <che è, come si sa, il compendio della fede pasquale>, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).

E lo Spirito è come il sole: il suo fulgore non è creato da noi; non deriva dal nostro occhio ma dall’esuberanza dei suoi caldi raggi. A noi tocca solo di non chiudere ogni accesso dell’anima di fronte a questo chiarore benefico.
Il paragone è di sant’Ambrogio, che soggiunge: “Quella vera fonte di luce risplende sì per tutti, ma chi terrà chiuse le sue finestre si priverà da solo della luce eterna. Anche Cristo dunque viene lasciato fuori, se tu chiudi la porta del tuo spirito.

Egli avrebbe la possibilità di entrare, ma non vuole farvi irruzione come un seccatore, non vuole imporre la sua presenza a chi non lo gradisce” (In psalmum 118 XII,13).
Maria, la prima credente, oggi ci invita a invocare ogni giorno il dono grande della fede e a invocarlo confidando nella sua intercessione materna. Ci aiuti lei a spalancare al “Sole di giustizia” tutte le nostre finestre interiori.

Il dono della fede si fa tanto più necessario quanto più ci si inoltra nel pellegrinaggio dell’esistenza.
Quando si diventa vecchi, non so se davvero si diventa più saggi, come qualcuno dice; ma certo si diventa umanamente sempre più poveri e soli: i progetti e le speranze, che un tempo ci avevano affascinato, si sono quasi tutti tramutati in ricordi; i compagni di viaggio più amati a uno a uno ci lasciano; le cose stesse del creato sembrano non aver più lo stesso fascino e lo stesso colore. E’ la stagione nella quale bisogna spendere tutta la nostra fede; è la stagione in cui bisogna renderla più intensa, più determinata, più viva, se non ci si vuol trovare senza appigli e senza sostegni nel deserto del mondo.

La stessa nostra morte, ereditata da Adamo, – è un pensiero che mi giunge da una pagina di san Bonaventura letta tanti anni fa – ha mantenuto un posto nel disegno di riscatto e di elevazione voluto dal Padre, perché è un’occasione impareggiabile per un alto e prezioso atto di fede: quello di credere che c’è per noi un destino di gioia e di gloria senza tramonto, proprio nel momento che sperimentiamo una fine che a quel che si vede non si diversifica affatto da quella dei bruti: “in credendo nos remunerari, qui videmur similes bestiis in moriendo” (IV Sententiarum d.43, a. I, q. III).

La Vergine “beata perché ha creduto” ci procuri dalla divina misericordia di mantenerci sempre e anzi di crescere in questa difficile fede, “adesso e nell’ora della nostra morte”.
“ Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45).
Come si vede, qui Elisabetta coglie e pone in risalto l’oggetto immediato del credere tipico e proprio di Maria, quale si manifesta nell’ora dell’Annunciazione. La Vergine crede all’incredibile vocazione che in quel momento le viene rivelata per mezzo di Gabriele, abbandonandosi totalmente all’eterno disegno del Padre su di lei: “Eccomi…Avvenga di me quello che hai detto” (cfr. Lc 1,38).

Quella che san Paolo chiama la “obbedienza della fede” (cfr. Rm 1,5; 16,26) in Maria s’identifica con l’obbedienza alla sua eccezionale “chiamata”, alla sua “vocazione” di “madre di Dio”.
Ed è una fede che non le è mai venuta meno. E’ sempre rimasta lucida e ardente, anche quando lo snodarsi degli avvenimenti sembrava smentire quel suo destino privilegiato e regale, che aveva liberamente accettato: pensiamo all’inospitalità di Betlemme, all’esilio egiziano, alla vita domestica nascosta e senza splendore, al distacco dal Figlio, divenuto un rabbino itinerante, e infine alla tremenda esperienza del Calvario.

Anche sotto questo preciso aspetto la Madre di Gesù è esemplare per noi che siamo gravati e onorati dal ministero apostolico. Perciò noi oggi vogliamo affidare la fede nella nostra vocazione e la nostra leale devozione verso il nostro sacerdozio (nonostante le prove, le difficoltà, le impressioni di insuccesso o addirittura di sterilità) alla sua protezione e alla sua affettuosa custodia.

Nel cuore di Maria non è mai venuta meno la letizia di essere stata prescelta e la rasserenante consapevolezza della predilezione di Dio. La Madonna di San Luca ci ottenga di assomigliarle anche in questo: nell’essere sempre gioiosamente fedeli alla nostra sorte fortunata, e di ripetere con convinzione le parole del salmo:
“Ho detto a Dio: ‘Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene…
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice;
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità” (Sal 16,2.5-6).

29/05/2003
condividi su